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Autore: Oggetto: Ermeneutica dello sport: Obdulio Varela.

Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




Posts: 4217
Registrato: Oct 2003

  postato il 10/01/2005 alle 22:51
Cari amici, in queste per me tristi giornate d’affanni e di contrattempi, nell’attesa di trovare il tempo per intervenire su due post interessantissimi, aperti da Felice (punteggi e SMR) e Roberto (scomparsa di diverse gare italiane e nuovi interventi mediatici), luminosamente sincronici allo straordinario spessore di questo sito, per lavoro, m’è capitato di rileggere quel che troverete sotto…… Si tratta di un ritratto-ricordo che parte dallo sport, ma con un’eco evidente delle tragedie di un continente bellissimo e povero, il Sudamerica. Il protagonista, è un uomo che visse la sua giornata indimenticabile, quando ancora non ero nato, ma che porto ugualmente con me come un penate di quella che definisco “ermeneutica dello sport”: Obdulio Varela. Il nome dirà poco ai più e la disciplina di riferimento è quel calcio, che potrà pure spingere condivisibili antipatie, ma questo atleta era un grande in tutto, non una marionetta come tanti dei “mutandoni-magliette” che s’aggirano sui campi verdi d’oggi. Chi ama leggere, non perderà del tempo.

Visto che la mia Aliceposta.it, nonché la non migliore Inwind.it, si sono finalmente aperte, lasciandomi sulle caselle due batterie di mail, colgo occasione per informare i diversi che mi hanno scritto, che sarò conseguente e se non ho provveduto prima, è solo perché non potevo. Vi chiedo comunque un mare di scuse.




Ermeneutica dello sport: Obdulio Varela.

Nella storia del calcio, una data fondamentale fu il 16 luglio1950, giorno della finale di Coppa Rimet, nell’immenso Maracanà, fra il Brasile e l’Uruguay. Contro tutte le aspettative di un popolo e dell’osservatorio mondiale, vinsero i celesti per due a uno. Per settanta milioni di brasiliani, fu come vivere una tragedia dalle dimensioni immani.
Tanto s’è detto su quella partita: del lutto di un paese intero, di duecentomila persone che sfilarono silenziose e piangenti, di tanti altri, fuori, che si tolsero la vita o si lasciarono andare alla disperazione. Una tenda di lutto sull’intero Brasile, una ferita che mai s’è rimarginata completamente. Dall’altra parte un gruppo di uruguaiani che vissero la propria gioia in silenzio per rispetto, perché così voleva un uomo, il capitano dei vincitori, tanto gladiatore in campo, quanto buono, comprensivo e ligio di valori fuori. Uno che passò l’intera notte seguente quella partita, nei bar e nelle vie di Rio de Janeiro a piangere e consolare quella gente che aveva reso così. Uno che non smise mai di dire, negli anni che seguirono, quanto fosse stata una vittoria da evitare, perché non era possibile che un popolo si riducesse ad una simile disperazione. Lui, quell’uomo armadio, grande e grosso, privo della benché minima paura, l’anima di quella squadra celeste che s’era laureata campione del mondo, in casa del più grande paese calcistico esistente, era Obdulio Varela, il capitano, come detto. Un nero, o “negro”, come non gli importava lo chiamassero. Uno dai piedi non vellutati, ma pur sempre un gran giocatore, in possesso di qualità di leader come mai nessuno nella storia del calcio. Un capitano allenatore, fratello maggiore, riferimento di un gruppo di talenti espressione di un paese come l’Uruguay, piccolo di territorio e di popolazione, un solo trentesimo di quel popolo che avevano fatto cadere nel pianto e nello sconforto. Lui, Obdulio, grande e grosso con forza erculea, ed una mente tutt’altro che priva di grandi espressioni intellettive, un leader a tutto angolo, un trascinatore tanto temuto, quanto ammirato. Così stimato da non trovare mai avversari o tifosi, pronti ad infierire con le armi tipiche della vendetta o della cattiveria. E non poteva essere altrimenti, perché il suo passaggio lasciava una scia di fascino, una sottile presenza di un condensato di sentimenti, un’ombra che poteva incutere non già paura fisica, ma il disagio, a volte soffocante, della certezza di non essere a posto con la propria coscienza. Certo, perché Obdulio ti leggeva dentro e sapeva se recitavi, o eri te stesso. Sapeva trovare gli antidoti per distruggerti le velleità, o per spronarti fino ai confini massimi della mente. Nel suo genere è stato unico, ed in quella partita così particolare, fu artefice di un capolavoro tanto sui suoi compagni, quanto sugli avversari. Un leader come nessuno, Pelè, Maradona, Di Stefano, Platini, Falcao ecc. tanto osannati dai distratti o smemorati giornalisti, compresi.
Ma di quella partita, di quella guerra psicofisica consumatasi il 16 luglio 1950, resta una scultura, proprio nelle parole di colui che guidò, come un condottiero, i celesti uruguagi ad un trionfo totalmente inaspettato. E’ proprio lui, Obdulio Varala, il più grande leader della storia del calcio che racconta. Quello che potremo leggere, rappresenta uno spaccato finito nei libri, fino al museo storico dell’Uruguay, al pari dei suoi cimeli, di quelle scarpette e di quei lacci che , come vedremo, il “Capitano” guardò a lungo alla fine della partita, per capire se era un sogno o una realtà. Il pathos di questo riporto è qualcosa di unico, una pietra miliare dello sport e della psicologia dell’atleta. Leggerla oggi, a più di mezzo secolo di distanza dall’evento oggetto del raccontare, dimostra come gli anni non possano cancellare le essenze di quei centri nervosi, che hanno un peso sempre determinante nelle prestazioni sportive. Un quadro luminoso sulla speleologia di un fatto, con le fulgide tinte di un uomo che sapeva come leggere ciò che si muoveva attorno a lui. Per una squadra di calcio, un leader così profondo, rende l’allenatore inutile. Per un operatore di sport, questo ricordo, rappresenta un vocabolario insostituibile.


