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Autore: Oggetto: Un campione indelebile, ed un monito…

Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




Posts: 4217
Registrato: Oct 2003

  postato il 13/10/2009 alle 11:47
Frank Vandenbroucke è nato il 6 novembre 1974 a Mouscron, vicino al confine con la Francia, all’estremità occidentale della Vallonia. Una zona promiscua di culture e di lingue, fra il fiammingo, il francese e l’olandese, per giungere a quell’intreccio che si usa da tempo lontano definire neerlandese. Chi nasce lì, possiede una facilità di apprendimento delle lingue che ne fanno un caso europeo, aspetto che poi accompagnerà la stessa vita di Frank.
La famiglia del piccolo Vandenbroucke, s’è costruita meno comune di quanto si pensi, perché nell’amore della bicicletta, che forma da un secolo l’effige di quella terra, lei, quel mezzo l’ha sempre posto come un monumento eretto vicino all’ingresso di casa. Tutti i suoi componenti di sesso maschile, si sono cimentati nell’agonismo ciclistico. Il padre di Frank, Jean Jacques, era stato professionista nell’Hertekamp-Magniflex nel 1970, ma era lo zio Jean Luc, la gloria. Sì proprio quello che nella Sanremo del ’76, fu l’ultimo a cedere ad Eddy Merckx.. Ma per Frank, l’infanzia non fu piacevole, ed ebbe persino poco tempo per sognare. A quattro anni, mentre come tanti, grandi e piccoli, assisteva ad un rally vicino casa sua, un’auto sbandò, uscì di carreggiata e lo travolse. Per un paio di giorni la sua vita fu appesa ad un filo: era pieno di fratture, ed un ginocchio, in particolare, pareva perduto. Subì quattro operazioni e per tre mesi non si poté muovere dal letto dell’ospedale. Poi, dopo il ritorno a casa, ancora mesi di rieducazione e sacrifici, abbastanza per essere segnati a lungo e, forse, perché mai ci si prende la briga di studiare questi lassi così particolari, per tutto il corso della crescita mentale. Ma il bambino superò fisicamente quel terribile impatto, anche se il recuperato guaio al ginocchio gli lasciò una gamba più corta in maniera ben più marcata rispetto a quella che coinvolge la quasi totalità delle persone.
Frank, sognava di correre in bicicletta, ma ai suoi tempi, fino al 1990, in Belgio, non si poteva iniziare l’agonismo su quel mezzo e l’attesa fu costretto a consumarla facendo altro. Si dimostrò subito un predestinato per lo sport, un percentile pazzesco, per chi studia questi aspetti. A 12 anni, dopo essersi mostrato levriero inavvicinabile, correndo a piedi su strade, campi, viottoli, sentieri e sterrati, giocando come l’età voleva anche entro le mura domestiche, si fratturò un gomito. Ma lui aveva qualcosa di alato e qualche settimana dopo, pur con un tutore all’arto, partecipò ai campionati nazionali di corsa campestre e li vinse. Incredibile e significativo l’accostamento che ne derivò facendo piovere il futuro su quel fatto: un simile caso in fascia adolescenziale su uno sport precedente il ciclismo, portava dritto ad un certo Eddy Merckx.
Frank poté finalmente diventare il “bambino d’oro” su una bici: era arrivato il 1989. Vinse e convinse, era bello come un dipinto su quel mezzo simbolo del suo popolo. Era armonioso, anche se dentro il corpo si nascondevano le sofferenze generate dai guai vissuti. Era stupendo nelle progressioni, disegnava perfezione nella linearità dello scatto. Era persino potente come nessuno, nonostante quel ginocchio. Nel '91, divenne campione belga nella categoria debuttanti, l’anno successivo, finì terzo ai mondiali juniores di Atene, vinti da un italiano che si stava bruciando: Giuseppe Palumbo. Nel ‘94, a soli 19 anni e due mesi, dopo una sola stagione fra i dilettanti (che, per i campioni evidenti, è solo una dannosa perdita di tempo), Frank era già professionista, nella Lotto, guidata dallo zio Jean Luc. Al Giro del Mediterraneo vinse una tappa, la più dura nel complesso e diede spettacolo. Il sottoscritto, intervistando per “Il Messaggero” Davide Cassani, vincitore di quella corsa, ricevette dal faentino uno stimolante: “E’ un fenomeno”. La curiosità autoctona trovò subito soddisfazione e da quei giorni, Frank Vandenbroucke, divenne una gioia della personale collezione di indimenticabili sulla bicicletta. Certo, alla faccia degli albi d’oro.

