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Autore: Oggetto: Livio Trapè, dall'Oro Olimpico al grigio fra i prof...

Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




Posts: 4217
Registrato: Oct 2003

  postato il 05/10/2007 alle 18:02
Interesserà a pochi, ma tanto è….
Un laziale che ha fatto pensare ai fenomeni, un Olimpionico che doveva giungere anche all’iride…..ed invece, si trovò sull’Olimpo vero del ciclismo svuotato, con quelle poche briciole che non riuscirono a donargli un ritorno come il primo Pillicino… Di lui però, non si può dire che mancasse di volontà…



LIVIO TRAPE'
Nato a Montefiascone (VT) il 26 maggio 1937. Passista scalatore. Professionista dal 1961 al 1966 con una vittoria.



Anche con questo viterbese dal volto spesso sorridente, incontriamo un altro esempio di grandiosità fra i dilettanti e di delusione fra i professionisti. Ed anche per Livio, valgono tante delle considerazioni che hanno costruito, negli anni, un mio preciso convincimento circa il rapporto che il ciclista deve avere con le categorie minori. Trapè, è stato uno dei dilettanti più forti dell’intera storia del nostro ciclismo. Un virtuoso, animato da grande volontà di divertire e divertirsi, generoso, e, per questo, disponibile a mettere sul piatto della corsa, una quantità notevole di energie. Un corridore che nelle sue giornate migliori, tutte passate fra i dilettanti, appariva completo, sempre pronto a tirare fuori dal cilindro, l’acuto vittorioso.



Nel 1958, ‘59 (assieme al prodigioso Venturelli col quale disputò un Trofeo Baracchi che li pose al secondo posto, addirittura fra i professionisti) e, soprattutto, nel ‘60, Livio fu il protagonista per eccellenza, colui che ai punti avrebbe ricevuto da tutto l’osservatorio internazionale, qualche colore dell’iride per manifesta superiorità. Nelle tre stagioni, vinse un impressionante numero di classiche per “puri”, fu campione d’Italia, quindi olimpionico assieme a Cogliati, Fornoni e Bailetti nella 100 km a squadre di Roma ‘60. Nella gara individuale colse la Medaglia d’Argento, più per sottostimazione dell’avversario, il sovietico Kapitonov, che per effettiva malasorte. Nella volata a due con colui che poi diverrà una specie di guru del ciclismo di quello sconfinato paese, si fece beffare d’un soffio, ma apparve ai più e senza partigianeria alcuna, come il più forte dell’intero lotto olimpico.
Con queste premesse da autentico super, esordì al professionismo nel ’61, con la maglia della “romagnola” Ghigi. Arrivò presto, quasi subito al successo: in primavera vinse con lo stile che l’aveva contraddistinto fra i “puri” il Giro di Campania. Nessuno si sarebbe immaginato quella vittoria come l’unica, ed invece, fu così. Cominciarono ad emergere acciacchi, ed il resto della stagione fu incolore. Nel ’62 iniziò di nuovo bene col secondo posto nella Sassari-Cagliari (vinse Guido Carlesi), proseguì fra alti e bassi con la terza moneta nel Giro della Provincia di Reggio Calabria, e coi quinti posti nel Giro di Romagna e nella Tre Valli Varesine. Finì con una grande prestazione al Giro di Lombardia, dove fu piegato dall’olandese Jo De Roo. Sembrò in crescita, acciacchi a parte, e trovò, per il ’63, l’ingaggio della neonata Salvarani. Ma l’annata fu incolore, a parte il quinto posto nel campionato italiano. Nel ’64, in maglia Springoil Fuchs, il grigio, fu ancora una costante della stagione di Trapè. L’unico acuto, nella tappa del Giro d’Italia che segnò il “canto del cigno” di Nino Defilippis, dove il viterbese giunse terzo. Dopo quattro anni deludenti, senza aver mai portato a termine un Giro, Livio, anche in considerazione dei suoi malanni, si trovò senza contratto. Non voleva cedere e staccò la licenza anche nel 1965 e ’66, senza però trovare qualcuno disponibile a credere di nuovo il lui. Un amaro finale per un corridore potenzialmente fortissimo che pure ebbe giornate luminose.