Obdulio racconta il 16 luglio 1950
Io ho sempre preteso il rispetto da parte dei miei avversari, perché sono stato sempre il primo a rispettare loro. E la prima forma di rispetto, la più importante, è non avere paura di loro. Sì, ne sono fermamente convinto: se hai paura del tuo avversario gli manchi di rispetto. Ecco perché io, Obdulio Varela, capitano della nazionale dell’Uruguay che sta disputando la finale dei mondiali contro il Brasile, qui al Maracanà, sto facendo quello che sto facendo. E’ cominciato da poco il secondo tempo, e il Brasile ha appena segnato. Più che in uno stadio mi sembra di stare in una bolgia. E allora con la massima calma vado in fondo alla nostra porta, urlo a Maspoli, il nostro portiere, di alzarsi, prendo il pallone, e con la massima lentezza vado a centro campo. Per la prima volta da quando è cominciata la partita guardo il pubblico. Ai miei compagni avevo detto di non guardare sugli spalti, che la partita si giocava qui, sul prato, ma adesso è giunto il momento. Mentre avanzo lentissimo guardo il pubblico, potrei dire che li sfido, spettatore per spettatore; forse non guardo tutte le 200.000 facce che mi insultano, che mi urlano di muovermi, ma poco ci manca. Io non ho paura di voi. Anche perché adesso ho la certezza assoluta che nonostante il gol preso, nonostante l’entusiasmo, be’, sono sicuro che questa partita la vinceremo noi. Arrivo a metà campo, l’arbitro non sa con che faccia guardarmi, crede che sia pronto a riprendere, ma si sbaglia.
“Signor Reader, il gol era in fuorigioco!”
Lo urlo nello spagnolo più incomprensibile, nel caso in cui lui lo mastichi un po’. Non lo mastica. Mi porta a bordo campo per parlare con l’interprete. Non vi dico il pubblico, potrei scrivere un’enciclopedia degli insulti portoghesi, con quello che mi dicono, prendo anche uno sputo da un avversario, ma non me ne frega niente. Mi rivolgo all’interprete:
“Digli che il gol è irregolare, che era in fuorigioco di un metro!”
L’interprete invece che all’arbitro risponde a me:
“Obdulio, è forse impazzito?!”
“No, sono sano. Digli che il gol era irregolare, che il guardalinee ha anche alzato la bandierina! Avanti, diglielo!”
Reader sta perdendo un po’ della sua flemma inglese, e quando l’interprete gli traduce le mie parole si inalbera del tutto. Comincia ad urlare cose incomprensibili che l’interprete prova a tradurre:
“Sta dicendo che…” ma lo interrompo perché ho deciso che la farsa è finita:
“Sì, sì, lo so che cosa sta dicendo. Torniamo a giocare, che abbiamo perso anche troppo tempo!” e torno a centrocampo, lasciando ad arbitro ed interprete la convinzione di avere a che fare con un pazzo. Appoggio delicatamente la palla per terra e mi tiro su: li guardo di nuovo tutti, pubblico e avversari, guardo le loro facce e la loro rabbia. Non vi temo, anche perché noi vinceremo questa partita. Perché siete voi, adesso, ad avere paura della nostra sicurezza, della nostra voglia di vincere, del nostro cervello. Ecco perché ho fatto questa commedia. Siete voi adesso ad avere paura. Io non ho mai avuto paura degli avversari. Rispetto sì, paura mai. Ho 33 anni, gioco da 15, ho giocato su campi infuocati, senza recinzione, senza polizia, ho subito di tutto, ma non ho mai avuto paura. E’ quello che ho urlato a quello "elemento di materiale organico atto a galleggiare" di dirigente prima della partita. Eravamo ancora nello spogliatoio e sento un dirigente che prende da parte Mìguez, il nostro centravanti, e gli dice di stare tranquillo, che anche se avessimo perso con quattro gol di scarto non sarebbe successo niente. Non ci ho più visto:
“Che "particolare anatomico che, se rotto, simboleggia seccatura" sta dicendo, eh? Lei sarebbe contento se perdessimo con quattro gol di scarto?! Ma non si vergogna?! Statemi bene a sentire” ho detto rivolto ai compagni “io se vado in campo ci vado per vincere, è chiaro? Io quando sono in campo per vincere picchierei anche mia madre, se me lo impedisse! E oggi questa partita la vinciamo, perché loro giocano solo con i piedi, noi invece abbiamo il cervello, il cervello! Se giocassimo in spiaggia, forse, qualche probabilità di vittoria l’avrebbero, ma qui, in campo, no! E adesso andiamo a fargli rimangiare la loro sicurezza!”
E’ stato bellissimo, mentre parlavo, vedere i miei compagni, specie i più giovani, che cambiavano espressione, vedere sui loro volti aumentare la sicurezza, la consapevolezza di potercela fare. E mentre stavamo uscendo, ho messo la ciliegina sulla torta:
”Ah, a proposito, se oggi qualcuno non sputa sangue, l’attacco al muro!”
