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Autore: Oggetto: Buon Compleanno, mitico Ilic !!!

Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




Posts: 4217
Registrato: Oct 2003

  postato il 18/08/2005 alle 19:50
CARO ILIC (JANJANSSEN), BENVENUTO NEL CLUB DEI CINQUANTENNI!!!


Non è facile riassumere a flash, i tratti del primo mezzo secolo di una grande persona; diventa poi un’impresa improba, riproporre il summa della miriade di interessi, dei segni e dell’opera di un uomo che, nel silenzio e nell’umiltà di chi possiede il distinguo dei veri, ha portato e porta insegnamenti quotidiani di vita e di valori.
Un tempo, la nostra generazione sognava nella più naturale linea cromosomica, le volontà e gli ideali di genitori che avevano vissuto la faccia più deleteria e grave dell’umanità, nelle vesti di un’immane conflitto. Oggi, quei sogni e quegli ideali, sono costretti a confrontarsi con un quotidiano che pretende di dividere in sezione le lamette e si dipana, fatuo, sulle tracce della libertà, per stendere realmente un subdolo laccio, sempre sincronico alla brutalità dei difetti dell’uomo. Emergere in questo marasma confondente, non per le tangibilità d’una meritocrazia quasi sempre fasulla e legata al criminale danaro, ma nelle essenze dell’essere, significa possedere idiomi ed epigoni certi ed indistruttibili.
Tu ci sei riuscito e nelle medesime consistenze ci riuscirai sempre.
Guardandoti, scopriamo il più profondo dei messaggi che ci dovrebbero essere siamesi: la dignità.
Per anni, e chissà per quanto ancora, chi studia le scienze dell’uomo, ha dovuto dividere nel parametro della scelta sociale, ciò che deve perennemente rimanere patrimonio del singolo; qui, si sono divise le tendenze e le verità interiori di chi studiava. Qui, si sono rescisse quelle che sembravano certezze, le caratteristiche ideali e l’onestà. E dire che tutto si muoveva, proprio attorno ai significati della dignità da concepire e difendere come area vitale dell’individuo.
Tu sei uno stereotipo, che un umile come me vorrebbe più presente in chi, oggi, senza la profondità dei predecessori, prova a proporre, coi graffi della filosofia e della sociologia, una via per una società migliore, in linea con un uomo illuminato nel suo interno e nell’intorno.
Ed è da questa fondamentale particella di studio e d’osservazione che il quotidiano d’Ilic lancia, che si può ripartire speranzosi di ritrovare gli istmi che portano ad una via maestra e nuova per tutti.
Caro Jan, sei un grande!


.....Si legge il terriccio
del cielo si conoscono le brezze
dall’albero si vedono le vene di vita
anche la pietra ci parla.

Le onde sono metafore di noi,
lo scopriamo
quando l’acqua ci colpisce il volto
del nostro volere orizzontalità.

Leviamo canti per sognare
perché i rumori
ci han tolto la musicalità
nidificata nel cuore.

Voliamo sulle parole
sperando di non trovare
gli aculei dei denti
per narrare realtà sconosciute.

Tutto si condensa
si libera propulsivo
e s’immette pieno in un vento
che non è tramontana o libeccio
ma dignità.....


Ma l’Ilic, oggi cinquantenne, un suo distinguo particolare e profondo, ce lo ha portato anche su un terreno particolare della vita e dell’arte: lo sport.
Qui lo abbiamo conosciuto, ed ogni giorno lo attendiamo per ricevere quegli acuti che diventano, con passo automatico, patrimonio dei nostri sguardi.
Dall’oceano che il diventato Janjanssen ha immagazzinato profondendo passione, tifo e ammirazione, ho scelto, sperando di non sbagliare troppo, questi echi......


CICLISMO

….Eravamo bambini, ci si poneva ai margini delle strade, allor dotate di quell’asfalto rugoso e denso di brecciolino che faceva ticchettare, come una scarica, il passaggio delle ruote di un mezzo. Aspettavamo i corridori, tanto in allenamento quanto in corsa. La speranza si giocava tutta su quel qualcosa che quegli uomini dalle maglie colorate e intense potevano gettare: un berrettino, una borraccia, a volte perfino la carta dei loro panini o fruttini. Quando si raccoglieva qualche cimelio, ci si sentiva fieri, come fossimo anche noi corridori….
Le strade di Ilic erano frequentate più degli altri, e fra gli altri, da ragazzi che poi passeranno professionisti come Luciano Sambi, Domenico Meldolesi, Celso Gambi, da un supervelocista rimasto dilettante come Orano Guberti della gloriosa Edera Santo Stefano e da un compagno di questi, il più forte di tutti, nonchè uno dei più grandi talenti mai espressi dal ciclismo italiano: Lello Mariani. Costui fece dire a Gimondi.... che non gli era pari.....
Di qui, il nostro Janjanssen, nella crescente passione che la TV arricchì, cominciò a macinare conoscenza, particolari e tifo......fino a giungere oltralpe.....


Raymond Poulidor

Raymond Poulidor “Poupou”, passa alla storia, spesso tramutata e trasformata dall’esagerazione delle letture delle cifre, come un perdente. In realtà era un fior di campione, un corridore che per essere summa di completezza, avrebbe avuto bisogno di un po’ di sprint. Ha segnato un’epoca, è stato amato dai francesi come nessuno. Quando duellava con Anquetil, spalla a spalla, come nella foto che segue, aveva dalla sua, l’amore incondizionato dei suoi connazionali…..



….Un giorno alcuni distratti osservatori dissero che Merckx, il Tour ’74, lo vinse con facilità perché di fronte aveva solo il vecchio e perdente “Poupou”….Poi, questi incauti “lapidatori” ebbero, poche settimane dopo, una sonora smentita. I mondiali di Montreal, conclusi da soli 18 concorrenti, sciolsero il valoroso ma velleitario giovane Moser, appannarono e spuntarono il gotha del ciclismo mondiale e solo un corridore seppe tenere fino all’ultimo la ruota dell’indemoniato belga, Raymond Poulidor. Terzo, a testimonianza dei valori di quella edizione della “Grande Boucle”, finì un piazzato di quel Tour, il francese di origine ispanica Mariano Martinez, il più miope corridore mai apparso al professionismo…..


“Poupou” oggi

Il tifo italiano di Ilic, negli anni che forgiarono l’indelebile suo amore verso il ciclismo, si orientò verso un corridore molto forte, ma capace di accostare alle qualità atletiche,i distingui della gentilezza, dell’eleganza, della furbizia e della loquela, Vittorio Adorni. Ancor oggi, ormai settantenne, l’ex campione, sa coinvolgere per queste sue capacità...



Naturalmente l’Adorni di Ilic e del sottoscritto che ne condivideva il tifo, sapeva coinvolgere soprattutto come atleta e, quando stava bene, solo un belga che poi verrà, poteva piegarlo. Nella foto sopra, in un paesaggio invernale delle Alpi italo-svizzere risalente al Giro ‘65, Vittorio, sta per sferrare un attacco che lo porterà, con la maglia rosa addosso, ad un’impresa di gran pregio. La tappa è la Saas Fee-Madesimo e qui siamo alle prime rampe dello Spluga. Adorni, vincerà quel Giro con un vantaggio coppiano e merksiano.....



Qui sopra, Vittorio, ha appena vinto quel mondiale che lo farà passare alla storia come il dominatore più tangibile dell’intera storia della manifestazioni iridate. Il secondo, Herman Van Springel, giungerà ad un battito di ciglia dai 10 minuti!

Fu una giornata che mai dimenticheremo, vero Ilic?

Il parmense era un corridore quasi perfetto per completezza, perché non era per nulla fermo in volata, ma è vissuto in un’epoca troppo folta di campioni e poi dominata da un super senza eguali. La differenza fra Gimondi ed Adorni, ad esempio, è assai più tenue delle consistenze dei loro palmares. E se non ci fosse stato Vittorio, le prime classiche vinte da Gimondi, sarebbero andate a qualcun altro….Adorni, sapeva consigliare come nessuno e non disdegnava furbizie e malizie come qui sotto, grazie alle quali, il Felice, s’arricchì del Lombardia ‘66…..


Lombardia ’66 – Nell’arrivo al velodromo di Como, Adorni tiene alla corda Merckx, quasi a volerlo portare sul prato, mentre Gimondi è lanciatissimo. Il gruppetto di sei corridori che si giocò la vittoria, era composto dai tre citati, nonché da Poulidor (3°), Anquetil (4°) e Dancelli (5°). Adorni giunse sesto, mentre Felice superò Eddy, ma sappiamo tutti il perché. I nomi di quel drappello, proiettati sul ciclismo di oggi….ci fanno capire quanto sia cambiato (per me in peggio) il ciclismo….

(continua… )


Morris

 

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Livello Fausto Coppi




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  postato il 18/08/2005 alle 20:17
caro janjansen,
per una volta faccio un eccezione: non scrivo mai post su fatti personali, ma il grande janjanssen lo merita.
buon compleanno, con grande stima e , mi sia permesso, affetto.
il solo fatto che il grandissimo morris ti dedichi un post così testimonia la tua statura.
spesso non posso scrivere, perchè quello che avrei voluto dire, lo hai già scritto tu, jan, con molta maggiore competenza , garbo e stile di quanto mai sarei stato capace.
ciao
mesty.

