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Autore: Oggetto: Scavando sui grandi della velocità....

Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




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  postato il 26/12/2006 alle 16:54
L'amico Mesty aspettava da tempo un certo lavoro sulla pista...
Sarò conseguente partendo dalla specialità più vecchia, che si perde nella notte dei tempi, la velocità.
Fra i pionieri, un italiano che mi è caro, perché figlio della mia medesima terra. Potrei dire più che un vicino di casa di Arnaldo Pambianco, vincitore del Giro del Centenario dell'Unità d'Italia, e del sottoscritto...

Tratto dal mio ultimo libro: "Protagonisti del ciclismo a Forlì"......


ETTORE PASINI, DA BERTINORO ALLE PISTE EUROPEE.

Negli albori del ciclismo in Romagna ogni ricercatore trova subito un grande nome che ha fatto parlare di sé in tutta Europa: Ettore Pasini. Nato a Bertinoro, nel 1874, da una famiglia piccolo borghese, Pasini si diede con convinzione alla bicicletta, dopo aver terminato gli studi superiori in seminario e prima di dedicarsi all'ingegneria meccanica a Bologna.
Eravamo nell'ultimo decennio del secolo scorso, ed il ciclismo si consumava soprattutto su quei velodromi in terra battuta, o tondini come sarebbe più giusto definirli, che sapevano radunare folle incredibili. Forlì, era la città riferimento della Romagna e proprio lì, il giovane Ettore, aveva conosciuto Alfredo Matteucci e, soprattutto, Ugo Bonarotti: il maestro che capì quanto fosse bravo. Così Pasini, dopo una stupenda vittoria nella Rimini Bologna, sulle ali del ciclismo che andava per la maggiore, si dedicò interamente alla pista, dove, in poco tempo, divenne un beniamino per il suo scatto veloce e potente e per l'estrema correttezza. Di struttura muscolare possente portò il suo celebre ciuffo ed i suoi baffi di tipico stile ottocentesco, a sfrecciare sulle piste di tutta Europa, impegnando e battendo a volte con irrisoria facilita i migliori pistard mondiali. Campione italiano juniores nel 1895, fu classificato secondo velocista nazionale di quell’anno dietro a Pontecchi. Esplose nel ’96, quando vinse il G.P. di Milano, il Derby Fiorentino, il G.P. di Firenze, il G.P. d'Alessandria, superando nettamente, oltre ai migliori italiani, anche i primissimi al mondo, a cominciare dall’iridato Bourillon. Ma la sua migliore stagione fu senza dubbio il 1897, quando mise in fila tutti i più forti velocisti mondiali nelle classiche più importanti e fu considerato il numero uno al mondo, pur non vincendo il titolo che andò al tedesco Arend.

Ettore Pasini
'anno dopo, nonostante un certo calo, forse dovuto ai primi sintomi del male che lo portò ad una morte precoce, vinse ugualmente a Torino, Roma, Moulins, Modena ed Anversa. Inutile dire che le sue vittime, anche in quell’anno, furono di grande valore. Nel ‘99 esordì con una gran vittoria a San Remo, ma la malattia ebbe il sopravento per un lungo periodo. Si ripresentò sul finale di stagione, giusto in tempo per vincere il G.P. di Parigi su Grogna, nel gran tempo di 11"8, una performance che se la dovessimo rapportare ai mezzi di oggi, sia per quanto riguarda il suolo delle piste che per le stesse bici, potrebbe comodamente valere un 10"3-10"4. Roba da grande campione, dunque!
L’arrivo del nuovo secolo segnò, purtroppo, il quasi definitivo stop alla carriera del grande velocista bertinorese. II suo canto del cigno a Moulhouse, dove batté fra gli altri anche Jacquelin che poi, poche settimane dopo, si laureò campione mondiale. Ma la grandezza di Ettore Pasini si vide compiutamente nel tandem, in coppia con l’amico lombardo Gian Fernando Tommaselli. I due vinsero 93 gare perdendone solo tre! Se ci fosse stato in quegli anni un campionato mondiale della specialità internazionalmente riconosciuto, i due, sarebbero stati iridati perlomeno un paio di volte. Lo furono ugualmente nella considerazione generale, ed a ben vedere, non è che un’etichetta, cambi molto la sostanza.
Ettore Pasini morì di nefrite il primo gennaio del 1909. Prima di spirare, volle che tutti i trofei e medaglie vinte sulle piste di mezza Europa, fossero devolute a comitati sportivi della Romagna, affinché le mettessero in palio in gare riservate ai giovanissimi. E alla memoria di un sì grande personaggio, per tanti anni fu organizzata a Bertinoro, da una società che portava il suo nome, una manifestazione riservata ad una categoria giovanile. Anche a Forlì, per lungo tempo, fu proposta un’analoga corsa.