E mi sono preso anche la soddisfazione di guardare in faccia quel dirigente, con tutto il disprezzo e l’odio che potevo mettere nello sguardo. Li ho sempre odiati i dirigenti, ne avessi trovato uno, in tutta la mia carriera, che non si meritasse uno sputo in faccia. Sono delle sanguisughe, gentaglia che si approfitta di noi, del nostro sudore, delle nostre gambe spezzate, e non danno niente in cambio. Così come i giornalisti, che sono i loro servi. Due anni fa organizzai uno sciopero di calciatori, e apriti cielo! Mi scrissero contro di tutto: per fortuna avevo già una certa fama, e godevo del rispetto e della stima dei compagni, avversari e tifosi, se no non sarei qui, ora, con la fascia di capitano della nazionale. E’ da allora che non compaio più in nessuna foto ufficiale. Avete presente quelle foto prepartita, in cui ci sono cinque giocatori inginocchiati e sei in piedi dietro di loro? Io non ci sono mai e se per caso ci sono guardo da un’altra parte, mi giro a destra e a sinistra, osservo il cielo… Al ‘loro’ gioco, io non gioco.
Non sono certo io il più bravo in questa squadra, ma di certo sono il più rispettato, forse anche più dell’allenatore. Quando ad inizio partita Zizinho ha saltato Gambetta, facendogli fare la figura del "piccolo oggetto tondeggiante non troppo intelligente", mi sono avvicinato a Gambetta, e gli ho sibilato che se avesse subito un’altra umiliazione del genere non avrebbe più dovuto passarmi davanti. Azione successiva: Zizinho arriva in velocità, tenta di superare Gambetta in maniera uguale a prima, ma questi gli fa un’entrata da codice penale, scaraventandolo oltre i cartelloni pubblicitari. L’arbitro ammonisce Gambetta tra le urla assordanti del pubblico, Gambetta si scusa con lui e va ad aiutare Zizinho ad alzarsi. La faccia, contrita e preoccupata, è di chi chiede scusa, ma le parole sono:
“Questo è solo l’inizio, bastardo: alla prossima ti ammazzo”
Quando ha visto che avevo assistito a tutta la scena, Gambetta mi ha sorriso, e anch’io ho sorriso a lui. Sarà un caso, ma Zizinho non ha più toccato un pallone.
Ecco, il momento arriva. Vedo Schiaffino che ruba un pallone sulla loro trequarti, supera un uomo, entra in area e segna. Lo sapevo, come so che questo è solo l’inizio. Bravo ragazzo, Juan Alberto, gran calciatore. Sono certo che diventerà un grande campione. E’ un po’ pauroso, ma è un grande. Ha fatto un primo tempo indecoroso, giochicchiando senza senso, senza prendersi una responsabilità. Quando siamo rientrati negli spogliatoi l’ho preso per la maglietta, l’ho sbattuto contro il muro e gli ho urlato che se voleva fare il modello aveva sbagliato mestiere, che per essere un grande calciatore bisogna avere i "gemelli sferici solitamente molto fragili", non essere un coniglio pavido e codardo. Mi ha guardato con gli occhi spaventati e mi ha sussurrato un
“Hai ragione, Obdulio, scusami”
“No, non è con me che ti devi scusare!”
“Hai ragione, Obdulio: scusatemi, ragazzi”.
Rientrato in campo, il buon Schiaffino ha commesso tre falli da espulsione, ha provocato una rissa , ha fatto due o tre passaggi da favola, costruito un’azione da gol e realizzato la rete del pareggio. E’ così che mi piace.
E alla nostra rete del pareggio loro hanno reagito come mi aspettavo, nella maniera meno intelligente possibile. ‘Loro’ sono il pubblico e i calciatori brasiliani. E’ come se con il nostro gol li avessimo offesi. Si sono dimenticati che con il pareggio vincerebbero lo stesso la coppa: no, vogliono umiliarci, metterci sotto i loro piedi. Poveretti, poveri calciatori senza cervello. Litigano tra loro ad ogni passaggio sbagliato, urlano, corrono e sprecano energie senza costrutto. Si stanno mettendo in trappola da soli. E infatti riesco a lanciare sulla destra Ghiggia, che supera un uomo ed entra in area; va quasi sul fondo e fa partire un tiro improvviso che si infila tra Barbosa, il portiere brasiliano, e il palo. Due a uno per noi. Mancano dieci minuti, ma ormai la vittoria è nostra. Loro sembrano impazziti, e sono preda di quella pazzia che solo la paura può dare. E quando l’arbitro fischia la fine, gli undici brasiliani in campo e i 200.000 in tribuna si svuotano come sacchi. Dio, che silenzio! Voi avete mai sentito un silenzio di 200.000 persone? E’ una delle cose più impressionanti che abbia mai visto. Nessuno esce dal campo, nessuno se ne va dagli spalti. Restano tutti impietriti, l’unico movimento lo fanno le lacrime che rigano le guance di tanti.
Mi sento battere sulla spalla. E’ Jules Rimet che deve consegnarmi la coppa. E’ quasi imbarazzato, così come sono imbarazzato io.
“Monsieur Varela, ho l’onore di consegnarle la coppa. Complimenti”
Mi dà la coppa, mi stringe la mano e ci sorridiamo. I ragazzi sono intorno a me. Non esultano, non ridono. Sembrano quasi increduli. Li guardo uno ad uno.
“Be’, ragazzi, sembra che siamo campioni del mondo!”
E solo adesso si sciolgono, parte qualche pacca sulle spalle, qualche battuta di gioia a mezza voce. Ma tutto con pudore, senza disturbare. Sono bravi questi ragazzi, hanno imparato il rispetto. Hanno rispettato i brasiliani perché non hanno avuto paura di loro, e li rispettano ora non sbattendo loro in faccia la nostra gioia e la nostra soddisfazione. Ho insegnato qualcosa a questi ragazzi e anche questa è un’altra grande vittoria.