 
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Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




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  postato il 18/08/2005 alle 21:38
Ma i confini del tifo e dell’ammirazione, non possono fermarsi agli steccati di un paese…La cultura, spesso, supera i parametri della stessa antropologia, ed il nostro Ilic, dal coinvolgimento emotivo per un corridore occhialuto, proveniente dalla terra dei tulipani, arriverà poi, tanti anni dopo, a scegliere le generalità di quel grande, come il suo personale distinguo: un nick.
L’atleta sopraffino era Jan Janssen, un corridore che seppe farsi completo, da uno status originario di ruota veloce. Lo fece con le facoltà della testa e del corpo, perché allora…. non c’erano le alchimie dell’oggi......



Jan Janssen nei suoi 120 successi, nasconde tanto del meglio possibile per un corridore, dal campionato del mondo, a grandi giri come Vuelta e Tour, a classiche come la Roubaix. Proprio alla “gara del fango e del pavè” edizione ’67 risale la foto sotto…..


...dietro Janssen si intravede l'italiano Durante, quel giorno alla sua migliore Roubaix...

Janssen, fu un corridore molto intelligente anche nell'abbandono dell'attività. Si ritirò, infatti, alla fine della stagione 1972, quando ancora appariva nel pieno delle forze...ma lui sapeva che non era così. Oggi insegna ciclismo ed un faro per tanti giovani olandesi, alcuni dei quali per emularlo....hanno fatto scelte opinabili ed esagerate, per le quali sono poi giunte tristissime conclusioni....
Il corridore gentile che si ammirò in carriera, s'è poi compiutamente mostrato anche dopo. Jan Janssen, un vero signore.


Jan, oggi.



PUGILATO

Per un grande conoscitore del pugilato come Ilic, anzi vero e proprio cantore di questa disciplina bellissima (se vissuta con intelligenza intingendosi pienamente nei suoi valori), è difficile scegliere i ritratti, i ricordi e l’attualità a lui più immanenti, si rischia di scrivere un romanzo e poi non basterebbe…..

Ho scelto concisamente questo pugile grandissimo, perché nella sua boxe tanto ardimentosa quanto tecnica, ci sta gran parte di ciò che Janjanssen ama del pugilato: Josè “Mantequilla” Napoles.



Più che il record di questo peso welter naturale, consistente in 77 combattimenti con sole 7 sconfitte e 54 vittorie prima del limite, stupiva l’autorevolezza con cui conduceva i match. Per batterlo serviva un pugno al fulmicotone, perché di punti deboli non ne aveva proprio. L’unico che lo sfregiò nella sua categoria, fu Billy Backus, nipote del grande Carmen Basilio, sul ring italiano di Siracusa, il 3 dicembre 1970. L’americano vinse per KO in quattro riprese, ma nella rivincita di Los Angeles, avvenuta il 6 giugno dell’anno dopo, Napoles, dominò l’avversario fino a stenderlo all’ottava ripresa.
Josè, era un cubano divenuto messicano, perché nel suo paese d’origine, con l’avvento del comunismo, non era più possibile praticare la boxe da professionista, ma nel suo pugilato, la scuola cubana, s’è vista sempre.
Altro aspetto della grandezza di Napoles, oltre ai prestigiosi successi su pugili di valore, su tutti Curtis Cokes, Emile Griffith, Ernie Lopez e Armando Muniz, ci viene dalla sua disponibilità a combattere al di fuori delle mura amiche messicane. Un distinguo non da poco. Poi, quando già i lumi delle sue migliori facoltà si stavano spegnendo, accettò, il 9 febbraio 1974, a 34 anni, una sfida impossibile, fra i medi, con Carlos Monzon, sul ring di Parigi. Il motivo, più che l’onore, stava tutto nei quattrini….L’argentino era un medio naturale, uno che oggi, coi gonfiamenti degli ormoni, avrebbe potuto combattere nei mediomassimi, per non dire nei massimi. Mantequilla, più che i due anni superiori all’anagrafe, rendeva a Carlos, chili peculiari e centimetri. Ciononostante, per almeno quattro riprese, imbrigliò con la sua boxe varia e completa l’argentino, ma poi fu costretto a cedere alle leggi della logica e, al settimo round, finì definitivamente sul tavolato.
Considero Napoles, se non il migliore, perlomeno uno dei migliori welter della storia, ma se fossi stato il suo manager, soldi o non soldi, non avrei accettato quel match. Semplicemente perché il pugile cubano-messicano valeva di più dell’argentino nella proiezione della sua reale categoria. Certo, i soldi sono tanto, ma perlomeno avrei chiesto garanzie per un match “non al massimo”….come tanti e pure importanti incontri della storia della boxe. Mi spiace, ma nella carriera immensa di Napoles, quell’infortunio, che poi segnò definitivamente il suo declino, poteva essere evitato. Eppure, per oltre un anno, a dimostrazione della sua grandezza, continuò a dominare nei welter, ma a dicembre del 1975, la sconfitta prima del limite, in sole 5 riprese, col non trascendentale britannico Jahn Stracey, gli fece capire che era meglio smettere. La potente “noble art” di Mantequilla, chiudeva così il proprio luminoso corso, ma non la storia, che continua tuttora ad eleggerla, come una delle più belle mai viste fra i welter.

Morris

Continua...

 

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  postato il 18/08/2005 alle 21:40
Auguri di cuore a JanJanssen da tutta la redazione, e grazie a Morris per aver ricordato la ricorrenza!


 
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  postato il 18/08/2005 alle 21:54
Tanti auguri anche da parte mia!!!
 
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  postato il 18/08/2005 alle 22:11
Tanti cari auguri, JanJanssen!!!

Enu

 

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Livello Miguel Poblet




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  postato il 18/08/2005 alle 22:32
Auguri campione
 
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Livello Fausto Coppi




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  postato il 18/08/2005 alle 23:01
Grande Jan Jan Auguroni!!!

 

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Davide

 
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Livello Fausto Coppi
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  postato il 19/08/2005 alle 00:46
TENNIS

Nei nostri cinquanta anni, caro Ilic, abbiamo avuto la fortuna di vedere quello che, probabilmente, mai più si vedrà: il tennis come pura poesia dell’abilità, del tocco e del polso. Interpreti grandiosi di questi acuti artistici, ce ne sono stati diversi, ma i tre che ho scelto, sono quelli che più di tutti, t’hanno fatto roteare le orbite sulle ali dell’ammirazione, spesso fino allo stupore. Sono i miei preferiti, ma sono altrettanto convinto che i nostri gusti combacino.


Rod Laver

Rodney “Rod” Laver, nacque a Rockampton nel Queensland, a detta di tanti, anche degli stessi aussie, la terra più incantevole della bellissima Australia. Rod, era il terzo figlio di un allevatore che non scommetteva un solo dollaro sul futuro di campione di questo ragazzino rimasto esile e piccolo (1,72 x 68kg), nonché col torace di un bimbo. Ma il piccolo Roddy, mancino e coi capelli rossi come il ferro reso fiammante dal fuoco, con la racchetta era un artista. Lo vedevano tutti, tranne il padre che sorrideva ad ogni elogio verso il terzogenito. Nel 1954, quando Rod aveva appena compiuto sedici anni, il grande Harry Hopman tenne a Brisbane uno stage, per visionare nuovi talenti per la già fiorente scuola tennistica australiana. Il piccolo Laver, fu portato là dal suo maestro, tal Charlie Hollis, che era così convinto delle facoltà del ragazzo, al punto di sobbarcarsi 800 chilometri in macchina. Giunti al campus, il maestro inseguì Harry fino agli spogliatoi e gli parlò subito del suo fenomeno. Hopman, sempre molto pragmatico, gli disse subito: “E’ meglio che lo veda”. Due minuti dopo, quando si vide di fronte quel piccolo, magrolino, dai capelli rossi col naso torto e le gambe da fantino, non fu capace di trattenersi: “Charlie, è quello lì? Accidenti, ma com’è piccolo!”
“Aspetta di vedere che cosa sa fare con la palla da tennis e non ti pentirai” – rispose il maestro.
“Sta bene, vediamolo subito. Vai a riscaldarti” – disse a Rod il perplesso Hopman.
Dopo cinque minuti, il grande coach arrivò sul campo, dove il giovane Laver stava aspettando con ansia.
“Okay Rocket, vediamo cosa sai fare” ….
L’appellativo “Rocket” (razzo), non abbandonerà più Rod Laver per tutta la sua luminosa carriera, ma, soprattutto, la sua prima esibizione, portò il sempre avaro di complimenti Hopman, ad un giudizio così chiaro che, postumo, diede spago a chi vedeva Rod come il favorito del mitico coach: “Hai ragione Charlie, il ragazzo è buono, è padrone di tutti i colpi, ha un sincronismo perfetto, ed è proprio svelto come un razzo negli spostamenti. Se è serio come mi dici, farà tanta strada”.
Quel giorno nacque la carriera leggendaria dell’unico capace di cogliere due Grandi Slam e tanto altro….


Laver in azione...


Di Ken Rosewall ho già scritto qui…ed aggiungo solo che è stato, proprio per bocca di Rod Laver (che ha spesso battuto), il giocatore più sottovalutato fra i grandi del tennis. Era la poesia di un rovescio in grado di colpire con costanza una monetina a venti metri di distanza. Un colpo così perfetto non l’ho più visto…..Ken era il mio preferito principe….