La finale dei Campionati italiani 1897.
Da sinistra: Pasini, Conelli, Ferrari, Tomaselli.


er concludere queste brevi note al ricordo del grande pioniere del nostro ciclismo, voglio riportare le dichiarazioni che i suoi avversari e dirigenti internazionali rilasciarono in occasione del ventennale della sua morte.

“Quel giovane era una bella espressione della sua gente: generoso, elegante, simpatico, pronto a mettere sulla bicicletta tutta la sua "furia romagnola"...”
(Leon Breton, Presidente dell'U.C.I. negli anni venti)

“La coppia Pasini-Tomasselli fu un prodotto armonico che non conobbe dissonanze, esempio mirabile non solo di valore atletico ma anche morale; l’amicizia e la stima reciproca dei due campioni potrebbe essere citata ad esempio come quella di Pizia e Damone. Per vari anni la coppia meritò l’appellativo di "vergine"; essa resistette vittoriosa sulla breccia agli assalti delle più famose coppie di quell’epoca come Barman-Loste, Jacquelin-Marin, Jacquelin-Gaugoltz, Parmac-Cornet, Edwards-Green, Heuling-Fischer, Bixio-Nuvolari…...” (Armando Cougnet)

“......Corridore lealissimo. Vero gentleman delle piste. Figura di atleta che non può essere dimenticata, in questa promettente rinascita della specialità che gli fu più cara. Io penso che il ricordare i grandi scomparsi, Ettore Pasini fra i primissimi, debba essere uno sprone ed un incitamento per i giovani perché cerchino di emularne la bravura e le virtù….”
(Federico Momo)

“…...Egli soleva generalmente assumere il comando ai 400 metri, partiva quindi progressivamente e sviluppava una tale andatura che nessuno sul rettilineo opposto all’arrivo poteva rimontarlo, mentre solo pochissimi, fra i migliori, era dato qualche volta precederlo di strettissima misura sul traguardo, dopo lotte palpitanti sul rettilineo finale. Nel 1897 che segnò il periodo della sua forma più splendente, Ettore Passini ebbe un dominio pressoché incontrastato nel campo degli sprinter italiani…..”
(Umberto Dei)

“...... Quando era in forma, con un rapporto relativamente piccolo sapeva partire da lontano e finire con un crescendo rossiniano, tanto che nessuno lo poteva passare. Non cosciente della propria forza però, egli temeva un corridore col quale non aveva mai corso, cosi che all' estero, varie volte si è lasciato battere da velocisti che certo non la valevano. Ecco perché il suo nome rifulse di più nelle corse in tandem, con 1' amico Gian Fernando Tommaselli, il quale conosceva la forza del compagno e sapeva coadiuvarlo con la sua abilità e col suo poderoso scatto…..”
(Romolo Buni)

“Ero ragazzo e ricordo Pasini ancora come lo vidi la prima volta, sulla Montagnola di Bologna nel 1895, ricinto il poderoso corpo da una maglia nera e con due baffoni che incutevano il massimo rispetto. Mi impressionò per il suo scatto potente e per la sua volata tenace e resistente. Corridore leale, buono e cavalleresco come tutti gli abitanti della terra di Romagna, era benvoluto da tutti…..”
(Uberto Martinelli)


Morris

 

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Livello Fausto Coppi




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  postato il 26/12/2006 alle 18:45
grazie morris, un regalo di natale in più

mesty

 
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Livello Tour




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  postato il 26/12/2006 alle 19:01

grazie anche da parte mia, la pista mi interessa sempre molto!

 
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Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




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  postato il 26/12/2006 alle 22:50
Brevi cenni storici........


Il ciclismo si lanciò sulle ali della pista…..