La sua prestazione al Trofeo Tendicollo Universal.
Livio partecipò all’edizione del 1961, poche settimane dopo il suo esordio fra i professionisti. Ero un bambino che lo doveva osservare bene, perché il “dado” corridore di casa, aveva corso con lui l’anno prima, ed io sognavo che il mio fratellone potesse di nuovo correre con Trapè, stavolta fra i professionisti.
Del corridore laziale riservo il ricordo di un tipo che anche sulla bici mostrava uno sguardo sorridente e pareva nettamente più giovane degli altri: sembrava un bambino, al cospetto di Anquetil, Baldini e Bouvet! E poi, indossava quella maglia della Ghigi, che era popolare sulle strade romagnole del tempo, anche più della stessa Legnano, che lo faceva ciclista praticamente di casa.
Il mio “dado” si guadagnò l’autografo di Livio, che poi perse, ma per riceverlo mi fece arrabbiare, perché non guardò la corsa con me, lasciandomi con babbo che era sì straordinario, ma quel giorno non aveva trovato un posto bello come quello di due anni prima, quando corse Coppi. In fondo non avevo che sei anni da compiere e per quanto prodigio non sceso al cretinismo odierno, ero un tappo nelle proporzioni di oggi e quel muro di folla (sul circuito, i paganti accertati furono più di centomila), mi consentì di vedere Trapé solo tre volte, rispetto alle cinque previste: ero un bambino ingordo, quando si trattava di scoprire reale, il mondo dei quarcì.
La corsa di Livio non fu malaccio, perlomeno in considerazione della distanza (86,500 km), ma anche in quella occasione, dimostrò che le luci ed i fasti della sua epopea fra i dilettanti, si stavano spegnendo. Giunse ottavo, a 8’30” da Jacques Anquetil.

Considerazioni
Nel corso di questi tanti anni, per la mera curiosità di scoprire qualcosa in più sul Trapè nelle sue giornate tra i prof , ho raccolto tante testimonianze fra chi gli ha corso accanto.
Riporti dal valore di sovrapposizione, più che di somma, tanto da determinarne significati di certezza. Particolarmente significative quelle di chi corse con lui nella “Queen Anne”, una formazione che non era tale per specifico staff e programmi, ma un gruppo di isolati che trovarono, grazie ad Alceo Moretti (figura che meriterebbe approfondimenti), quel che serviva per partecipare a diverse manifestazioni compresa la Vuelta di Spagna. L’anno era il 1966 e Livio stava cercando di giocarsi le ultimissime residue speranze di ritrovare, con l’accasamento, anche una luce di carriera migliore.



Tutti i miei interlocutori han parlato di un Trapè volonteroso negli allenamenti, certosino nel vivere la giornata da atleta, di uno sempre prodigo a non fare nulla che potesse essergli in qualche modo dannoso e di un tipo totalmente ligio alle tabelle che gli erano state date per prepararsi agli appuntamenti agonistici. Dietro di lui, ci fu a lungo quel Giovanni Proietti che era stato da Commissario Tecnico dei dilettanti, il suo mentore, colui che lo aveva fatto grande, ma che gli tolse, probabilmente, qualcosa di troppo per le traduzioni che i professionisti richiedevano.
Già, perché come ho sentito praticamente da ognuno dei miei interlocutori, il motore da prof di Livio andava a tre cilindri in meno, di quel che serviva. Tanta abnegazione ma poca forza, tanta tenacia ma poca qualità. In altro parole, era spento. Ed a nulla potevano valere i suoi sacrifici. Niente a che vedere con quel Venturelli di cui era stato compagno e successore nel dominio dilettantistico, poi giunto a sacrificare l’imperioso e leggendario talento, solo per la sua vita scellerata. Romeo, il pavullese, anche fra i professionisti fu capace di far vedere che era alato e straordinario. Livio Trapè, pur serio, concreto e attento, non aveva più niente da dare: il suo motore era stata compromesso irrimediabilmente.
I vecchi compagni e colleghi lo ricordano dunque con stima ed affetto, ma non hanno potuto non evidenziare quelle crepe che il suo fisico aveva subito. E non potevano evitare di destinare, di converso, allo spumeggiante talento di Meo Venturelli, la loro rabbia nel non aver visto compiersi colui che era stato designato da Coppi come suo successore e l’ultimo a vedere in vita il Campionissimo atleta. “Ha gettato alle ortiche una forza ed una completezza sovraumane” – mi disse Alberto Assirelli, a proposito del modenese.
Livio non aveva il fisico di Meo, ma era un ottimo che andava centellinato e così non fu.
Resta pur sempre un Olimpionico e quindi merita un applauso.

Morris

 

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  postato il 06/10/2007 alle 01:52
Una storia interessante,che forse andrebbe raccontata a tutte quelle persone che troppo spesso gridano al fenomeno nelle categorie giovanili e che poi un giorno potrebbero ritrovarsi fortemente deluse.
 
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Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




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  postato il 16/10/2007 alle 14:48
Originariamente inviato da Abruzzese

Una storia interessante,che forse andrebbe raccontata a tutte quelle persone che troppo spesso gridano al fenomeno nelle categorie giovanili e che poi un giorno potrebbero ritrovarsi fortemente deluse.


Già, soprattutto per un motivo: le corse dei dilettanti (si chiamino Under 23 o Elite non ha importanza), vanno lette per quello che il corridore fa in termini di crescita reale e non per quelle vittorie che contano come il due di coppe quando la briscola è bastoni. Sarebbe utile lo imparassero i direttori sportivi, anzichè scimmiottare conoscenza. Un corridore con una vittoria fra i puri, può essere dieci volte migliore di uno con trenta: va studiato analizzato e poi, se mostra tangibilità e senza chiedergli di portare uno sponsor, va fatto passare.....

 

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