Ken Rosewall




Pancho Gonzales

Pancho Gonzales era la perfezione del gioco d’attacco, del genio e dell’estro, anche quando per il suo carattere rissoso ed impulsivo, si lasciava andare a botti di birra o ad una vita lontana da quella che, solitamente, si chiede ad un atleta. Fu capace di stare anni lontano dal campo e poi riprendere donando ancora arte. A quaranta anni, annichilì l’ambizioso Connors, ed alla medesima età, fu protagonista dell’incontro più lungo della storia del tennis…. Un immenso che, spontaneamente, col suo fare ben poco incline ai vezzeggiativi, disse alla sorella quanto quel suo figlio fosse insopportabile per come viveva il tennis fino alle narici…. Quel nipote era Andrè Agassi, grinta da vendere, ma un decimo del talento dello zio….


ATLETICA LEGGERA

Caro Ilic, da mezzofondista quale eri, fra i grandi che hai ammirato e che ammiri ancora oggi, ho scelto questo….perchè oltre ad essere stato un immenso per la facilità e la leggerezza del suo passo, ha il pregio di essersi dimostrato capostipite dei grandi della terra degli altipiani: Kipchoge Keino.



Si allenava rincorrendo gli struzzi e sapeva imprimere accelerazioni senza scomporsi. Specialista del mezzofondo breve, nella sua carriera lunghissima vi sono due ori e due argenti olimpici. A Mexico ’68 vinse i 1500 metri e giunse secondo, dopo un duello mozzafiato col tunisino Gammoudi, sui 5000. A Monaco ’72 vinse, dominando, i 3000 siepi e fu sconfitto, ancora con una volata appassionante, sui 1500, ad opera del finnico Pekka Vasala.
Oggi Kipchoge è impegnatissimo nel suo paese, quel Kenia che non ha mai abbandonato…. nonostante le tante sirene americane….


Keino oggi...

Morris

(Continua.....)

 

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Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




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  postato il 19/08/2005 alle 00:57
NUOTO

Sono sicuro, caro Ilic, che il nuotatore che segue è stato uno di quelli che t'ha affascinato, anzi, sono portato a credere che fosse il tuo preferito....


ROLAND "SUGHERO" MATTHES
E’ stato il più grande dorsista della storia. Lo chiamavano “sughero” per la straordinaria capacità di galleggiamento, una virtù che nel nuoto conta in maniera determinante. Roland Matthes, era un rampollo della Repubblica Democratica tedesca, ma era un anomalo fra gli atleti di quel paese che tanto segnò gli sport individuali per una trentina d’anni. Lui, il biondo ragazzone nato a Poessneck il 17 novembre del 1950, non amava i ritmi d’allenamento degli altri, le diritture imposte nello sport da un sistema che usava gli atleti come un vanto; gli piaceva vivere, per quello che si poteva, fra i regimi ferrei imposti dallo stato, lasciando al nuoto un’ora sola al giorno. Non avesse avuto le risultanze che lo eleggeranno leggenda di questo sport, chissà quale destino sarebbe stato suo. Insomma, sapeva sfruttare al massimo le sue qualità: tutto genio e sregolatezza, perlomeno per quello che si poteva nell’ambiente in cui era nato.
Arrivò a vincere tutto e subito, specializzandosi nel dorso, ovvero lo stile che più di ogni altro esaltava le sue qualità di galleggiamento. In patria non aveva rivali e nelle poche occasioni di meeting o incontri internazionali, al di fuori del territorio della DDR, la sua legge era quella di dimostrarsi tanto giovane, quanto più forte di tutti.

Il ventun settembre 1967, a Leipzig, quando ancora non aveva compiuto di diciassette anni, stabilì il primato mondiale dei 100 dorso, togliendolo al dominio americano che perdurava da tanto tempo. Si ripeté poche settimane dopo, sempre a Leipzig, stabilendo stavolta il record mondiale sulla distanza doppia.
A diciassette anni era dunque titolare delle migliori prestazioni assolute sul dorso e si presentò alle Olimpiadi di Città del Messico da favorito.
Gigione e svogliato per molti, eppure il suo nuotare era divino. Guardarlo rappresentava un toccasana per gli occhi. Ed i Giochi messicani lo consacrarono compiutamente, grazie alla doppietta vittoriosa, arricchita dal primato mondiale sui 100.

Il crescendo continuò con passo alternato di successi, primati e Titoli Europei fino alle Olimpiadi di Monaco, dove raccolse di nuovo l’oro su entrambe le distanze del dorso e stabilì in entrambe il record mondiale. A questi successi, aggiunse il bronzo nella staffetta 4x100 stile libero, dove a dimostrazione della sua grandiosità, si rese capace di recuperare ben due posizioni in uno stile che, di solito, lo vedeva nuotare per divertimento, o solo per superare la noia. L’argento, invece, gli giunse dalla staffetta 4x100 mista, dove, in prima frazione, nuotò a ritmi di record mondiale, lasciando ai compagni la gestione di un grandissimo vantaggio.
Arrivarono i primi mondiali della storia, nel 1973 a Belgrado, ed ancora doppietta con primato mondiale sui 200. Quindi gli Europei, l’anno successivo e immancabili doppiette. Nel 1975 si riconfermò campione mondiale nei 100, specialità nella quale poteva gestire il meglio delle sue qualità, ma arrivò, dopo otto anni immacolati, pure la prima sconfitta sui 200, ad opera dell’ungherese Zoltan Verraszto. Abdicò compiutamente con gli onori delle armi, alle Olimpiadi di Montreal, dove colse “solo” il bronzo sui 100 dorso, ed un quinto posto sulla medesima distanza, nello stile farfalla, ma era ormai vecchio e sempre più svogliato, tanto da ……lasciarsi andare al ….ruolo di allenatore dell’astro femminile mondiale, quella Kornelia Ender che diventò poco dopo sua moglie.
La loro storia d’amore si concretizzò con la nascita della figlioletta Franziska, oggi venticinquenne, ma le sue scappatelle e la sua vita libertaria un po’ zingaresca, non cementò l’unione con la più razionale Kornelia e, nel 1981, i due divorziarono. Divenuto fisioterapista di grandi qualità, Roland, riuscì a fuggire nella Repubblica Federale Tedesca, ancor prima della caduta del muro.

Matthes oggi
Qui, nel nuovo ruolo di fisioterapista, s’è rifatto una vita di successo e s’è risposato.
Oggi vive a Francoforte. Nel dicembre del 2003, è stato insignito del premio "Goerg von Opel", quale campione indimenticato.

La sua carriera, nella sintesi dorata, ci porta 4 Titoli Olimpici, 3 mondiali, 5 Europei, nonché 16 Record Mondiali.

Davvero supremo!


Morris

Continua....

 

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  postato il 19/08/2005 alle 05:27
Immagino che dopo ciclismo, tennis e nuoto, manchi proprio l'arte dei boxer...

...torno oggi dalla vacanza, proprio in tempo per scriverti i miei più cari e sinceri auguri, Grande Ilic!!

 

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Livello Fausto Coppi




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  postato il 19/08/2005 alle 11:33
Un augurio di Buon Compleanno...
...per mezzo secolo ricco di saggezza...

Andrea/Giuseppe/Marco

 

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Giuseppe Matranga

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Livello Fausto Coppi




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  postato il 19/08/2005 alle 11:35
tanti auguri ilic anche da parte mia, con la speranza di ritrovarci presto tutti assieme!
ciao
eugenio

 
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Livello Fausto Coppi
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  postato il 19/08/2005 alle 16:08
......Sperando che la linea Alice Telecom (dispregiativo), mi dia tregua...


MOTOCICLISMO

Nell’attualità del più grande campione di motociclismo dell’ultimo quarto di secolo e, probabilmente, del fuoriclasse più grande dello sport odierno, tal Valentino Rossi di Tavullia, uno sguardo ad un passato che non può non aver emozionato un osservatore attento come Ilic….

Il fenomeno veniva dalla terra di Albione, era un lord, nel senso che era nato da un famiglia agiatissima e questo fatto pesò non poco, sulle considerazioni e gli atteggiamenti dell’osservatorio agli inizi della sua carriera. Eppure questo ragazzo aveva qualcosa di alato, oltre al coraggio e l’abilità necessarie per affrontare uno sport come questo: lui sapeva parlare alla moto, capiva il suo linguaggio, quasi fosse un prolungamento del suo corpo e della sua mente. Quel giovane, nato ad Oxford il 2 aprile 1940, si chiamava Stanley Michael Bailey HaiIwood, poi divenuto semplicemente Mike, il “rombo della moto”.……



Nei tanti flash della luminosa ed infinita carriera di Mike Hailwood, che riassumo qui a tratti vergognosamente intrisi di “taglio”, c’è un aspetto, una effige che rimarrà incancellabile alle memorie dei palati fini dello sport motoristico: Mike vinse 12 volte, ovviamente record, la gara più pericolosa ed affascinante, la corsa delle vittime che non si riesce più a contare, la prova dell’incenso fra i coraggio intinto d’incoscienza e l’abilità nell’affrontare gli imprevisti e le difficoltà del circuito più pericoloso per eccellenza: il Tourist Trophy, sul percorso dell’isola di Man…..



Il suo palmares, non è degno del suo talento, anche se pieno di numeri significativi e grandiosi, ma a Mike bastava dare un mezzo, anche non tarato per la gara, e lui te lo faceva schizzare a tempi da primato, come se fosse la moto più perfetta…. Guardarlo stimolava qualcosa che non si convinceva al parametro tanto del razionale quanto del sogno tridimensionale, lui era il motore che, giunto al traguardo, si smaterializzava in una persona educata, gentile e ben consapevole di ciò che lo circondava. Gentilezza e cordialità che non cancellavano conoscenza o immolavano ipocrisia: aveva tempra, poteva dirti garbatamente in faccia quello che non avresti mai voluto sentire, aggiungendovi la forza per prendere immediatamente le decisioni di un istintivo. Grandioso!