Scavando sulle origini del movimento ciclistico non solo in Italia, emerge da subito un dato che ha svolto una funzione trainante per tutto il pedale: l’impiantistica. Lo sviluppo del velocipede, poi divenuto bicicletta, prima ancora che riprove su strada (a cui si fa troppo spesso unico riferimento), propose soprattutto pista, ovvero luoghi protetti, ove era più facile trasportare l’attenzione del pubblico ed i conseguenti processi simpatetici ed imitativi. Non si trattava di velodromi come li concepiamo in senso moderno, ma di “tondini” allora in terra battuta ricavati immediatamente con logiche che tenevano conto della forza centrifuga e con conseguenti curve rialzate.
Certo, le pendenze formavano angoli irrisori rispetto a quelli dei veri e propri velodromi, ma erano comunque sufficienti per raccogliere gli scopi minimi della loro costituzione. Diverse città, le loro rudimentali piste le ricavavano all’interno dei giardini pubblici o come alternativa ai costituendi ippodromi, ed a ben vedere, alcuni poli, poi confermatisi lungo la storia del ciclismo, ebbero proprio nell’esistenza di questi impianti, un progenitore peculiare.
Dunque, se alle prove di resistenza su strada, si deve riferire la fondazione di questo sport, alla pista, va consegnato il merito dello sviluppo nei termini tecnici del mezzo e la sua popolarità. I primi grandi campioni, quelli che richiamavano le folle e finivano come riferimenti delle locandine del tempo, erano pistard. O meglio, si trattava di atleti che alternavano alla pista la strada, vincendo su ambedue le specialità, fino a scegliere definitivamente le corse sugli anelli, in quanto prodighe di guadagni impensabili fra le polverose arterie dell’epoca. La stessa industria guardava quei corridori come l’anello necessario per giungere al pubblico.
In taluni paesi, soprattutto nel nord America e più in generale negli stati di lingua inglese, la pista ha mantenuto il proprio dominio nel senso più radicale per decenni, al punto di apparire come l’unico versante del ciclismo.
Quando si sfogliano le pagine della storia ciclistica più lontana, addirittura quella pionieristica, il lettore trova riferimenti sul numero dei partecipanti e persino sul pubblico, mentre raramente si imbatte su analoghi riporti, relativamente alle partecipazioni e ai coinvolgimenti attorno ai “tondini”. In parte, tutto ciò è dovuto alla minore esigenza di proposta da parte degli estensori di molti paesi, via via legata al sempre minore interesse dell’osservatorio verso il ciclismo dei velodromi, ed in parte per la considerazione, vecchia oltre un secolo, che attorno a quegli anelli fossero scontate le presenze di migliaia di persone e di decine e decine di partecipanti atleti. Un “peccato originale” su cui gli storici di questo sport non hanno mai posto rimedio, forse anche perché il terreno di ricerca si apriva su campi diversi dal riporto sportivo. In altre parole, il pedale dei tondini rappresentava una festa, un riferimento pari agli spettacoli circensi, all’ippica o a quei tornei di lotta fra animali, che costituivano un’antropologia essenziale e determinante, nell’unire la crescita sociale con l’ancor sottile tempo libero e il vedere da vicino i segni di un’industria crescente, capace di proporre alternativa al cavallo e alle carrozze.
Un dato significativo, di cui sono a conoscenza senza il farraginoso riporto del sentito dire, mi porta al carotaggio su una manifestazione su pista svoltasi in Forlì, nel 1896, nella rinnovata pista di 300 metri del Pubblico Giardino. Bene, in quell’occasione si radunarono una cinquantina di corridori fra i quali stranieri di buon nome, che furono capaci di portare attorno all’avvenimento, un pubblico non inferiore alle cinquemila unità: praticamente il 10% degli abitanti del comune. Volendo fare un confronto odierno con gli 80mila massimi possibili del Meazza, proiettato su una città come Milano, per raggiungere una simile percentuale, l’impianto calcistico ambrosiano, avrebbe dovuto essere quasi triplicato…
Ma se una piccola città dava quelle risultanze, ancor più tangibile era lo spessore che si legava ai consessi cittadini delle capitali o di grandi città europee. Anche qui, come nel ciclismo su strada, Parigi, rappresentò il faro dell’intero movimento, ed anche se non organizzò i primi mondiali riconosciuti del pedale professionistico ogni categoria, il suo Gran Premio, veniva vissuto dagli atleti e dal crescente osservatorio dell’epoca, coi vessilli dell’iride.
Ma quali gare si svolgevano su quei rudimentali velodromi?
Col progressivo passaggio alla bicicletta e con approssimazione minima, potremmo dire essenzialmente tre: velocità, tandem e mezzofondo. Sui tondini americani si aggiungeva la specialità omonima, divenuta poi la regina di quelle particolari corse a tappe su pista che presero immediatamente il nome di “Sei Giorni”, nate anch’esse sul finire del 1800 (New York 1899).
I Gran Premi del periodo si sviluppavano soprattutto sulle prove di velocità e tandem e solo qualche anno dopo (solo su certi impianti) furono aggiunte gare di mezzofondo. Nel ritratto di Pasini, si ha uno spaccato di quanto fossero importanti e spettacolari le prove a bicicletta doppia (come veniva chiamato sovente, a quel tempo, il tandem), ma era la velocità la regina incontrastata. Su quei fondi con curve poco sopraelevate, le bici dell’epoca, su cui oggi cadrebbero anche taluni smaliziati, poggiavano su variabili inverse allo sviluppo della velocità, mentre le ruote, che agli inizi erano a pneumatico pieno (senza camera d’aria), col tempo poterono contare su tubolari aventi una larghezza doppia rispetto alle coperture odierne.
Questa foto di Pietro Bixio, campione italiano fra i professionisti nel 1895, nel 1903 e nel 1904, nonché terzo ai mondiali di Roma del 1902, rappresenta uno spaccato dei mezzi e delle rudimentali concezioni velocistiche del tempo.