Il declino post calcio di Obdulio
Le parole mi escono difficili e trasferirle sulla tastiera è una fatica immane. E’ la commozione mista allo stupore dell’ammirazione, perché raramente, si può leggere dalla mente di un atleta, un riassunto così chiaro e luminoso su un evento sportivo. Obdulio era così, raccontava come nessuno, avrebbe potuto fare lo scrittore, era vero e genuino. Troppo genuino e puro, con un passato troppo ingombrante, per non subirne ripercussioni nel contraddittorio continente sudamericano. L’opportunismo non aveva dimora nella sua mente, ed era troppo vicino alla gente, aldilà delle sue origini di massima povertà. Lo era, perché si trattava del suo radicato credo nel modo di intendere la vita.
Duro e apparentemente tirannico, perché solo così puoi lottare per vivere su terre che non han mai potuto conoscere la pacifica e facile condotta verso il futuro. Terre ospitanti emigrati, forzati, disperati su uno sfondo di saccheggio costante da parte dei potenti, di quelli che si riempiono la bocca con la democrazia e la tolleranza, quando, sotto la scorza, sono fiele e criminali, tanto potenziali, quanto, spesso, reali. Non è un caso che da quei luoghi dal paesaggio da sogno, sia nato Ernesto Che Guevara, un intellettuale vero e sconosciuto fino ai riporti dei soli tratti del suo imbracciare il fucile, per dare a quella gente, la sua gente, la speranza di un sorriso pacifico senza l’orizzonte d’un coltello. Non è un caso, se i sempre perfidi e criminali eserciti, abbiano dominato gli stati di quel continente, non già per riportare un ordine di vita, ma per mantenere un dominio per il saccheggio ed i suoi artigli. E non è un caso che da quel continente, siano venute penne vere, non opportuniste, o intellettuali dimenticati e sconosciuti, pronti a stare poveri fra quelle genti dalle dentature irregolari, dai paramorfismi e dimorfismi della miseria, che han donato sorrisi caldi di sincerità agli avventori, quanto freddi nel riflesso delle coscienze di questi. Gesu di Nazareth si sarebbe fermato nelle favelas, perché era quello il mondo della sua rivoluzione, indipendentemente dal mistico della sua religione. Fosse vivo, sarebbe fiero di quella gente e non guarderebbe a quelle sacche di violenza indotta dalla miseria e dalla corruzione, dal dominio dei forti, i tragici forti, come un dispregio alla sua enunciazione di volgere sempre l’altra guancia, dopo uno schiaffo. Sapeva benissimo che non si può essere perennemente supini, che la reazione non è sempre un simbolo di male. Lui esprimeva una tendenza, un’etica, raccolta miseramente da chi, diceva e dice, di vederlo come dio. Il Sud America, è lo specchio del mondo dell’uomo, dopo che, questi, ha insozzato e sfregiato ogni filosofia e religione, attraverso il suo voto criminale al danaro e al profitto. Quel continente racchiude, come nessuno, gli epigoni dell’iperbole umana: luminosità e lutti, carità e violenza, bontà e cattiveria, sincerità e opportunismi. E’ il luogo della terra, dove l’ignavia e l’ipocrisia, esistono nelle percentuali più piccole e dove, al pari dell’Africa, ancora si crede di poter percorrere il proprio segmento di vita nella terra e per la terra.
Come poteva vivere, nel dopo carriera, un campione simbolo di un piccolo stato come l’Uruguay, uno che non aveva mai conosciuto i lustrini falsi dell’Europa e la falsità criminale, neanche tanto sotterranea, degli Stati Uniti? Era fin troppo ovvio, che uno capace di andare fra le genti brasiliane, a piangere con loro, dopo aver dato a quel popolo una sconfitta tragica, ritornasse alle essenze più vere del suo paese, come uno dei tanti. Come uno dei tanti che doveva vivere il suo essere “negro”, guadagnarsi quel tanto che ti può dare una condizione di convivio naturale, senza ricerche e opportunismi. Era il simbolo e l’orgoglio di quella gente, che si calava nella convinta dimensione di essere uno dei tanti, coi problemi dei tanti. Obdulio Varela è stato coerente fino all’ultimo. Ha pianto di nuovo, per l’humus straziante delle quotidianità uruguagie, ha sofferto l’altalenante corso dello sconosciuto di fronte al prossimo, non ha fatto valere la sua fama. S’è donato incontrando e vivendo le contraddizioni dell’uomo, le screpolature della fatica, il peso degli anni e le curvature di un fisico che s’invecchia in tutti, anche nei potenti. Ha vissuto insegnando la sincerità, nei pregi e nelle debolezze. Già, quelle leggerezze che la povertà, spesso, ti lascia come residuo funzionale alle proprie strettoie, alla voglia inconscia di evasione per vedere orizzonti meno cupi, dopo un’alba sorta per annunciare un giorno eternamente incollato alla speranza di una luminosità, non solo compagna d’un sogno ad occhi aperti. Obdulio visse così il suo dopo esser stato giocatore capace di incidere sul suo popolo. Consumò le sue giornate come la moltitudine delle persone che incontrava, costrette a graffiare idiomi per guadagnarsi un pasto da dividere con quei bimbi dagli occhi neri e da quello sguardo reso perennemente triste, dalla mancanza del gaio retroterra del gioco e dell’innocente ricerca siamese ad ogni bambino. Sì, perché loro dovevano diventare adulti subito, senza conoscere le feste, i dolci, spesso persino la scuola.
Lui Obdulio Varela, col suo nome che sibilava nelle menti come un mito, guardava e viveva quel percorso dipanandosi su lavori umili, la birra o quell’alcol che non possiede quasi mai il volontario ponderato. Diventò perfino posteggiatore mezzo abusivo, pronto a tutelarti l’auto per un intero giorno, in cambio d’una birra. Lo faceva con un’andatura divenuta ciondolante e una postura progressivamente ricurva, alter ego di quell’aitante colosso che dominava i campi. L’andare degli anni lo rese semi- barbone, in realtà, era tornato con fisico anziano nelle medesime condizioni di quand’era l’adolescente che doveva difendersi dallo status di “negro”. Si stava completando un’ellisse, che lasciava nostalgia e pena, su quei sempre numerosi turisti o visitatori, che non perdevano occasione per farsi raccontare i tasselli delle sue ventennali imprese sportive. E lui, raccontava coinvolgendo. Era un’artista da strada, uno dei molti che incontri per caso e che vedi più luminosi di quei tanti, che nascondono il loro poco, dietro un odioso fare cattedratico.
Un povero in canna, ma lui, Obdulio, continuava a sognare con l’amarezza dell’impotenza, sulle ali d’un mondo divenuto diverso e peggiore di quello che avrebbe voluto. Si spense pian piano il “Capitano” della “Celeste”. Unico sussulto, nel 1994, quando, chi doveva ricordarsi molto prima di lui, gli pagò un viaggio premio, per assistere ai Mondiali negli Stati Uniti. In questa occasione, la FIFA, lo insignì di un particolare trofeo per i suoi trascorsi di carriera.
L’eroe del Maracanà, in completa povertà, se ne andò ad altra vita, nel 1996, il due agosto, per un aneurisma. Aveva 79 anni.