PALMARES

1961 1. mondiale 250
1962 1. mondiale 500
1963 1. mondiale 500
1964 1. mondiale 500
1965 1. mondiale 500
1966 1. mondiale 250
1. mondiale 350
1967 1. mondiale 250
1. mondiale 350
Gran Premi disputati 148 (*)
Gran Premi vinti 37 (*)
Podi conquistati 112 (*)
Vittorie in una stagione 19 (1966) (*)

(*) nelle classi 125, 250, 350, 500

Quattro dei suoi titoli mondiali sono stati vinti con la MV del conte Agusta. ma la versatilità e grandiosità di Hailwood ci viene dalla constatazione che ha corso e vinto in tutte le classi e con tutte le marche: oltre ad Mv, anche Honda, Paton, Mz, Nsu, Ajs, Itom, Norton, Ducati, Emc, Triumph e Mondial



Più che l’avvento di Giacomo Agostini che, per altro, ha spesso battuto con mezzi pure di fortuna o non adeguati, furono i tempi e gli stimoli a farlo passare all’automobilismo, uno sport, in quell’epoca, più prodigo di spettacolarità ed esaltazione del talento, rispetto alla noia vergognosa di oggi. Nel ’72, divenne campione europeo di Formula Due e si distinse in seguito anche in Formula Uno, ma al Nùrburgring nel ‘74, la sua McLaren uscì di pista e da quell’incidente rimediò gravi fratture alle gambe che lo indurranno ad abbandonare l’attività, dopo essersi trasferito nella terra dell’erba e dei paesaggi da sogno: la Nuova Zelanda.
Nel ’78, un improvviso e significativo atto di nostalgia lo coinvolse e Mike Hailwood ritornò alle moto ….rivincendo proprio la gara “the best”: il Tourist Trophy. Si ripetè anche l’anno successivo. Un vero “The Bike”, altro appellativo che gli fu siamese.



Nella luminosa storia della vita di Mike Haillwood, c’è un esempio di coraggio ed umanità, non comune fra gli sportivi, per quale, nel 1973, il suo paese lo insignì della George Medal, il più alto riconoscimento britannico al valor civile. In quell’anno, sul circuito di Kyalami in Sud Africa, durante il Gp di F.1, Clay Regazzoni subì un pauroso incidente e svenne, proprio mentre la sua Brm si incendiava. Era intrappolato nell’abitacolo. Hailwood che sopraggiungeva sul luogo dell’impatto, si fermò e si gettò tra le fiamme, slacciò la cintura di sicurezza dello svizzero, ma pure la sua tuta iniziò a prender fuoco. Mike non si scoraggiò, ed in quegli attimi così particolari, spense le fiamme che lo stavano cospargendo e si rigettò verso Clay, fino a salvarlo da una morte sicura. Se oggi Ragazzoni è ancora vivo, lo deve principalmente ad Haillwood.



Quella morte sul percorso di gara, che non erano mai riuscite a creargli le moto, le auto e le fiamme, proprio a poco dal compimento dei 41 anni, nel 1981, gli venne dall’incauta manovra di un camion e la pur forte fibra di Mike Hailwood si spense, al pari della sua bambina che con lui viaggiava. Anche il figlio era con Mike, ma, fortunatamente si salvò.

Morris

Continua....

 

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Livello Fausto Coppi
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  postato il 19/08/2005 alle 16:21
Calcio

Perchè quei colori che tanto ci coinvolsero quando eravamo bambini e che ancor oggi amiamo, nonostante la melma che coinvolge questo sport, tornino a ruggire prendendo spunto da questa bella giornata.....







....perchè è l'INTER il primo amore, ed il primo non si scorda mai...
....perchè è Lei la Beneamata e noi, interisti rimarremo sempre...


UN GRANDIOSO ABBRACCIO ILIC, ROMANTICO E PROFONDO CINQUANTENNE!!!

Morris

 

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Livello Marco Pantani
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  postato il 20/08/2005 alle 13:35
Auguri a Janjanssen per un compleanno così importante.
Splendido il regalo di Morris, la storia di un uomo attrraverso le sue passioni sportive, un percorso inusuale ma molto interessante.
Qualsiasi nick , le cose che dice ispira curiosità, chi ci sarà dietro? Corrisponderà l'immagine virtuale alla persona reale? Mi piace moltissimo questo tentativo di ricostruzione di un'esistenza attraverso segnali labili come le sue tracce sul web.
Auguri Jan, bella persona che merita questo regalo di Morris così pensato e così non banale e di circostanza.
il dono è una cosa delicata, bisogna essere grandi nel donare e nel ricevere, altrimenti è banale, consuetudinario scambio.
Hasta siempre jan
Maria Rita

 
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Livello Claudio Chiappucci




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  postato il 20/08/2005 alle 13:53
Auguri Jan Janssen...

 

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"A volte chiudiamo gli occhi perchè la realtà non ci piace...
...se però smettiamo di comunicare non riusciamo più ad assaporare la vita e a scrivere la nostra storia.
Il mio linguaggio è la bici...
e voglio continuare a scrivere quel capitolo del mio libro che da troppo tempo ho lasciato in sospeso..."

Marco Pantani



Il NOCE darà i suoi frutti.




 
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Livello Fausto Coppi




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  postato il 20/08/2005 alle 15:24
Buon compleanno anche da parte mia mitico Ilic! Scusa il ritardo ma in sti giorni non mi andava il login...auguri!

 

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"Se hai la fortuna clamorosa di diventare un cronista di ciclismo, non puoi fare a meno di essere coinvolto, trascinato in una passione infinita, irrinunciabile, che ti segna per sempre" - Pietro Cabras

"C'è una salita? Vai su, arriva in cima, e vedrai che sarai sempre vincitore" - Giordano Cottur

 
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Livello Fausto Coppi




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  postato il 21/08/2005 alle 16:07
Grazie Morris...uno splendido regalo.
Tutto stampato. Nella biblioteca personale.
E grazie a tutto il forum, luogo di amore per lo sport e di amicizia.
Sono stato qualche giorno in ferie. Mezzo secolo arriva una volta sola...(mio fratello per farmi dispetto dice che anche gli altri giorni vengono una volta sola....ha ragione...ma dai, 50 è un bel numero tondo..).
Mi scuso quindi per non avere risposto subito. Mi capirete.
GRAZIE a TUTTI!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

 

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pedala che fa bene.....

 
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  postato il 22/08/2005 alle 02:00
Auguri in ritardo ma pur sempre sentiti.
 
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Livello Classica San Sebastian




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  postato il 22/08/2005 alle 16:18
auguri di cuore.
penso che regalo più bello, di un post come quello di morris, sia difficile trovarlo.

 
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Livello Alfredo Binda




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  postato il 22/08/2005 alle 18:12
Auguri di cuore Jan...ora ci vorrà qualche mezz'ora per leggere attentamente tutto quello che ti ha dedicato Morris!

 

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"Un uomo solo è al comando; la sua maglia è bianco-celeste; il suo nome è Fausto Coppi", Mario Ferretti, Radiocronista Rai

 
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Livello Milano-Sanremo




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  postato il 29/08/2005 alle 18:54
Con ritardo, essendo rientrato oggi dalle vacanze, faccio i miei migliori auguri a Doctor Jan.
 
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Livello Fausto Coppi
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  postato il 18/08/2006 alle 09:42

CARO ILIC, BENVENUTO NEL CLUB DEI 51!!!

Lo scorso anno, in occasione della tua tappa di mezzo secolo, aprii questo post. Oggi, ad un anno di distanza, dopo le non certo stupende pagine tracciate, nell’attuale, da quella passione che ci contraddistingue, comunemente chiamata sport, ancora una volta il miglior modo di festeggiare la tua grandezza unica, è un polivalente tuffo sul passato. Là, dove il gesto atletico, non s’era ancora contaminato con le fauci della decadenza umana, dove la soffocazione del dio danaro lasciava spazi al talento, al gusto puro di raggiungere il proprio graffio migliore, dove la chimica era quasi “euchessina”, priva di “zambottini” o “Mabuse” e dove, chi raccontava, era avvolto nel dovere di fare cultura. In tempi in cui il gossip, ennesimo becero inglesismo echeggiante le nostre odierne miopie, era sconosciuto e dove c’era spazio per il sogno di vedere i nostri figli, vivere un mondo diverso e più a misura delle immanenze lasciate dalla natura al nostro genere. Segmenti, dove il singolo poteva ergersi ad esempio, pur avendo dalla sua, solo la forza delle idee e dove spesso, a fare la differenza nelle attenzioni, eran davvero le qualità. Tempi, il cui ricordo è fondamentale per aggredire al meglio il presente ed il futuro, cercando di riportarne al quotidiano, i raggi più possibili. Ma in noi non muore speranza, vive e si tramuta in domande che trasudano ad ogni passo, fino a coprirci il sentiero-pensiero, nella vita come nelle passioni…
Ogni forma che incontriamo, è come la Palenque dell’uomo che stimerò fino all’ultimo dei miei giorni e che, sono sicuro, anche a te non sarà mai indifferente: Ernesto Che Guevara.
Prima di giungere ai nostri solchi sportivi e, per donare un versante sconosciuto a quei giovani che leggono, la riporto:

Palenque

Qualcosa ancora vive nella tua pietra,
sorella delle verdi mattinate,
il tuo silenzio di mani
scandalizza le tombe regali.