Come si può vedere la posizione dell’atleta è raccolta, non già per scelta, quanto per la morfologia del mezzo. L’inclinazione della forcella è stucchevole per le concezioni biomeccaniche, l’inesistenza dell’attacco manubrio (o pipa come qualcuno la chiama) e dei ferma-piedi, nonché i rapporti molto leggeri (40-42 x 16-18 generalmente), rappresentano gli aspetti che maggiormente balzano agli occhi, ma c’è di più. Per un utile confronto inserisco una foto dell’attuale campione del mondo della velocità, l’olandese Theo Bos, col suo bolide.

I velocisti di fine ottocento ed inizio novecento, erano dei giramondo che s’allenavano correndo in tornei anche minori, ma utili al portafogli e le industrie del tempo, li ricercavano come testimonial primari. La locandina che segue, risale al 1904: accanto a Georget, considerato al tempo come il più forte corridore di durata su strada (vinse una Bordeaux-Parigi e correva anche su pista), c’è proprio uno dei migliori velocisti del mondo, tra l’altro non ancora iridato (lo vincerà nel 1907), Emile Friol.


Dopo diverse annate di GP senza giungere ad una prova valevole per l’assegnazione della maglia iridata, nel 1895, si arrivò, a Colonia, al primo (contestato assai, come si vedrà) campionato mondiale della velocità…

Morris

Segue….

 

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  postato il 27/12/2006 alle 02:16
Thread molto interessante
Da quanto ho letto mi par di capire che i velocisti del tempo per i mezzi di cui disponevano fornirono prestazioni assai notevoli.
In effetti comunque nei primi anni del Novecento c'erano molti campioni che si dedicavano anche alle kermesse in pista: Emile Georget,che è stato citato,ho visto che ha vinto diverse tappe al Tour,mi sembra che anche Gustave Garrigou fosse molto valido su pista(spero di non essermi confuso con qualcun altro).
Noto inoltre che è stata citata la specialità del tandem,dove alcuni anni prima di essere abolita si era messo in grande evidenza Gianluca Capitano,originario proprio della mia città.

 
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Livello Tour




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  postato il 27/12/2006 alle 09:47
ancora grazie
 
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  postato il 27/12/2006 alle 10:12
ho una domanda "tecnica" per chi sa e vuole rispondermi: ho visto che Theo Bos ha i pedali a sgancio rapido, ma mi pare sia un'evoluzione recente, perchè fino a non molto tempo fa i velocisti utilizzavano ancora i cinghietti. E' un miglioramento il passaggio ai pedali a sgancio rapido? oppure il cinghietto era meglio?
 
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Livello Fausto Coppi
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  postato il 27/12/2006 alle 13:05
Originariamente inviato da Abruzzese

In effetti comunque nei primi anni del Novecento c'erano molti campioni che si dedicavano anche alle kermesse in pista: Emile Georget,che è stato citato,ho visto che ha vinto diverse tappe al Tour,mi sembra che anche Gustave Garrigou fosse molto valido su pista(spero di non essermi confuso con qualcun altro).
Noto inoltre che è stata citata la specialità del tandem,dove alcuni anni prima di essere abolita si era messo in grande evidenza Gianluca Capitano,originario proprio della mia città.