Le immagini che seguono mostrano il “perché”….

http://www.youtube.com/watch?v=Zenlv88feHg&feature=related

http://www.youtube.com/watch?v=t8MOQuF4_BI


Frank, è stato assieme a Marco Pantani, il più grande talento salito su una bici da corsa negli ultimi venti anni, per intenderci in chi è nato dal 1970 ad oggi. Ognuno, con un proprio vertice fulgido: le corse a tappe per Marco, quelle di un giorno per Vandenbroucke. Chi ha vinto più di loro, non li vale, punto. Poi, se vogliamo fare le conte, facciamole, ma non guardiamo le gestualità e le grandezze, limitiamoci a leggere gli ordini d’arrivo. Non sempre nello sport intero, vince maggiormente chi è più bello, talentuoso e persino più forte. Ma l’alato, l’arcangelo di questa straordinaria forma artistica, non lo si dimenticherà mai e resterà un dono per chi ha avuto la fortuna di vedere, anche se ha vinto meno di altri, per vari motivi. Non è il numero di opere che fa grande un pittore, ma l’intensità, il significato e l’essenza di quelle poche tele.

Sulla sua china
L’atleta, prima di essere tale, è un uomo o una donna. Lo si dimentica troppo spesso, legati come siamo al suo distinguo principale. Questo aspetto, sovente, è letale per il campione, perché incide anche su chi non si limita all’osservazione da lontano, ma gli sta accanto, e/o, per professionalità, è chiamato a dargli risposte o, semplicemente, ad aiutarlo.
La storia di Frank è stata particolare fin da subito, per questo l’ho voluta brevemente raccontare e c’è da chiedersi se qualcuno, in camice bianco, lo abbia capito. Penso proprio di no! Non c’entra il doping, divenuto, al pari del fumo, come la panacea di tutti i mali, nonché la maestosa spiegazione delle nostre umane ed incommensurabili ignoranze. Resta il fatto che l’uomo Vandenbroucke, di pari passo al campione, s’è perduto, ed ha vissuto in maniera diversa e più pesante, una situazione comune a tutti gli sportivi: doversi costruire un’alternativa di vita, quella probabilmente più lunga, nel rapporto al segmento d’esistenza. Quando uno tenta più volte il suicidio e nella sua deriva ci lascia continue tracce di disadattamento pericoloso per sé e persino per gli altri, va seguito, dimenticando chi è e cosa può ancora fare nel campo che l’ha contraddistinto. Non va lasciato solo. La psicologia è una scienza che, a differenza di altre, è ancora vicina alla preistoria, semplicemente perché agisce sull’organo più sconosciuto del nostro corpo: il cervello. Basti pensare che lo si sta ancora mappando e si è lontani da una definizione dei suoi confini che non sia sui generis. Ne consegue, che in campo psicologico, gli “zambottini” sono più numerosi e pericolosi che altrove, anche perché ci sentiamo un po’ tutti psicologi e, nel contempo, spesso, proprio qui nascondiamo le nostre più sottili imperfezioni, ed i nostri più latenti interessi. A complicare il contesto, gioca poi un ruolo decisivo l’ambiente in cui il soggetto in sofferenza vive: quello ciclistico è, fra gli sport, uno dei peggiori per mera ignoranza e/o cultura sibillina. Bene, anzi male, a caldo, stanotte, ho scritto che è ora di curare i ragazzi con problemi e di non pensare che la bicicletta risolva tutto, perchè miracolosa. Oggi, un po’ meno a caldo, lo ribadisco. La cosa che più mi ha fatto star male, prima della tragedia di ieri, anche alla luce di esperienze dirette, è l’aver visto in Frank, il continuo riprendere la bici come una soluzione delle sue difficoltà. Non so chi lo consigliava e chi lo ha seguito, o meglio non so e non voglio sapere i nomi, ma ho visto quelle innegabili tendenze che sono profondamente sbagliate, perché, al più, inseriscono un puntello destinato prima o poi a cedere. Ed il tutto indipendentemente dalle cause di morte, che possono essere benissimo slegate dalla china che Vandencroucke viveva da anni.
Sono però convinto che taluni problemi continuassero a vivere in questo gioiello che abbiamo visto ed ammirato e sono altresì sicuro che la sua pedalata facile, certamente una tra le più belle dell’intera storia del ciclismo, non potesse con qualche altra vittoria, aggiungere nulla a ciò che era stato fatto prima e che andava fatto apprezzare allo stesso Frank. In altre parole, mi muove il convincimento che il voler spingere i pedali agonistici fosse un imbuto di vita per lui. Una strada unica che stabiliva una grande sofferenza, con tutto quello che ne poteva conseguire. Non una strada libera e scelta fra un ventaglio. Mi stava bene che a cercare di spingerlo sulla bicicletta fosse l’onesta ignoranza di un operatore del ciclismo, ma non quella dei “laureati” che sono stati accanto a lui, e lo hanno abbandonato senza aver prima fatto nulla di concreto e traducibile, affinché le sofferenze reali di Vandenbroucke, aldilà delle apparenze, fossero curate o marcatamente attenuate. Sono passati anni, non pochi mesi. Mi sembra onestamente troppo, anche considerando la libertà che deve insistere in un uomo di determinarsi e, magari, di rifiutare una cura. Resta però il fatto che le malattie ed i disturbi non sono tutti uguali e quelli psicologici, non possono essere messi sullo stesso piano degli altri, perché è alterato l’aspetto d’origine: la libertà delle potenzialità della mente.
E non lasciamoci ingannare dalle risultanze su una bici: Frank Vandenbroucke avrebbe dato paga a qualsivoglia amatore debitamente dopato, ed a tanti professionisti, perché era semplicemente divino. Proprio come colui, verso il quale in questi giorni in molti lo accosteranno non per motivi prettamente tecnici: Marco Pantani. Due storie diverse, anche se chiuse in tragedia alla medesima età. Il Pirata era da ospedale nel 2003, eppure fece un Giro che non è stato inferiore a quello vinto, semplicemente perché era una spanna sopra a tutti nelle corse a tappe. Lo sanno le pietre e pure le galline. Resta però il fatto che doveva smettere di correre prima e curarsi. Ma qualcuno non voleva, era troppo prezioso per tanta roba ovvia…. Poi, poteva magari riprendere dopo il giusto lasso e, proprio perché superiore, continuare a vincere.
Frank, abbandonato da troppi se non tutti, ha fatto come tanti pugili, incapaci di trovare alternative e lasciati marcire ugualmente sul ring. Era sontuoso e sublime, ha impreziosito il ciclismo dei palati fini, non di quelli che lo guardano dai piedi degli albi d’oro o dagli scranni di chi lo vede solo chimica perché non sa capirlo, non lo conosce, anche se lo pedala con cupidigia. Doveva fermarsi qualche anno fa, capire che il futuro poteva esserci ugualmente e magari riprendere una sola volta la bici agonistica per mettere una firma a qualche altro documento.
Il destino lo ha voluto con sé, ma indipendentemente dal fatto scatenante, c’erano stati troppi motivi per non sentirci con quel senso di colpa che oggi aggiunge lacrime alle tante della tragedia. Dobbiamo capire, ancora una volta, che prima dell’atleta ci sta essenzialmente un uomo, il cui bene dovrebbe essere un obiettivo anche di chi lo circonda.
Ed in questo senso, dobbiamo leggere i significati struggenti del video che segue, come fosse, nonostante tutto, un presagio.