Ti ferisce il cuore il piccone indifferente
di un dotto dagli occhi annoiati
e ti colpisce il viso la sfrontata offesa
dello stupido "oh!" di un gringo turista.
Ma hai qualcosa di vivo.

Io non so che cos'è,
la selva ti porge un abbraccio di tronchi
e anche la misericordia attinge alle sue radici.

Uno zoologo enorme mostra lo spillo
dove attaccherà i tuoi templi per il trono
e tu non muori ancora.

Quale forza ti conserva
oltre i secoli
viva e palpitante come in gioventù?

Qual dio soffia sul morire del giorno
l'alito vitale nelle tue stele?
Sarà il sole giocondo dei tropici?
E perché non lo fa a Chinchén-Itzà?

Sarà l'abbraccio festoso della foresta
o il canto melodioso degli uccelli?
E perché dorme più profondamente a Quiriguà?

Sarà il tinnio della sorgente sonora
che batte nei dirupi della sierra?
Eppure gli Inca sono morti.

(Ernesto Che Guevara)


....continua...

 

[Modificato il 18/08/2006 alle 09:45 by Morris]

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Livello Fausto Coppi
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  postato il 18/08/2006 alle 09:52
Inizia da qui, un infinitesimale spaccato delle polivalenti passioni sportive di Ilic Janjanssen. Lo scorso anno, riportai qualche suo idolo, quest’anno, non certo per provocarlo, l’atteggiamento sarà un po’ diverso: lo sport va vissuto, concepito ed ammirato anche quando ad emergere, sono personaggi che non stanno in cima a quel trasporto emotivo che comunemente chiamiamo tifo. Si giunge così ad un’altra forma di arricchimento che nasce dalla cultura della sconfitta, un altro degli insegnamenti che, tutti giorni, il forumista Janjanssen, dona a chi ha la fortuna di interloquire con lui. Ilic, nel ciclismo dei primi anni sessanta, tifava per Poulidor, che perdeva, potremmo dire sistematicamente, da Anquetil, ma del normanno, il neo cinquantunenne dottore, ammirava e concepiva le qualità, la grandezza, la personalità. Era il pedale di interpreti grandissimi, ed era uno sport che giocava gli ultimi fuochi di leadership sul calcio.
Noi giocavamo a quarcì (tappetti), non amavamo Anquetil, ma il normanno lo giudicavamo ugualmente un sire…..

Proprio da “Monsieur Chrono”, voglio iniziare questo excursus dedicato all’amico Ilic…..

Dal mio ultimo libro “Protagonisti del ciclismo a Forlì”….



JACQUES ANQUETIL
Nato a Mont Saint-Aignan (Francia) l’8 gennaio 1934, deceduto il 18 novembre 1987. Passista. Professionista dal 1954 al 1969 con 203 vittorie.



Definire Anquetil con un aggettivo non è facile, perché i superlativi in chiave positiva si sprecherebbero. Dovessi porlo in una graduatoria personale fra i più grandi ciclisti della storia, gli riconoscerei il terzo posto, dopo il duo Merckx-Coppi, ma davanti al connazionale Hinault. E se poi fossi chiamato a collocarlo sul piano umano per il suo essere anticonvenzionale e per nulla ipocrita, bèh direi che le consistenze del personaggio sono tali da definirlo, con un eufemismo: semplicemente interessante. Ed a me, chi dice di fronte a microfoni e taccuini quel che pensa, anche se fa male alla pubblica sete di ipocrisie, è solo da applaudire a prescindere. Poi magari si potrà dissentire, ma se la storia avesse avuto più gente simile, il suo corso sarebbe stato migliore e più facile da concepire come un patrimonio di esperienze ed insegnamenti. Lo dico da laico e da libero pensatore, affinché dal mio umile osservatorio, si levi una piccola voce contro i dogmi e lo schiacciamento intellettivo che la lettura più miope ed unidirezionale della sovradimensionale religione dell’uomo, consistente nel danaro, ha generato e, purtroppo, fra sangue e criminalità, continuerà a generare. Jacques Anquetil, partendo dallo sport, è stato un genuino tracciatore di se stesso, senza scuse e peli sulla lingua, ha difeso le sue convinzioni e lo ha fatto senza stare a calcolare il gioco dei consensi. Da atleta non s’è risparmiato la vita, perlomeno ciò che della vita voleva e guardando la sua ellisse, anche il suo modo di vincere s’è mosso nello sfruttare le sue capacità senza umiliare, perché era nei suoi epigoni. In altre parole, ha sfruttato il cronometro perché era nato per quel gesto tecnico, ma non mi toglie dalla testa nessuno, ed a confermarmelo sono stato taluni suoi avversari, che se avesse voluto, in serbo aveva la forza per umiliare o rendere più tangibili i suoi successi. Jacques, non si privava di nulla e quando contestò l’antidoping, indipendentemente dalla giustezza o meno delle sue convinzioni, lo fece con una chiarezza esemplare, senza mai cedere alla tentazione, universale nello sport e nella vita, del motto “fatta la legge, trovato l’inganno”. Contestabile finché si vuole, per carità, ma un grande, con tanto di spina dorsale.

La storia di Anquetil, meriterebbe un romanzo, ed essendo egli figlio di Normandia, terra natale e di vita di un grandioso narratore come Guy de Maupassant, spero che qualcuno, prima o poi, provi a tradurre su carta un simile copione.
Jacques, era figlio di un coltivatore di fragole di Mont Saint-Aignan vicino a Rouen. Si appassionò alla bici pedalando dalla fattoria di famiglia, fino a Sotteville, il mercato agricolo dove di solito il padre proponeva i suoi prodotti. Iniziò a correre a diciassette anni, nel 1951, facendo subito vedere doti non comuni, tant’è che l’anno seguente, era già campione nazionale. Partecipò giovinetto alle Olimpiadi di Helsinki, vincendo il bronzo nella cronosquadre. Determinato e convinto sul fare delle corse in bicicletta un mestiere, decise di passare subito al professionismo, a soli 19 anni, attraverso l’obbligata categoria degli indipendenti. Charles Pelissier e Gaston Benac, vedendo il suo fenomenale stile in bicicletta e la consistenza del suo passo, lo spinsero a partecipare al Gran Premio delle Nazioni, ovvero la principale corsa contro il tempo del calendario internazionale. Ed il giovane Jacques, sui massacranti 140 chilometri della prova sbaragliò il campo, vincendo con più di sei minuti di distacco sul secondo: nacque così la sua leggenda. Il mondo del pedale si interessò da subito a questo giovane, capace di spingere i pedali con una compostezza unica, al punto di far dire a più d’uno, che uno come lui avrebbe potuto tenere in perfetto equilibrio, sulla schiena, una coppa di champagne! Il GP delle Nazioni, la gara a cronometro per eccellenza, colei che lo fece scoprire, finì poi per ben nove volte nel taschino personale di “Monsieur Chrono”. Nel 1954, a venti anni, Jacques, gridò al mondo che non era solo uno specialista della gara contro le lancette, finendo fra i grandi protagonisti del mondiale di Solingen, dove chiuse al quinto posto, davanti ad un certo Fausto Coppi. Attento a vivere come gli piaceva e a non anticipare troppo i tempi di crescita, debuttò al Tour de France nel 1957, non prima di aver posto come condizione il non inserimento di Luison Bobet, nella squadra nazionale francese, ovvero il connazionale maggiormente rappresentativo nelle corse a tappe. I dirigenti transalpini diedero fiducia al giovane tutto d’un pezzo e Jacques li ripago vincendo il Tour con un quarto d’ora sul secondo. Dopo un 1958, amaro di soddisfazioni, soprattutto chiamate Charly Gaul, uno scalatore così bravo da infliggergli una delle rare sconfitte nella tappa a cronometro di Chateaulin, nel 1959, provò a vincere il Giro d’Italia, ma ancora una volta il lussemburghese lo anticipò. Al Tour di quell’anno, un altro scalatore, stavolta spagnolo, Federico Bahamontes, si frappose fra lui e il bis nella Grande Boucle.

Nel 1960, al Giro d’Italia, si prese la rivincita su Gaul, vincendo così la sua seconda grande corsa a tappe, ma non partecipò al Tour. Ancora una sconfitta, stavolta ad opera del bertinorese Arnaldo Pambianco, gli precluse un altro successo al Giro nel 1961, ma al Tour, che in suo omaggio partì da Rouen, sfruttando gli oltre cento chilometri contro il tempo, ottenne una facile vittoria. Nelle tre stagioni successive, la Grande Boucle presentò l’Anquetil storico, ovvero colui che dominava tutte le tappe contro il tempo e rintuzzava gli attacchi degli avversari in salita, Raymond Poulidor e Federico Bahamontes in particolare. Ma quei tre Tour vinti consecutivamente, furono diversi come difficoltà. Se nell'edizione del 1962 Jacques demolì i suoi concorrenti e nel ’63 controllò abbastanza bene la situazione, diverso fu il successo del ’64. Gli assalti continui di Poulidor, erano diventati ficcanti e Jacques si trovò fiaccato dai postumi di una festa con relativa notte brava, nel giorno di riposo in quel di Andorra, anche se a smentire il tutto scese in campo la moglie Janine…. Nella tappa Andorra-Toulouse, per farlo rinvenire dalla crisi, il suo diesse Raphael Geminiani, secondo leggenda, gli passò una borraccia di champagne…Vera o non vera quella circostanza, Jacques Anquetil stava perdendo quel Tour, che riguadagnò con una discesa del Port d'Envalira, davvero portentosa. A Parigi solo 55” divisero Jacquot da Poupou. Fu però un successo importante, perché “Monsieur Chrono” aveva vinto nell’anno anche il suo secondo Giro d’Italia, finendo per aggiungersi a Coppi nella doppietta Giro-Tour nello stesso anno. In precedenza, nel 1963, aveva vinto anche la Vuelta di Spagna e nel corso di quel 1964, era riuscito a mettere in cascina una classica del nord, come la Gand Wevelgem. A dimostrazione di qualità sensazionali, nel 1965 (dove non partecipò né al Giro e né al Tour), vinse il Giro del Delfinato, una corsa da sempre durissima e, nemmeno 24 ore dopo, viaggiando in parte in macchina, si presentò, dall’altra parte della Francia, al via della Bordeaux-Parigi, la classica più massacrante, vincendola. Nel 1966 dopo aver stravinto la Liegi BastogneLiegi, grazie ad una lunga fuga solitaria, dove lasciò tutti i migliori a cinque minuti ed oltre, si presentò al Giro, ma si inchinò alla forza di Motta e alla regolarità di Zilioli. Al Tour, prima di ritirarsi nel corso della 19a tappa, non essendo in buone condizioni, pilotò il giovane compagno Aimar, verso il successo. Tornò al Giro d’Italia nel 1967 e l’avrebbe probabilmente rivinto se i tanti e forti italiani non avessero corso come una Nazionale a vantaggio di Gimondi, ma Anquetil, nonostante la sua vita che non si privava di nulla, c’era ancora.