Sì, molti campioni della strada di inizio '900 si cimentavano su pista, ma Gustave Garrigou non ha mai brillato sui tondini. Forse ti riferivi a Leon Georget, fratello maggiore di Emile, ed autentico dominatore della gara per eccellenza su pista del periodo, la Bol d'Or, quasi famosa quanto il Tour de France. Leon la vinse ben nove volte, l'ultimo dopo il conflitto nel 1919.
Sul tandem, è vero, il rimpianto è grande (un'altra delle tragedie dell'UCI che ha pure eleminato il Mezzofondo). Strana la storia della specialità: nata da subito con gare che entusiasmavano le folle, entrò presto nel programma olimpico, ma non nei mondiali ufficiali (solo nel 1966). Poi l'assurdo abbandono nel 1994.
Gianluca Capitano, di Chieti, vinse due volte il mondiale in coppia con Federico Paris, nel 1990 e '92. Nella velocità, invece fu iridato junior nel 1989. Vanta pure 16 titoli italiani colti in varie categorie e specialità veloci.

 

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Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




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  postato il 27/12/2006 alle 15:15
Originariamente inviato da Reggio Emilia

ho una domanda "tecnica" per chi sa e vuole rispondermi: ho visto che Theo Bos ha i pedali a sgancio rapido, ma mi pare sia un'evoluzione recente, perchè fino a non molto tempo fa i velocisti utilizzavano ancora i cinghietti. E' un miglioramento il passaggio ai pedali a sgancio rapido? oppure il cinghietto era meglio?


Effettivamente si tratta di una novità recente, ed in giro per il mondo ci sono ancora alcuni che preferiscono i cinghietti.
Il miglioramento dell'affidabilità dei pedali a sgancio rapido, il loro minor peso (minuzie), ed il fatto di potersi liberare maggiormente della bici in caso di caduta, ha determinato questo passaggio. Restano comunque molte soggettività e c’è ancora, come detto, chi non si sente di abbandonare il tradizionale.
Ciao!

 

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  postato il 28/12/2006 alle 01:10
Originariamente inviato da Morris

Originariamente inviato da Abruzzese

In effetti comunque nei primi anni del Novecento c'erano molti campioni che si dedicavano anche alle kermesse in pista: Emile Georget,che è stato citato,ho visto che ha vinto diverse tappe al Tour,mi sembra che anche Gustave Garrigou fosse molto valido su pista(spero di non essermi confuso con qualcun altro).
Noto inoltre che è stata citata la specialità del tandem,dove alcuni anni prima di essere abolita si era messo in grande evidenza Gianluca Capitano,originario proprio della mia città.


Sì, molti campioni della strada di inizio '900 si cimentavano su pista, ma Gustave Garrigou non ha mai brillato sui tondini. Forse ti riferivi a Leon Georget, fratello maggiore di Emile, ed autentico dominatore della gara per eccellenza su pista del periodo, la Bol d'Or, quasi famosa quanto il Tour de France. Leon la vinse ben nove volte, l'ultimo dopo il conflitto nel 1919.

Ho capito,begli atleti i Georget quindi .
Comunque sono andato a rivedere un attimo la carriera di Petit-Breton che ha vinto 2 Tour de France ed ho visto che nel 1905 ha stabilito il record dell'ora.Il dubbio mi veniva dal fatto che pensavo che uno di coloro che avevano vinto il Tour si faceva apprezzare anche su pista(ecco perchè ho pensato a Garrigou).Visto che l'ho citato,effettivamente Lucien Mazan "Petit-Breton" era veramente uno che eccelleva su pista oppure quel record dell'ora fu un'esperienza isolata?