http://www.youtube.com/watch?v=DmZZkwjbTu8&feature=fvw

Morris

 

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"Non discutere con gli stupidi, perchè scenderesti al loro livello e ti batterebbero per la loro esperienza".

 
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Livello Fausto Coppi




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  postato il 13/10/2009 alle 13:29
credo che frank sia stato (e sarà) tanto amato proprio perchè noi tutti, oltre al talento immenso, vedevamo chiaramente il suo dolore, e ci appariva fragile come in effetti era, terribilmente umano, e veniva da volergli bene come a un fratello minore, a un amico in difficoltà (anche al di là di certi suoi comportamenti nella vita privata).
sarà banale dirlo, ma l'animo dell'uomo resta insondabile, così come lo stare bene o lo stare male rimangono staccati dagli eventi materiali, dal successo o dalla povertà. di sicuro la gloria sportiva, per chi convive con questo dolore, è un sollievo, ma pure rende ancora più difficile confrontarsi con la vita quotidiana. certe esistenze sembrano quelle di personaggi da romanzo, ma quasi mai è piacevole essere personaggi da romanzo, nella realtà.
per me, che seguo il ciclismo da una ventina d'anni, resterà sempre la tappa di avila della vuelta 99 (il secondo link segnato più su da morris), forse la più grande dimostrazione di talento che abbia mai visto.

 
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Livello Fausto Coppi




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  postato il 13/10/2009 alle 13:29
Lo stesso Frank, a Marzo, quando aveva accettato di correre per la Cinelli Down Under, affermava di non voler più correre in grandi team che gli avrebbero messo pressione addosso, ma per il piacere di essere ancora in bicicletta.