La sua carriera in sintesi
Obdulio Varela, nacque il 20 settembre 1917 a Montevideo. Di famiglia poverissima, cominciò a giocare al calcio sulle strada con un pallone fatto di stracci. Il suo fisico possente e monumentale, lo aiutò non poco negli anni adolescenziali. Visto per caso da un dirigente dei Wanderers (compagine che militava nella Serie “A” uruguayana), quando già aveva 19 anni, fu inserito direttamente nelle riserve della prima squadra. Solo pochi mesi dopo, agli inizi del 1937, quando non aveva ancora venti anni, fece il suo debutto nel massimo campionato e, da quel giorno, non ha mai più fatto la riserva di nessuno. Al Wanderers rimase fino al 1942 compreso. Nel 1940, fece il suo debutto nella Selecion e due anni dopo era già il “Capitano”. Guidati da Obdulio, gli uruguayani vinsero, nel 1942, la Coppa America. Nel 1943, Varela passò al Penarol e vi restò fino alla fine della stagione 1955, quando appese le scarpette al chiodo. In quel periodo, vinse sei volte il titolo nazionale (1944-1945-1949-1951-1953 e 1954) e il già citato Mondiale nel 1950. Quattro anni dopo, a trentasette anni, partecipò alla Coppa Rimet in Svizzera. Era il più vecchio giocatore partecipante a quella rassegna. Giocò molto bene tutto il torneo, ma nella partita dei quarti di finale, si procurò una ferita vastissima al piede destro. Continuò a giocare quel match, col piede fasciato ed una scarpetta ginnica, benissimo tra l’altro, ma fu costretto a dare forfait nella semifinale contro la grande Ungheria. Chiuse con lo sport l’anno dopo.