 
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Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




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  postato il 28/12/2006 alle 01:50
Con Petit Breton, vai sul sicuro. Mazan, aveva conosciuto la pista quando ancora viveva in Argentina. Giunto in Europa, poté praticarla con costanza, ed anche se deve alla strada la sua fama, pure sui tondini lasciò un segno notevole. Oltre al Record dell'Ora, vinse la Bol d’Or nel 1904, proprio davanti a Leon Georget, mentre in precedenza, nel 1902, nella medesima prestigiosa manifestazione, era giunto dietro lo specialista Constant Huret.
Fra gli stradisti dell’epoca che si cimentarono con risultanze su pista, anche il grande spazzacamino valdostano Maurice Garin, che giunse terzo nella Bol d’Or del 1899 e secondo in quella dell’anno successivo. Da segnalare pure i secondi posti nella manifestazione (1905-1908), di un altro transalpino famoso per essere venuto in Italia a vincere la prima edizione del Giro di Romagna: Jean Baptiste Dortignacq.

Ciao!

 

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  postato il 28/12/2006 alle 11:24
Originariamente inviato da Morris

Originariamente inviato da Reggio Emilia

ho una domanda "tecnica" per chi sa e vuole rispondermi: ho visto che Theo Bos ha i pedali a sgancio rapido, ma mi pare sia un'evoluzione recente, perchè fino a non molto tempo fa i velocisti utilizzavano ancora i cinghietti. E' un miglioramento il passaggio ai pedali a sgancio rapido? oppure il cinghietto era meglio?


Effettivamente si tratta di una novità recente, ed in giro per il mondo ci sono ancora alcuni che preferiscono i cinghietti.
Il miglioramento dell'affidabilità dei pedali a sgancio rapido, il loro minor peso (minuzie), ed il fatto di potersi liberare maggiormente della bici in caso di caduta, ha determinato questo passaggio. Restano comunque molte soggettività e c’è ancora, come detto, chi non si sente di abbandonare il tradizionale.
Ciao!


grazie

 
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Livello Fausto Coppi
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  postato il 28/12/2006 alle 19:58
ROBERT PROTIN
Nato a Liegi (Belgio) il 10 novembre 1872 ed ivi deceduto il 4 novembre 1953. Professionista dal 1895 al 1901.



A questo belga non troppo imponente e dallo sguardo imperturbabile, spetta la palma di primo campione del mondo della velocità. Protin, non dava la sensazione di essere un imbattibile, ma alla fine, sui traguardi importanti, spesso emergeva. Amava i rapportini dell’epoca e le volate di testa, anche perché teneva sempre in serbo un rush aggiuntivo sul rettilineo finale….ed allora le curve, così poco sopraelevate, erano una complicazione per chi doveva rimontare. Dopo essere stato per quattro anni campione belga della velocità fra i dilettanti (dal 1891 al 1894) e dopo aver vinto il campionato dei 100 chilometri nel 1893, l’europeo della velocità nel 1892 e’93, il campionato continentale sui 10 chilometri in quel di Arnhem (Germania) e quello di Francia sui 5 chilometri nel 1893, passò professionista nel 1895. Si impose da subito in numerosi Gran Premi in giro per il continente (in Italia vinse a Firenze), incontrando da subito una grande rivalità col connazionale Hubert Houben. Con costui, fu autore di un numero incredibile di duelli, al punto di rendere il Gran Premio del Re di Bruxelles del 1895, come un anticipo dell’annunciato primo campionato del mondo. Qui, i due si giocarono il successo, finendo praticamente alla pari sulla linea del traguardo. Il giudice d’arrivo ordinò la ripetizione della prova, ma il re Leopoldo II, presente alla manifestazione, s’oppose e premiò nel medesimo modo i due campioni.
Ai mondiali di Colonia, Protin si presentò col ruolo di possibile favorito, ed alla fine riuscì ad emergere d’un soffio sull’americano Banker e sul connazionale Huot. La non evidente vittoria del belga però, provocò nello statunitense la convinzione di non aver perso e lo spinse a formalizzare un reclamo. La gara tedesca, che in un primo momento aveva visto la traballante ICA (la Federazione internazionale antecedente l’UCI che gestì il movimento fino al 1900), formalizzarle l’assegnazione del mondiale, in conseguenza di quel reclamo, venne annullata e l’ente destinò a Parigi un nuovo torneo iridato. Nella capitale transalpina però, si presentò il solo Banker, a cui fu assegnato d’ufficio il titolo. Due settimane dopo, l’ICA, di fronte a quel “non senso”, propose una nuova prova iridata a Colonia, ma stavolta nessuno si presentò. Le minacce della Federazione belga ed il silenzio accettazione del primo verdetto, da parte delle altre federazioni nazionali, portarono finalmente l’ente ad assegnare ufficialmente il titolo mondiale a Protin. Dopo quella contestata maglia iridata, il belga continuò a mantenersi fra i migliori velocisti mondiali, vincendo diversi Gran Premi, ma non trovò più l’acuto iridato. Nel 1901, quando capì di aver guadagnato abbastanza per poter aprire una propria officina, si ritirò.