Continuò a vincere qualcosa d’importante, fino a quando, nel 1969, di fronte all’arrivo di Eddy Merckx, l’unico corridore che ha sempre considerato di un altro pianeta, decise di smettere. Una volta sceso di bicicletta, si ritirò in campagna, dove divenne un grande coltivatore. Lavorò poi per l’Equipe e come commentatore, Fu anche CT della Francia. Nel 1987, gli fu scoperto un tumore e nonostante un intervento chirurgico, non riuscì ad evitare la morte.
Fra i tanti aspetti tralasciati nella carriera di Jacques per doveri di spazio, sono da segnalare i suoi tentativi sull’Ora. Fu lui a strappare il record a Coppi. Nel 1967, quando il primato era passato a Riviere, al Velodromo Vigorelli, lo riconquistò, ma il primato non fu omologato, perché si rifiutò di sottoporsi al controllo antidoping, di cui ha sempre vivacemente contestato nascita e procedure.

Le sue prestazioni al G.P. Tendicollo Universal e G.P. Terme di Castrocaro.
Jacques Anquetil, certo anche per l’ammirazione e il rispetto che ha sempre provato per Ercole Baldini, fece di Forlì una città riferimento. Non esagero se affermo che non vi fu città italiana, che l’abbia visto, Giro d’Italia a parte, più presente per una competizione. Aldilà delle bellissime sfide col “Treno di Forlì”, “Monsieur Chrono” ha segnato indelebilmente la manifestazione della Forti e Liberi, attraverso quello che non s’è visto, proprio per il suo modo di affrontare la corsa e di proporsi come campione raro. Di tutto questo, a mo’ di nota direttamente nel testo, rimando i lettori al libro “La storia di Ercole Baldini, il treno di Forlì” Edizioni Ciclofer, scritto da Rino Negri e dal sottoscritto, che è possibile reperire presso la locale Croce Rossa. Qui attraverso il racconto dello stesso Ercole è possibile conoscere tanto di Anquetil, del rapporto fra i due campioni e di come il grande normanno viveva e si preparava al Tendicollo. Da non perdere.
Jacques partecipò ad otto edizioni della corsa che ha contraddistinto ciclisticamente Forlì nel mondo. Ne vinse tre nel 1960, nel 1961 e nel 1965. Dei suoi epici duelli con Baldini su quegli asfalti e quelle medie su percorsi lunghi novanta chilometri, si potrebbe scrivere un libro di carattere tecnico, perlomeno quanto basta per far capire ai più giovani che i due non erano inferiori ai super menzionati passistoni di oggi o del recente passato. Ma il successo che a mio giudizio diede più significativi riscontri sulla forza di “Monsieur Chrono” , fu quello del 1965. Nel libro citato, Ercole racconta di come Anquetil arrivò e di come scoprì che il percorso era cambiato con l’inserimento di una salita. Aveva una bicicletta coi rapportoni, non li cambiò e manco si preoccupò dell’indicazione di Baldini circa la forza di un giovane italiano rampante di nome Felice e di cognome Gimondi. “Questa corsa – disse Jacques ad Ercole – adesso che tu non corri più, non può crearmi nessun problema. La bicicletta va benissimo così, anche se c’è salita”. Ed infatti, pur con rapporti da volatone, ed una preparazione consistente in una veloce sgambata mattutina dietro la Gilera di Bruno, fratello maggiore di Ercole, lasciò Gimondi a 2’38”. Quello era davvero “Monsieur Chrono” tanto bello da vedere in bici, quanto redditizio come nessuno nell’uscire dalle curve. Fra i tanti ricordi che mi han lasciato le osservazioni su Jacques qui da noi, non potrò mai dimenticare la sua ultima partecipazione, nel 1968, quando era già 34enne. Non era più quello di un tempo, ma incuteva rispetto in tutti. Lo raggiunse Merckx, che era partito due minuti dopo di lui. Il grande belga che aveva appena vinto il suo primo Giro d’Italia, non lo lasciò sul posto, anzi, accompagnò per circa una tornata il vecchio campione, quasi volesse osservarlo o chiedergli scusa. Solo quando gli dissero che Jacques andava piano e che, stando con lui, lo svantaggio su Gimondi aveva raggiunto i due minuti, ritornò a pedalare da solo, ma pur recuperando una cinquantina di secondi, non evitò la sconfitta. Sapevo che quella sarebbe stata l’ultima occasione di vedere Jacques su una bicicletta da corsa ed in corsa: lo guardai trasformando gli occhi in telecamere ed anche in quella occasione rimasi stupefatto dalla sua sudorazione. Oggi, ripassando quei fotogrammi, mi giungono due lacrimoni. Com’era bello il ciclismo di quei tempi!

Morris

....continua...

 

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Livello Fausto Coppi




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  postato il 18/08/2006 alle 09:54
Ciao Jan e tanti auguri...

 

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Il procuratore aggiunto di Catania Renato Papa: Nel 2003 è stato abrogato un comma della legge che permetteva l'arresto dei diffidati recidivi, e di chi non si presentava alla firma. E questo è stato un grave gesto di debolezza.
Uno nessuno centomila! Un libro di Pirandello? No! I castelli di Kessler secondo Bulba...
All'ombra del cavaliere oscuro (la biografia di G. Fini)
La regola del fallo di mani nel calcio? Superata, oramai si gioca con 11 portieri come la lotteria istantanea - ponzi ponzi po po po
Baci riddler/Massimo

 
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Livello Fausto Coppi
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  postato il 18/08/2006 alle 10:05
E’ stata una delle massime passioni ciclistiche di Ilic, un corridore di potenziale evidente, ma nessuno sa fino a che punto tradotto; un introverso ed a tratti ombroso, prima di tutto con se stesso, ma comunque bella figura: Gibì Baronchelli.
In questo forum s’è spesso parlato di lui, ma in questa particolare occasione voglio riportare, per sottopormi all’occhio critico di Janjanssen, quanto ho scritto su “Protagonisti del ciclismo a Forlì”…..



GIAN BATTISTA BARONCHELLI
Nato a Ceresara (Mantova) il 6 settembre 1953. Passista scalatore. Professionista dal 1974 al 1989 ha ottenuto una novantina di vittorie.



Gian Battista “Gibì” o “Tista” Baronchelli è passato, o si cerca di farlo passare, alla storia, come un incompiuto, quando in realtà, semmai, può essere considerato un corridore dal quale ci si aspettava di più. Ogni giudizio, aldilà degli errori e della sfortuna di questo comunque stupendo atleta, non può non partire dall’analisi dei tempi in cui Gibì ha corso, e dalle non poche storture e contraddizioni del ciclismo italiano di quel periodo. Le ragioni oggettive che hanno pesato in quel contesto storico si muovevano, dapprima, nell’esigenza ossessiva tipicamente italiana di trovare un indigeno in grado di mettere alle corde Eddy Merckx, poi, nello stravalutare le corse della penisola a danno di quel Tour per anni dribblato malamente dai nostri migliori ciclisti, indi, nell’esagerazione di vedere il dualismo Moser Saronni come un chiasma che, di fatto, bruciava tutto il resto, ed infine nel non considerare nel giusto merito chi giungeva secondo dietro Bernard Hinault. Se analizziamo passo su passo questi aspetti, Baronchelli, esce più cospicuo e il suo comunque ottimo palmares, assume ben altri significati.
Gibì, aveva vinto nel 1973, a vent’anni, il Giro d’Italia per dilettanti e il Tour de L’Avenir, nonostante in questa corsa avesse dovuto superare una caduta che gli aveva reso un ginocchio gonfio come un melone. Quanto basta per essere atteso al professionismo con molto interesse. Nel 1974 però, il suo comportamento eccezionale nel Giro d’Italia d’esordio fra i prof, fu tale da stravolgere la ragionevolezza dell’osservatorio italiano. Si dimenticava che i 12” secondi che alla fine separarono Baronchelli da Merckx, potevano creare eccessivo peso nella tempra di Gibì e sottovalutavano il peso della forma del belga che non superava l’80%. Già, perché se un Eddy in quelle condizioni è sempre bastato per superare Gimondi in una grande corsa a tappe, sempre l’80% rimaneva. E che Baronchelli avesse potuto superare l’uomo di Sedrina, ci stava, semplicemente perché andare più forte di Gimondi in salita, non era impresa da marziani. Invece di covare e tutelare il ragazzino, certo pieno di qualità, gli si buttò addosso l’attesa di una nazione. Arrivò poi il ’75 e l’esordio vincente di Gibì a Laugueglia, confermato da un successo di tappa al Giro di Sardegna, diede ulteriore fiato alle trombe in vista del Giro d’Italia. Qui però, Baronchelli, contrasse una malattia virale che ne limitò il rendimento in corsa e che forse non fu mai completamente superata. La sottovalutazione del fatto da parte di un osservatorio che vedeva quel Giro disegnato per lui, pose Gibì (che finì la corsa rosa al decimo posto), già sull’alone di una certa delusione. Nel frattempo, il comportamento di Francesco Moser al Tour di quell’anno, dove fu maglia gialla nelle frazioni di pianura per poi essere seppellito di minuti in salita, portò l’osservatorio a incentrare sul trentino attese esagerate su corse, come quelle a tappe, dove, checché se ne dicesse, difficilmente poteva essere un evidente. E fu così che il Giro d’Italia, cominciò a proporre percorsi che per troppi anni incrinarono la tradizione di manifestazione legittimamente equilibrata.