Nella storia del calcio, resterà un esempio difficilmente imitabile.


Morris




In piedi il ricordo caduto sulla strada,
stanco di seguirmi senza storia,
dimenticato in un albero del cammino.

Andrò così lontano che il ricordo muoia
disperso tra le pietre della strada,
continuerò ad essere lo stesso pellegrino
con dentro la pena e fuori il sorriso.

Questo sguardo circolare e forte
in una magica mossa di muleta
schivò dalla mia ansia ogni meta
convertendomi in vettor della tangente.

E non volli guardare per non vederti,
arrossito torero di mia sorte,
che mi invitavi con gesto di disgusto.

(Che Guevara)

 
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Non registrato



  postato il 10/01/2005 alle 23:22
Fantastico...complimenti per aver recuperato questo scritto e anche il tuo ragionamento è molto bello...peccato solo per una cosa... nei giorni nostri questa è fantasia!!! Ora contano solo i soldi e lo sport è soffocato dai guadagni ad ogni costo... la pratica sportiva è passata in secondo piano!!!

 

____________________

 
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Livello Giro delle Fiandre




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  postato il 11/01/2005 alle 00:31
Affinchè la luce della memoria possa illuminare i nostri passi esitanti, dal sito www.gigimeroni.it, riporto la storia di questo fantastico campione.
Poi se a riguardo, Morris vorrà deliziarci con un Suo commento .....
---Luigi "Gigi" Meroni nasce a Como il 24 febbraio del 1943 e proprio a Como inizia la sua carriera calcistica nel campetto dell'oratorio di San Bartolomeo dove gioca la squadra Libertas.
Cresce nel vivaio del Calcio Como insieme all'amato fratello Celestino, ma la sua carriera nella formazione lariana è breve.
Nell'estate del '62 infatti, a soli 19 anni, passa al Genoa dopo 2 brillanti stagioni in maglia lariana. Gigi non crede a ciò che gli sta succedendo, ora gioca nel club più vecchio d'Italia, in quegli anni secondo solo alla Juventus per numero di scudetti vinti. La città marittima di Genova fa emergere in Gigi il suo carattere estroverso e controcorrente che si manifesterà poi nella sua interezza dopo il trasferimento a Torino nel '64.
Con i granata allenati da Nereo Rocco l'ala numero 7 si fa immediatamente apprezzare per le sue giocate, i suoi dribbling e i suoi goal che, anche se pochi (nel Toro 24), sono ricordati nelle migliori cineteche del calcio.
Al "calciatore-beat" (uno dei suoi tanti soprannomi) non piace tirare rigori, ha bisogno di azioni, di agonismo. E' un lottatore, l'artista del gol impossibile, dei dribbling disegnati su tela dalla mano di un genio, il giocatore più atterrato in area di rigore dai terzini innervositi dalle sue finte ubriacanti, ma anche quello che fa segnare tanto i compagni. Lo sa bene Combin, suo grande amico, scaricato da Juventus e Varese perché "finito" e rinato nel Torino grazie a Meroni, l'ala che gli passa la palla sempre nel momento giusto. Per gli altri giocatori granata, Gigi è una persona su cui si poteva contare, un amico capace, nonostante la sua sregolatezza, di essere un elemento fondamentale per un gruppo compatto e affiatato.
Un elemento di queste caratteristiche sarebbe l'orgoglio di ogni tifoso, ma il personaggio di Gigi non si ferma solo all'immagine del calciatore, è molto, molto di più.
Meroni ascolta i Beatles e la musica jazz, dipinge quadri legge libri e scrive poesie. Convive nella "mansarda di Piazza Vittorio" insieme a Cristiana, la "bella tra le belle" dei Luna Park della quale si innamorò follemente tanto da presentarsi al matrimonio imposto dai genitori di lei per cercare di fermare la cerimonia.
"Mister mezzo miliardo". Così lo chiamano i giornalisti quando il giovane Agnelli cerca di portare l'ennesimo campione alla Juventus sborsando una cifra per quei tempi era impensabile. Ma una vera e propria rivolta dei tifosi del Toro impedisce il suo trasferimento. I giovani tifosi si identificavano in Meroni, il loro "calimero" (soprannome che non ha mai amato) per via dei capelli lunghi e dei basettoni, un esempio da seguire in campo e nella vita degli anni che precedono il '68.
Quando Edmondo Fabbri lo chiama in nazionale gli impone la condizione di tagliarsi i capelli. Lui che disegna i vestiti che indossa sui modelli di quelli dei Beatles, che passeggia per Como portando al guinzaglio una gallina, che si traveste da giornalista e chiede alla gente cosa pensa di Meroni, la giovane ala destra del Torino, e ride se la risposta è che non lo conoscono, non avrebbe potuto rinnegare il suo ego e rifiuta la convocazione.
Veste ugualmente la maglia azzurra per giocare i disastrosi mondiali del '66 dove segna due gol contro la Bulgaria e l'Argentina. A lui è attribuita parte della colpa della disfatta, non tanto per il giudizio del campo, ma tanto per quello che rappresenta (ma nella disastrosa sconfitta contro la Corea del Nord non viene nemmeno schierato). Meroni è scomodo alla società italiana ancora troppo conservatrice, un personaggio costantemente in lizza con l'opinione pubblica.
Per Gigi vivere in quel modo vuol dire essere felici, non lo fa per una questione di immagine come molti farebbero oggi, lui è così.
Muore tragicamente il 15 ottobre 1967, una domenica in cui il Toro si impone per 4 a 2 sulla Sampdoria. Lui insieme al suo compagno di squadra Fabrizio Poletti attraversa Corso Re Umberto, dove si è appena trasferito dalla "mansarda di Piazza Vittorio", per andare a prendere un gelato. E' travolto dall'auto di un diciannovenne appena patentato. Ironia della sorte l'investitore, Attilio Romero, è forse uno suoi più grandi tifosi. Muore la sera stessa per i gravi traumi riportati assistito da Cristiana, dai familiari e dai suoi amici. Ai funerali partecipano migliaia di persone per colui che fu il giocatore più amato e nello stesso tempo odiato d'Italia. Nel punto in cui fu investito i tifosi di Gigi ancora oggi portano fiori in sua memoria. La domenica successiva alla sua morte si gioca il derby con la Juventus che il Torino vince per quattro reti a zero (cosa che non è più successa). Tre goal sono messi a segno dal suo grande amico Combin che malgrado i 39 gradi di febbre scende in campo ugualmente. In molti sostengono che il quarto goal è segnato dalla maglia numero 7, indossata quella domenica da Carelli.----



 
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Livello Fausto Coppi




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  postato il 11/01/2005 alle 19:03
Sono due storie bellissime, da brivido.
Certo, al giorno d’oggi giudicheremmo gli uruguagi come dei macellai e il signor Reader come uno nella lista della spesa di Blatter, ma i tempi erano quelli che erano e se ci si sofferma sul dettaglio della pennellata si perde il significato del quadro nella sua interezza.
Del mito granata dirò che non sapevo che fosse morto a soli 24 anni, incredibile.
Ma ho una domanda inquietante: l’Attilio Romero che l’ha investito non sarà mica quello che è stato (o forse è ancora) nella dirigenza granata di questi ultimi anni?

 
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  postato il 11/01/2005 alle 19:17
Sì, è proprio lui.
 
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  postato il 11/01/2005 alle 19:19
Però, a quanto ne sapevamo, Romero non lo investì ma lo sfiorò mentre Meroni era in mezzo alla strada. La Farfalla Granata, per evitare Romero, fece un repentino passo indietro e venne a quel punto travolto da un'auto che marciava in senso opposto.
 