Per questo il fatto che lasciasse la Cinelli e si desse da fare al centro Mapei mi aveva lasciato un po' interdetto. Ma credo che lui fosse il primo a non voler scendere dalla bicicletta, visti i tentativi fatti anche da amatore.

 

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...E' il giudizio che c'indebolisce.

 
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Professionista




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  postato il 13/10/2009 alle 15:56
Scritto da Morris
".........E non lasciamoci ingannare dalle risultanze su una bici: Frank Vandenbroucke avrebbe dato paga a qualsivoglia amatore debitamente dopato, ed a tanti professionisti, perché era semplicemente divino. Proprio come colui, verso il quale in questi giorni in molti lo accosteranno non per motivi prettamente tecnici: Marco Pantani. Due storie diverse, anche se chiuse in tragedia alla medesima età. Il Pirata era da ospedale nel 2003, eppure fece un Giro che non è stato inferiore ....."

E' un piacere leggerti e condividere, spesso in pieno i tuoi pensieri.
Ieri sera ho avuto due forti sensazioni.
Un ragazzo che se ne va a 34 anni, un ragazzo ,prima che un talentuoso e inespresso ciclista.
La seconda e' che oggi sarebbe morto ancora Marco Pantani, e cosi e' stato.
Non e' giusto sia per Frank che che Marco.
Mi viene da farti un piccolo appunto, va bene due storie diverse, ma solo perche' la storia di Pantani e' UNICA e irripetibile , dall'Aprica , passando per Campiglio , fino a Rimini.Questo a tanti sembra faccia comodo non capirlo.
Riposa in pace F. VDB , mi auguro di cuore che ti concedano di farlo, cosa che non capita ancora al Pirata.

 
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Livello Claudio Chiappucci




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  postato il 13/10/2009 alle 16:57
Morris è sempre un piacere leggerti e ascoltare le tue considerazioni mai superficiali e mai banali!
 
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Livello Fausto Coppi




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  postato il 13/10/2009 alle 17:00
bel pezzo ma sappi che la psicologia non è alla preistoria (lo era magari negli anni 20') e il cervello è stato mappato interamente.


 
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Livello Marco Pantani
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  postato il 13/10/2009 alle 18:58
Sempre un grande piacere leggere Morris.
Mappato? L'anima, la psicologia profonda dell'uomo rimane un grande mistero. Per fortuna?

 

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Verità e giustizia per Marco Pantani: una battaglia di civiltà.

Arcana loggia per il ripristino della civiltà dell'ordalia.

IO NON L'HO VOTATO.

IO CORRO DOPATO COME TUTTI.

"E' tutto alla conoscenza di tutti" Marco Pantani,1997 ( tempi non sospetti),parlando di doping in un'intervista televisiva con Gianni Minà.

Non sono a favore del doping. Sono semplicemente contro l'antidoping.

Hypocrisy free.

CAREFUL WITH THAT AXE, EUGENIO.



 
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Livello Rik Van Looy




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Registrato: Jan 2006

  postato il 13/10/2009 alle 19:28
Di sicuro un piacere leggere Morris, ma quanta tristezza nell'apprendere questa tragica notizia!
Ho avuto il privilegio di poterci pedalare insieme una domenica, di scambiarci qualche parola dentro il negozio di Masciarelli.... di vederlo una mattina, domare per 5 volte una salita di 1km e 200 metri con pendenza media del 13% e punte del 20, che si trova qui a 500 metri da casa mia.
Se era un talento?!

Ciao Frank... Salutami Marco!

 
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Moderatore
Utente del mese Agosto 2009




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  postato il 13/10/2009 alle 22:46
Raramente mi è capitato di vedere un'azione così travolgente, non si trattava di una classica monumento ma di una tappa alla Vuelta, eppure imprese del genere restano leggendarie.

http://www.youtube.com/watch?v=yFO162E0wVc&feature=related

 

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Vorrei morire in bici, in un giorno di sole, dopo aver scalato una di quelle montagne che sembrano protendersi verso il cielo, mi adagerei sull'erba fresca senza rimpianti, attendendo con serenità il compiersi del mio tempo. Non importa se sarà ...oggi o tra cent'anni, avrò in ogni caso trovato il mio giorno perfetto.

 
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Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




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  postato il 13/10/2009 alle 22:59
Originariamente inviato da roberto79

bel pezzo ma sappi che la psicologia non è alla preistoria (lo era magari negli anni 20') e il cervello è stato mappato interamente.