L’edizione della corsa rosa del ’76, una delle più scarse della storia, quasi tutta vissuta sul rallentatore, con anziani in evidente declino e giovani poco adatti all’attacco o di scarsa personalità, provocò un verdetto che il nostro Gibì pagò a lungo. Vinse il vecchio Gimondi, Moser arrivò 4° e Baronchelli solo quinto. Poco importava se non stava bene: era ormai un normale per quell’osservatorio che stava ingigantendo Moser su corse le cui qualità erano contrarie a quelle che dimostrava nelle classiche e che esaltava a dismisura un vecchio come Gimondi, che aveva vinto senza brillare come del resto tutti gli altri. Gibì poi, fece un errore grave: andò al Tour senza condizione e concentrazione uscendone distrutto e ritirato, fino al punto di considerare, in cuor suo, la Grande Boucle come una manifestazione da evitare. E ciò fu disastroso per la sua carriera limitatamente alle corse a tappe. Nel ’77, in un Giro che si distingueva per il suo “piattume” e per il tanto crono, Gibì si difese bene, vinse il tappone di Pinzolo, ma non poté evitare di finire terzo, dietro a Pollentier e, ancora, Moser: un fatto capitale nella già poca lucidità dell’osservatorio. Dietro l’angolo, c’era proprio nella sua medesima squadra, il piccolo fenomeno Saronni e poco importava se, in quel ’77, Baronchelli aveva vinto, fra le diverse corse, il Giro dell’Appennino (una gara vinta sempre da campioni), il Giro di Romandia e, soprattutto, alla grande, il Giro di Lombardia, grazie ad un arrivo solitario e dopo aver seppellito di minuti il miglior cast del ciclismo mondiale. Col ’78 si alzarono i sipari del dualismo Moser-Saronni e Gibì, pur vincendo 11 corse, tra le quali una sfilza di classiche nazionali come il Giro dell’Appennino (la sua corsa), il Giro del Piemonte, la Coppa Placci, il Giro dell’Umbria, facendo cilecca al Giro d’Italia, si giocò le residue speranze, in chiave nazionale, per la giusta considerazione dei suoi mezzi. Certo, a Milano giunse secondo a 59” dalla maglia rosa De Muynck e vinse la difficile tappa di Canazei, ma quel Giro, pur considerando che qualcuno doveva riparare verso il belga la scorrettezza di un attacco dopo una caduta che gli costò la corsa rosa di due anni prima (frazione di Bergamo), doveva essere suo. Altro errore, che ripeteva il già fatto nel ’77 e che poi rappresentò una costante, fu quello di non andare al Tour. Col ’79, stagione per Gibì davvero tribolata per acciacchi vari (ciononostante colse diversi traguardi compreso nuovamente l’Appennino e il Giro di Romagna) esplose il dualismo fra Moser e Saronni e per gli altri, in Italia, fu notte fonda. Baronchelli, tra l’altro, cominciò a dover pagare sulle strade l’ostracismo dei tifosi di Moser (i più calcistici mai visti sulle strade) che non disdegnavano di seppellirlo di insulti e di ….tutto il resto del corredo calciofilo. La stessa cosa capitò a Visentini poco dopo e, mi si permetta, considero queste idiote escandescenze, come un segmento tra i più tristi che abbia vissuto o letto nello sport. Nel 1980, quando il mondo fu costretto a sancire lo spessore di un similare di Merckx, nelle vestigia del francese Bernard Hinault, Baronchelli fu il primo degli umani. Non solo perché nella gara crogiolo dell’anno, una volta tanto coincidente col campionato mondiale, in quel di Sallanches, fu l’ultimo a piegarsi al marziano bretone, ma per le vittorie raccolte nell’anno: ben ventuno, fra le quali l’Henninger Turm, il Giro dell’Appennino, il Giro della Provincia di Reggio Calabria, il Giro dell’Emilia, la Coppa Sabatini, il Giro del Piemonte, il GP di Montelupo, la tappa di Campotenese al Giro (dove finì 5°), una tappa del Giro del Trentino ed una di quello di Puglia. Insomma quanto bastava per essere qualcosa di più nella considerazione tutta per gente come Moser e Saronni che, ai mondiali di Sallanches, quando Hinault decise di fare sul serio, non poterono far altro che andare in albergo a farsi una doccia. Ed il mondiale, Gibì, lo avrebbe vinto l’anno dopo a Praga, se gli italiani in una delle giornate più nere dell’era Martini, non avessero inseguito con veemenza il duo Millar-Baronchelli, con l’azzurro sicuro vincente allo sprint. Furono ripresi a seicento metri dall’arrivo e Gibì, che nella fuga non aveva tirato per rispettare le consegne, fece il suo lavoro nello sprint decisivo a favore di Saronni, per poi prendersi gli improperi dei soliti imprecisi, per aver lasciato al vento troppo presto il Beppe nazionale. In realtà, quando Baronchelli si spostò, dietro ci doveva essere Moser per completare il lavoro per Saronni…..ma i due dovevano essere immuni da critiche. La lapidazione del “Tista” per quel mondiale sfumato, da parte dei tifosi saronniani, rappresenta un’altra pagina triste di quel periodo del nostro ciclismo. Nel 1981, le sue belle corse per dimostrarsi iridato degno, Gibì, come al solito, le aveva vinte. Solo per citarne alcune: il Giro del Lazio, il Giro dell’Appennino, il Giro di Toscana e la dura tappa di Cascia al Giro d’Italia (chiuso al 10° posto). Anche nel 1982, il suo ruolino fu positivo grazie a nove successi fra i quali il GP Industria e Commercio, il Giro dell’Umbria e il suo siamese Giro dell’Appennino. Non vinse tappe al Giro d’Italia, dove si piazzò al quinto posto.

Col 1983, iniziò la lenta flessione del “Tista”: solo due successi in gare di secondo piano. Idem l’anno successivo, ma stavolta nell’ambo di vittorie ci stava il Giro di Toscana. Nel 1985 provò la Vuelta di Spagna e prima di abbandonare per un’indisposizione, vinse la tappa di Santiago. Tornò a ruggire nella stagione ’86, quando a Nicotera, rivinse una tappa del Giro d’Italia (si ritirò poi qualche giorno dopo) e, soprattutto, trionfò nuovamente in una classica monumento, come il Giro di Lombardia. Nell’occasione, fu ancora capace di staccare tutti. Anche nel 1987, il suo spunto in salita, ebbe modo di farsi vedere: vinse infatti la Cronoscalata del Ghisallo, valevole per il Trofeo dello Scalatore. Passò ancora due anni fra i professionisti prima di abbandonare l’attività e vinse ancora gare minori. Lasciò i giudizi dell’osservatorio a fine ’89. Campione mancato? Direi proprio di no, perché campione lo è stato eccome, viste le 94 vittorie, i piazzamenti di prestigio e, soprattutto, il modo di giungere al successo. Poteva essere più grande? Per quanti si può dire la stessa cosa nella storia del ciclismo? Tanti! Per me, che non sono mai stato suo tifoso, “Tista” Baronchelli è la figura italiana più bella del segmento del ciclismo che mi è piaciuto di meno, nonché l’uomo di quell’epoca che più mi ha ricordato i valori dei decenni precedenti.

Le sue prestazioni al G.P. Terme di Castrocaro.
Tista Baronchelli non era un cronoman, ma uno che si piazzava bene in ogni cronometro. Lo dimostrò anche nella sua partecipazione all’edizione ’78 della classica forlivese, dove solo due specialisti come Johansson e Schuiten, riuscirono a batterlo.