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Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




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  postato il 12/01/2005 alle 02:28
Frateroby ha scritto...
Affinchè la luce della memoria possa illuminare i nostri passi esitanti, dal sito www.gigimeroni.it, riporto la storia di questo fantastico campione.
Poi se a riguardo, Morris vorrà deliziarci con un Suo commento .....


Carissimo Roberto, certo che di Gigi Meroni ho scritto, ed il ritratto fa proprio parte di "Segnali di Fumo"....
Prima di sabato, lo leggerai.....

Un abbraccio!

 
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Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




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  postato il 23/01/2006 alle 02:20
Originariamente inviato da Morris


L’aver parlato della Coca Cola e della Nike in altro thread, m’ha fatto venire in mente questo ritratto. Per questo lo riporto alla luce. Ci sono significati che non sfuggono e restano perenni nelle memorie di chi vuole continuare a vivere gli ideali…..
Certo, Obdulio è morto poverissimo, sui guanciali delle sue poche cose, non ha fatto il Pelè, che della Coca Cola è paladino e continua ad incassare per gli inevitabili cambi….quattrini a palate.
Ci avviciniamo alle Olimpiadi, oggi merce primaria per le tasche, soprattutto....e ricordare un romantico dello sport come Varela, fa solo bene...

 

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  postato il 23/01/2006 alle 03:43
Un nuovo bellissimo racconto,complimenti
Di Varela sapevo anche un aneddoto:pare che prima delle partite fosse solito bere una bottiglia di vino buono,se non ricordo male per un fatto scaramantico.

 
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Livello Fausto Coppi




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  postato il 23/01/2006 alle 17:14
caro admin,

gigi meroni fu investito da un auto mentre attraversava la strada e fu scaraventato nella corsia opposta, dove , ormai a terra fu investito dall' incolpevole giovane attilio romero, noto come accanitissimo tifoso granata.

davvero strana la vicenda di meroni: tifosissimo del toro, fu incolpevole protagonista della fine del suo idolo... molti anni dopo, da presidente , partecipò colpevolmente al fallimento del torino calcio di ciminelli.
i tifosi granata se lo incontrano per strada giustamente lo svillaneggiano e ora a torino e dntorni non si vede più in giro

colgo l' occasione per ringraziare morris per varela: riletto a distanza di tempo il suo post mi sembra ancora più bello.
ciao
mestatore

 
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Livello Marco Pantani
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  postato il 23/01/2006 alle 19:15
Morris, veramente non ho parole per celebrare i tuoi articoli.
Il calcio, il campione, la grandezza, la vita ordinaria, il Sudamerica e Che Guevara fuori dall'icona pop delle magliette.
Domani lo porto a scuola, sono quelle storie un po' laterali, non so niente di calcio e non conoscevo questo campione, che intrigano nello sport e danno senso, al di là del circo Barnum che oggi è diventato.
Anche l'articolo su meroni sarà sicuramente apprezzzato ( per chi non ha letto Segnali di fumo).

 

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"E' tutto alla conoscenza di tutti" Marco Pantani,1997 ( tempi non sospetti),parlando di doping in un'intervista televisiva con Gianni Minà.

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Livello Marco Pantani
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  postato il 23/01/2006 alle 19:18
Dimenticavo: splendido il titolo, ermeneutica dello sport.
Veramente i tuoi articoli sono questo e lo sai che non lo dico retoricamente ma in assoluta e ammirata sincerità.

 

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Livello Luison Bobet




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  postato il 24/01/2006 alle 12:04
Grandissimo articolo, storie di un calcio che pare non esistere più. Colpisce la dimensione dell'uomo, capace di trascinare la squadra alla vittoria con la più feroce determinazione per poi vivere i giorni seguenti nelle strade a consolare quel popolo che visse la sconfitta con disperazione (te l'immagini Del Piero che rimane a Firenze a consolare i fiorentini sconfitti?). Colpisce anche quel suo ritornare alle sue origini, al termine della carriera: non rinchiudersi in un eremo dorato, non stare un gradino sopra a tutti come sarebbe forse logico bensì tornare in mezzo alla propria gente. Una storia d'altri tempi, un personaggio d'altri tempi, gente d'altri tempi, tempi duri ed eroici assieme. Grazie Morris, veramente emozionante.





Luke

 
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  postato il 24/01/2006 alle 14:15
Originariamente inviato da luke
(te l'immagini Del Piero che rimane a Firenze a consolare i fiorentini sconfitti?)

purtroppo non e' proprio applicabile.
Obdulio consolava gli sconfitti per fargli capire che avevano
perso una partita non la loro dignita' ed il rispetto dei vincitori.
Il calcio d'oggi ha cancellato la parola rispetto dal proprio vocabolario.

grazie Morris

 

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"Non esistono montagne impossibili, esistono uomini che non sono capaci di salirle", Cesare Maestri

"Non chiederci la parola che mondi possa aprirti, si` qualche storta sillaba e secca come un ramo...
codesto solo oggi possiamo dirti: cio` che non siamo, cio` che non vogliamo.", Eugenio Montale.

 
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Livello Fausto Coppi
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  postato il 24/01/2006 alle 16:13
Sono molto vere le vostre parole...
Cara Maria Rita, sono proprio i personaggi come Varela che vanno portati a quegli straordinari ricercatori che sono i giovanissimi. Se non altro per far capire loro che ....il calcio e lo sport possono essere qualcosa di diverso e più puro. Dietro l'ellisse di vita di Obdulio, ci sta uno spaccato di storia intinto d'antropologia, ci stanno quei valori che, pur non accettandoli come strade di vita, grazie alla loro esistenza, spingono ad un sempre fondamentale dibattito interno. Ci sta lo sport, appunto, nella sua ermeneutica.....
Scrivere su personaggi di questa caratura è un dovere, prima che un piacere...