La psicologia è alla preistoria se la confrontiamo con le altre scienze, ed in quello che ho scritto sopra, credo di aver evidenziato il "perchè". Non è una critica agli psicologi, ma solo la lettura di quello che c'è e si vede.

In quanto alla mappatura del cervello, il termine è stato coniato da scienziati australiani (che ho sentito con le mie orecchie). Studiosi all'avanguardia al punto di aver scoperto, recentemente, giusto per fare un esempio, un nuovo serbatoio di Hiv nel cervello, inaccessibile ai farmaci antiretrovirali. In senso più largo poi, sono tante, anzi tantissime, le non spiegazioni su certe reazioni umane di cui non si conoscono i prodromi di quello che è e rimane il "computer" più sconosciuto ed intelligente che ci sia: il cervello appunto.

 

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Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




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  postato il 13/10/2009 alle 23:38
Originariamente inviato da Subsonico

Ma credo che lui fosse il primo a non voler scendere dalla bicicletta, visti i tentativi fatti anche da amatore.


Verissimo.
Ma quando insistono depressione, o fattori depressivi, disadattabilità o si è sulla via di una possibile dipendenza, è giusto continuare a vedere come unico sentiero di cura, lo sport? Atleti con difficoltà di tal tipo ce ne sono tanti, sparsi in varie discipline, ma solo nel ciclismo, si pensa che la bicicletta sia la cura. E' una domanda che viene spontanea e logica, visti i numeri... Poi, il sovente per non dire spesso ignorante ambiente ciclistico, è capace di produrre dirigenti o manager così intelligenti, da far visitare l'atleta con problemi, ad uno psicanalista che è uno zambottino, senza nemmeno uno straccio di laurea. E' successo per un grande e c'è da chiedersi quante altre volte sia capitato. Cerchiamo professionalità? Bene, questi sono casi confine, più significativi che mai.
A volte, la strada migliore per l'uomo-atleta, è proprio quella di fermarsi, proprio come quando si rompe una spalla, o si stira. In questo caso poi, parliamo di "salute mentale", non di una barzelletta.
La realtà, è che nessuno, nel ciclismo, si vuole far carico di simili problematiche. Il "fuggi-fuggi" è una costante, proprio come l'esistenza di sodalizi fittizi, privi di capo e di coda, verrebbe da dire: "semplici avventure". Pensiamoci un poco e vedremo che nel professionismo del pedale, le squadre sono veramente costruite sull'aria, senza un retroterra e senza la conseguente possibilità o capacità di pensare al futuro: per loro e per un giusto e concruo rapporto con quei singoli, che sono uomini prima di essere atleti.
L'aleatorio insistente in questo sport non ha paragoni con nessun'altra disciplina. Fino agli anni '60, erano le aziende-sponsor a fare le squadre, non degli pseudomanager che parlano come ornitorinchi e possiedono la cultura di una gallina. Paradossalmente le cose andavano meglio, anche sul piano umano, nel trattamento stesso degli atleti e dei loro problemi. E' la verità. E' pazzesco, ma è così. Alberto Prof, che è più anziano di me e che a quei tempi era attivo oltre che appassionato, lo potrà confermare.

 

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Livello Federico Bahamontes




Posts: 389
Registrato: Sep 2008

  postato il 14/10/2009 alle 00:23
Originariamente inviato da Morris


Frank, è stato assieme a Marco Pantani, il più grande talento salito su una bici da corsa negli ultimi venti anni, per intenderci in chi è nato dal 1970 ad oggi. Ognuno, con un proprio vertice fulgido: le corse a tappe per Marco, quelle di un giorno per Vandenbroucke. Chi ha vinto più di loro, non li vale, punto. Poi, se vogliamo fare le conte, facciamole, ma non guardiamo le gestualità e le grandezze, limitiamoci a leggere gli ordini d’arrivo. Non sempre nello sport intero, vince maggiormente chi è più bello, talentuoso e persino più forte. Ma l’alato, l’arcangelo di questa straordinaria forma artistica, non lo si dimenticherà mai e resterà un dono per chi ha avuto la fortuna di vedere, anche se ha vinto meno di altri, per vari motivi. Non è il numero di opere che fa grande un pittore, ma l’intensità, il significato e l’essenza di quelle poche tele.

Morris

Che altro aggiungere?!?... Da scolpire nel marmo!!
I due più grandi talenti della mia generazione (io sono del '72) se ne sono andati così...

 

[Modificato il 14/10/2009 alle 00:25 by bianconiglio]


 
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