Morris

segue....

 

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Livello Fausto Coppi
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  postato il 30/12/2006 alle 22:52
PAUL BOURILLON
Nato a Marmande (Francia) il 14 gennaio 1877 ed ivi deceduto il 14 aprile 1942. Professionista dal 1895 al 1899.



Quattro aggettivi si sublimano in questo francese dal fisico per nulla statuario: tenace, rissoso, coraggioso e ambizioso. Su Paul Bourillon, si potrebbe aggiungere tanto altro, ma i suoi tratti evidenti erano quelli. Inforcò la bicicletta per dominare, poi, quando capì che le sue facoltà non erano sufficienti per restare ai vertici, a soli 23 anni, si ritirò. Al ciclismo arrivò abbastanza tardi, ma a vent’anni aveva già deciso di fare della bicicletta un mestiere e fu subito un successo, perché, inaspettatamente, colse la vittoria nel Gran Premio più prestigioso, quello di Parigi. Sulle ali di quell’acuto, iniziò a cimentarsi anche negli altri paesi d’Europa, inanellando protagonismo, nonostante diverse sconfitte. Già, perché prima di perdere, il Paul di Marmande, faceva sudare chiunque, e non solo per la sua abilità atletica, ma pure per delle condotte di gara ben poco signorili e dense di trucchi. Nel 1896, iniziò il suo particolare guanto di sfida ai velocisti tedeschi, specie nella loro terra. Con loro inanellò duelli ai limiti, poi, consumatasi la vittoria o la sconfitta, colui che sulla pista pareva il diavolo, diveniva cordiale e pieno di simpatia.
La sua fama raggiunse l’apice ai Mondiali di Copenaghen, nel 1896, quando, dopo aver superato diversi contendenti di prestigio, superò in finale l’inglese Barden e il connazionale Jacquelin, raggiungendo così l’iride, a nemmeno due anni dal debutto. L’anno successivo, rivinse diversi GP, compreso nuovamente quello di Parigi, ma ai campionati mondiali vinti dal “nemico” tedesco Arend, fu autore di una gara incolore. Continuò ancora un paio d’anni, mantenendo costantemente un ruolo faro nel circuito professionistico, ma nel 1899, la sua ambizione, riscontrando troppe sconfitte, lo spinse all’abbandono. Divenne tecnico di settore, allenava e faceva pure il meccanico, fino al punto di aprire, nella sua Marmende, una officina. Di lì a poco però, la passione per il volo lo coinvolse al punto, di farlo divenire un pioniere anche nell’aviazione.




WILLI AREND
Nato a Hannover (Germania) il 2 maggio 1876 e deceduto a Berlino (Germania) il 25 marzo 1964. Professionista dal 1896 al 1923.