 

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  postato il 25/01/2006 alle 01:46
Originariamente inviato da Morris

Sono molto vere le vostre parole...
Cara Maria Rita, sono proprio i personaggi come Varela che vanno portati a quegli straordinari ricercatori che sono i giovanissimi. Se non altro per far capire loro che ....il calcio e lo sport possono essere qualcosa di diverso e più puro. Dietro l'ellisse di vita di Obdulio, ci sta uno spaccato di storia intinto d'antropologia, ci stanno quei valori che, pur non accettandoli come strade di vita, grazie alla loro esistenza, spingono ad un sempre fondamentale dibattito interno. Ci sta lo sport, appunto, nella sua ermeneutica.....
Scrivere su personaggi di questa caratura è un dovere, prima che un piacere...


Morris volevo chiederti una cosa:dato che non e' ancora un anno che frequento questo forum e di discussioni ne sono state fatte tantissime in passato volevo sapere se sono mai state narrate le gesta di Mattias Sindelar,calciatore della grande Austria degli anni Venti-Trenta prima dell'avvento del nazismo.Se non se n'e' mai parlato volevo sapere se ne parlerai in futuro eventualmente.Saluti.

 
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  postato il 25/01/2006 alle 09:31
Abruzzese,
per questa e altre ricerche ti consiglio la funzione "Cerca":
http://www.cicloweb.it/forum/misc.php?action=search

Pero` Sindelar non e' mai stato citato

ciao!

 

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Livello Fausto Coppi
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  postato il 25/01/2006 alle 10:37
Di Matthias Sindelar “Cartavelina”, ho un file da qualche parte. La sua storia rappresenta un esempio di come anche sullo sport, il nazismo, prima dell’immane guerra, abbia deviato col sangue e la repressione più barbara, il naturale corso degli avvenimenti. “Cartavelina”, aveva una struttura atletica, che oggi si riterrebbe inadeguata per un giocatore di calcio. Sopperiva tutto con intelligenza ed una sensibilità tra le più grandi dell’intera storia dello sport…Era un ebreo austriaco…..destinato a finire nel vortice pazzo degli intendimenti di Hitler…. Non accettò le deviazioni…..finì per farsi morire nel 1939, a 36 anni, con le facoltà atletiche e sportive ancora pari a quelle mentali…….
Se hai pazienza, prima o poi vedrai un suo ritratto….
Piuttosto Abruzzese, se sei giovane, come penso, il solo fatto di interessarti ad un lontanissimo come Sindelar, mi spinge all’applauso. D’altronde, purtroppo, andando indietro negli anni, cresce lo spessore delle figure sportive….Come dire che anche da qui, scopriamo un altro versante della nostra decadenza….

Devo scappare.

Un caro saluto!

 

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  postato il 25/01/2006 alle 15:30
Originariamente inviato da Morris

Di Matthias Sindelar “Cartavelina”, ho un file da qualche parte. La sua storia rappresenta un esempio di come anche sullo sport, il nazismo, prima dell’immane guerra, abbia deviato col sangue e la repressione più barbara, il naturale corso degli avvenimenti. “Cartavelina”, aveva una struttura atletica, che oggi si riterrebbe inadeguata per un giocatore di calcio. Sopperiva tutto con intelligenza ed una sensibilità tra le più grandi dell’intera storia dello sport…Era un ebreo austriaco…..destinato a finire nel vortice pazzo degli intendimenti di Hitler…. Non accettò le deviazioni…..finì per farsi morire nel 1939, a 36 anni, con le facoltà atletiche e sportive ancora pari a quelle mentali…….
Se hai pazienza, prima o poi vedrai un suo ritratto….
Piuttosto Abruzzese, se sei giovane, come penso, il solo fatto di interessarti ad un lontanissimo come Sindelar, mi spinge all’applauso. D’altronde, purtroppo, andando indietro negli anni, cresce lo spessore delle figure sportive….Come dire che anche da qui, scopriamo un altro versante della nostra decadenza….

Devo scappare.

Un caro saluto!


Ti ringrazio della risposta,in effetti e' cosi',la mia carta d'identita' recita 1984 e i racconti che ho letto mi fanno ricordare quando qualche anno fa in certi pomeriggi scoprivo le gesta di uomini straordinari in alcuni almanacchi o libri sportivi.Questi racconti che ho letto qui sul forum pero' hanno un qualcosa che non ho mai trovato da nessuna parte,che li rende unici nel loro genere ed e' per questo che mi piace fermarmi ad ascoltare.
Saluti.

 
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Livello Fausto Coppi
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  postato il 26/01/2006 alle 02:19
Se ami conoscere alcuni grandissimi personaggi dimenticati, di cui nessuno ha scritto in Europa, perlomeno negli ultimi vent'anni, ti lascio questi link:

http://www.cicloweb.it/forum/viewthread.php?tid=415

http://www.cicloweb.it/forum/viewthread.php?tid=795

http://www.cicloweb.it/forum/viewthread.php?tid=1043

http://www.cicloweb.it/forum/viewthread.php?tid=1153

http://www.cicloweb.it/forum/viewthread.php?tid=1194

http://www.cicloweb.it/forum/viewthread.php?tid=1403

http://www.cicloweb.it/forum/viewthread.php?tid=1778

http://www.cicloweb.it/forum/viewthread.php?tid=1474

Ciao!

 

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