La carriera di questo tedesco ben poco tale nelle misure che solitamente diamo ai cittadini di quella terra, già si presenta straordinaria per la longevità, ma poi, a ben vedere, stupisce per un’altra peculiarità: la condotta poco sincronica alla via maestra di un atleta. Iniziò a vent’anni la sua avventura sulla quella bicicletta che vide, da subito, come uno strumento per vivere esperienze, viaggiare e divertirsi. Già, perché Willy Arend, con l’aspetto del bravo ragazzo, signorile e da bancario, ben presto si dimostrò un viveur da romanzo che non si privava di nulla. Ciononostante, la sua carriera, iniziata a vent’anni nel 1896, si prolungò sempre con sussulti degni di un evidente, fino al 1923: 25 anni, dunque! In questo quarto di secolo, non si destinò solo come protagonista della velocità individuale, ma fu pure un ottimo seigiornista (ne vinse due), grandissimo interprete del tandem in coppia col danese Ellegard, e pure valente nelle gare di durata, sempre su pista.
Nell’anno del debutto, il 1896, divenne campione tedesco della velocità e si confermò tale anche nelle due stagioni successive. Nel 1897, a soli 21 anni, sulla pista di Glasgow, battendo l’idolo di casa Barden e il francese Nossan, si laureò campione del mondo nella specialità amica.
Dopo questo successo, iniziò la sua polivalenza che, nella realtà tecnica, si spiegava con una non comune resistenza alla velocità e su indubbie doti nella memorizzazione del ritmo. Non a caso le sue volate erano molto lunghe ed entusiasmavano il pubblico, anche perché le corredava con una particolare smorfia: correva a bocca aperta e l’aggiunta dei baffi lo facevano apparire come una foca. Ma il suo modo di affrontare lo sforzo, era spesso figlio del poco allenamento e delle levatacce a cui s’era col tempo abbonato. Infatti, il poco tedesco Arend, era solito conoscere la città ove andava a correre, attraverso i locali notturni, dove era si fermava a bere come una spugna per poi ritirarsi con fanciulle disponibili ad incontrare la pelle di un campione del mondo…. Memorabile la sua “sbronza di vita” che lo coinvolse, a Parigi, la notte precedente il Gran Premio della Repubblica del 1901. Andò a letto all’alba, dopo aver fatto tappa in tutti i ritrovi di Montmartre e non si sarebbe alzato per la gara che aveva inizio nelle prime ore del pomeriggio, se non fosse stato per un appassionato operatore dell’albergo dove alloggiava. Grazie a costui, che se lo portò quasi a braccia al velodromo, ancora intontito e digiuno, Arend, più boccheggiante del solito, mise in fila tutti i migliori velocisti mondiali, compreso il già grande danese Thorval Ellegard, suo compagno di tandem, ed il francese Edmond Jacquelin. La vittoria in quella manifestazione, che per taluni valeva più di un mondiale (come tutte le gare di Parigi, del resto), diede un segno ulteriore delle valenze, già riconosciute, di questo atleta straordinario.
Nel palmares infinito di Arend poi, vanno citati i tre Gran Premi della Finanza riservati ai tandem (praticamente il mondiale della specialità, anche se mai riconosciuto ufficialmente), nel 1901-’02-’03, il terzo posto ai mondiali della velocità nel 1900, un altro titolo tedesco nello sprint individuale colto nel 1921 (a 45 anni!), oltre un centinaio di Gran Premi in varie piste d’Europa. Chiuse la carriera nel 1923, ed a dispetto della sua vita fuori dalle righe (compreso il fumo), morì nel 1964, ad 88 anni.



GEORGES BANKER
Nato a Pittsburgh (USA) l’8 agosto 1874 e deceduto in località sconosciuta l’1 dicembre 1917. Professionista dal 1894 al 1909.



Arrivò al ciclismo per la vivacità che l’animava. Ben presto conobbe la pista, già fortemente organizzata ed in voga negli Stati Uniti, ma non gli bastavano quei confini. Infatti, ancor giovanissimo, divenne un riferimento per la sua terra, tanto facile alla vittoria, quanto desideroso di sfide che gli potessero dare fama e riconoscimenti più completi. Si spostò così, a soli vent’anni, in Europa, impegnando i già consistenti guadagni ottenuti sui tondini di casa e parte dei danari che la famiglia, abbastanza agiata, gli passava. Anche sul vecchio continente, mantenne il suo ruolino di pronosticabile al successo, vincendo da subito il Gran Premio di Parigi e diversi altri GP, fino ad marcare la popolarità aggiuntiva dettata dalla sua provenienza: era infatti soprannominato “l’americano”.
Nel 1895 dopo aver dominato il GP de l’UVF nella capitale trasalpina, fu autore in quel di Colonia, di un grande mondiale, poi sfuggitogli per un soffio e non senza rimpianti, come ho già raccontato nello zoom su colui che agli annali lo superò: Robert Protin. Pur mantenendosi nel novero dei più forti, Georges Banker dovette aspettare il 1898 per laurearsi iridato, quando, sulla pista di Vienna, superò il tedesco Vertheyen e il francese Jacquelin. Dopo il successo ai campionati mondial, non trovò più acuti nelle gare iridate, ma continuò ad essere un riferimento dei Gran Premi nelle città d’Europa. Si ritirò nel 1909. La spericolatezza che mostrava sui tondini, la trasferì sulle non certo numerose auto dell’epoca, trovando la morte, il primo dicembre 1917, nelle vicinanze della città natale di Pittsburgh, uscendo di strada proprio su quel nuovo mezzo.


Morris


...segue...

 

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"Non discutere con gli stupidi, perchè scenderesti al loro livello e ti batterebbero per la loro esperienza".

 
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