Il curriculum completo di GB Baronchelli


Vittorie

1974 Nessuna

1975 Trofeo Laigueglia
1975 Tappa Montespada (Giro di Sardegna)
1975 Circuito di Col S. Martino
1975 Trofeo Baracchi (con Moser)
1975 Circuito di Magione

1976 Circuito di Faenza
1976 Circuito di Cuneo
1976 Prima Tappa Giro dei Paesi Baschi
1976 Terza Tappa Giro dei Paesi Baschi
1976 Giro dei Paesi Baschi
1976 Giro di Romagna
1976 Frazione cronostaffetta a Martinsicuro
1976 Circuito di Chignolo Po
1976 Criteriem Monasterolo (Tipo Pista)

1977 Giro dell'Appennino
1977 Tappa Le Locle (Giro della Svizzera Romanda)
1977 Giro della Svizzera Romanda
1977 Tappa Pinzolo (Giro d'Italia)
1977 Circuito di Arezzo
1977 Circuito di Chignolo Po
1977 Circuito di Pergola
1977 Giro di Lombardia
1977 Circuito di Canelli

1978 Tappa Canazei (Giro d'Italia)
1978 Circuito Lido di Venezia
1978 Giro dell'Appennino
1978 Cantagallo Pistoia
1978 Giro dell'Umbria
1978 Circuito di Garbagnate
1978 Giro del Piemonte
1978 Circuito di Grotte di Castro
1978 Coppa Placci
1978 Circuito di Castellina Scalo

1979 Giro dell'Appennino
1979 Giro di Romagna
1979 Prima frazione cronoscalata di Genga
1979 Genga classifica finale
1979 Circuito di Carpineti
1979 Cronoscalata della Futa

1980 Giro della Provincia di Reggio Calabria
1980 Tappa Castellana Grotte (Giro di Puglia)
1980 Giro dell'Appennino
1980 Gran Premio di Francoforte
1980 Tappa Arco di Trento (Giro del Trentino)
1980 Tappa Campotenese (Giro d'Italia)
1980 Circuito di Nanno
1980 Gran Premio Montelupo
1980 Coppa Sabatini Peccioli
1980 Circuito di Cavo Isola d'Elba
1980 1 ° Frazione cronoscalata di Frasassi
1980 2° Frazione cronoscalata di Frasassi
1980 Cronoscalata di Frasassi (classifica finale)
1980 Kitzbuel fr. linea
1980 Kitzbuel fr. cronometro
1980 Circuito di Kitzbuel - classifica finale
1980 Giro del Piemonte
1980 Circuito di Rovereto
1980 Circuito di Laterina
1980 Giro dell'Emilia
1980 2° Prova Ruota d'Oro
1980 Ruota d'Oro (classifica finale)

1981 Giro di Puglia
1981 Tappa Cascia (Giro d'Italia)
1981 Circuito di Vigolo Marchese
1981 Giro dell'Appennino
1981 Giro di Toscana
1981 Circuito di Roccastrada
1981 Giro del Lazio

1982 Tappa Lodrone (Giro del Trentino)
1982 Giro dell'Appennino
1982 Circuito di Granze
1982 Cronoscalata Sarnico - San Fermo
1982 Giro dell'Umbria
1982 Cronoscalata di Frasassi
1982 Gran Premio di Larciano
1982 Circuito di Chignolo Po
1982 Cronoscalata Castione Monte Pora

1983 Circuito di Roccastrada
1984 Circuito di Faenza
1984 Giro di Toscana
1985 Tappa Santiago (Giro di Spagna)
1986 Tappa Nicotera (Giro d'Italia)
1986 Circuito di Vailate
1986 Cronoscalata della Futa
1986 Giro di Lombardia
1987 Cronoscalata del Ghisallo (Prova Trofeo dello Scalatore)
1988 Circuito di Bologna
1988 Circuito di Nanno
1988 Circuito di Sospirolo


Piazzamenti al Giro d'Italia
1974 2°
1975 10°
1976 5°
1977 3°
1978 2°
1980 5°
1981 10°
1982 5°
1983 17°
1984 6°
1985 6°

Altri piazzamenti di rilievo:
1974 3° Tappa Sanremo (Giro d'Italia)
1974 2° Tappa Tre Cime di Lavaredo (Giro d'Italia)
1974 2° Giro d'Italia (Classifica finale)
1974 3° Giro della Provincia di Reggio Calabria
1975 3° Cronotappa il Ciocco (Giro d'Italia)
1975 3° Tappa La Maddalena (Giro d'Italia)
1975 2° Giro del Friuli
1976 3° Tappa Il Ciocco (Giro d'Italia)
1976 3° Tappa Bergamo (Giro d"Italia)
1976 3° Tirreno Adriatico
1976 3° Giro di Puglia
1976 3° Valli Varesine
1976 2° Trofeo Laigueglia
1977 3° Giro d'Italia (classifica finale)
1977 2° Coppa Agostoni
1978 3° Tappa Ravello (Giro d'Italia)
1978 2° Giro d'Italia (classifica finale)
1978 3° Tre Valli Varesine
1978 3° Coppa Agostoni
1978 3° Gran Premio Montelupo
1978 3° Trofeo Baracchi (in coppia con Johansson)
1978 2° Freccia Vallone
1979 2° Giro della Svizzera Romanda
1979 3° Giro del Piemonte
1979 3° Trofeo Pantalica
1980 2° Tappa Isola d'Elba (Giro d'Italia)
1980 2° Giro di Puglia
1980 3° Giro del Trentino
1980 2° Giro del Lazio
1980 2° Sallanches - Campionato del Mondo
1980 2° Gran Premio di Larciano
1981 3° Trofeo Matteotti
1982 2° Tappa Agrigento (Giro d'Italia)
1982 3° Tappa Monte Campione (Giro d'Italia)
1982 3° Giro di Puglia
1982 3° Giro del Trentino
1982 2° Giro di Toscana
1982 3° Tre Valli Varesine
1982 3° Gran Premio di Camajore
1983 2° Giro di Campania
1983 3° Giro dell'Umbria
1983 3° Cronoscalata della Futa
1983 2° Giro di Puglia
1984 3° Giro di Puglia
1984 2° Cronoscalata della Futa
1984 2° Giro dell'Umbria
1984 2° Tre Valli Varesine
1985 3° Tappa Selva di Val Gardena (Giro d'Italia)
1986 3° Coppa Placci
1986 3° Trofeo Matteotti
1987 2° Giro del Trentino

Presenze in Nazionale:
1976 42 Ostuni
1978 16° Adenau Nurburgring
1979 ritirato a Valkenburg
1980 2° a Sallanches
1981 27° Praga
1982 30° Goodwood
1983 32° Antenrhein
1984 20° Barcellona
1985 60° Giavera del Montello
1986 40° Colorado Spring

Note (1):
1973 1 ° Tour dell'Avvenire Dilettanti
1973 1 ° Giro d'Italia Dilettanti

Note (2)
Alle 89 vittorie singole sono da aggiungere 2 Cronostaffette.

Morris


....continua...

 

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"Non discutere con gli stupidi, perchè scenderesti al loro livello e ti batterebbero per la loro esperienza".

 
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Non registrato



  postato il 18/08/2006 alle 10:48
mi unisco agli auguri ad un personaggio che leggo sempre molto volentieri, sia per la saggezza degli scritti sia per la cultura che diffonde sul forum.

Auguri

 
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Livello Fausto Coppi




Posts: 1635
Registrato: Apr 2005

  postato il 18/08/2006 alle 11:55
Grazie, Morris.
Veramente di cuore.
E grazie a tutti.

 

____________________
pedala che fa bene.....

 
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Livello Fausto Coppi




Posts: 6314
Registrato: Jun 2005

  postato il 18/08/2006 alle 12:13
Caro Doc tanti auguri.

 

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"MEGLIO NON ESSERE RICONOSCIUTO PER STRADA CHE ESSERLO ALL'OBITORIO.
IL CASCO SALVA LA VITA, LA CHIOMA VA BENE PER LA FOTO SULLA TOMBA"!!!


Articolo 27 della costituzione Italiana

La responsabilità penale è personale.
L'IMPUTATO NON E' CONSIDERATO COLPEVOLE SINO ALLA CONDANNA DEFINITIVA.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte.

 
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Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




Posts: 4217
Registrato: Oct 2003

  postato il 18/08/2006 alle 12:14
Ilic-Janjanssen però, è anche un medico, ed ha messo a disposizione di chi ha avuto la fortuna di incontrarlo, la sua conoscenza. Professionalità e passione sono aspetti che, se fusi, danno risultanze enormi. Il compleanno è un giorno particolare, ma per un uomo come Ilic, è pure una ricorrenza dove, alle consuetudini della giornata, si possono legare anche le gratificazioni di un distinguo importante: l’essere una persona che pensa e studia.
Questo thread, ha pure lo scopo di dare a questo grande forumista, l’occasione per dimostrarsi e donare agli altri il suo sapere, quella distinzione che ne fa un divulgatore al quale, i più giovani e non solo, dovrebbero sempre esserne riconoscenti. Ed allora, caro Ilic, ti faccio lavorare, ben sapendo che indipendentemente dal contenuto del tema, troverai nella tua mente quell’input che in un modo o nell’altro ti rende te stesso.
Tempo fa, ho letto un intervento di un forumista, Forzainter, che riporto….


Ho preso questi dati sfogliando l’elenco corridori del sito Memoire du Cyclisme

Bruisman Victor (Hol) 39 anni
Bruyere Jean Marc (Bel) 35 Anni
Berkenbosch Luc (Bel) 43 Anni
Dauwe Johnny (Bel) 37 Anni
De Smul Pascal (Bel) 28 Anni
Dewailly Pierre (Bel) 33 Anni
Dhaenens Rudy (Bel) 37 Anni
Draaijer Johannes (Hol) 27 Anni
Haghedooren Paul (Bel) 38 Anni
Jonckhhere Danny (Bel) 22 Anni
Kuum Janus (Nor) 34 Anni
Lambrechts Johan (Bel) 41 Anni
Lambrechts Wim (Bel) 25 Anni
Mulders Rob (Hol) 31 Anni
Oosterbosch Bert (Hol) 32 Anni
Siemons Marc (Hol) 36 Anni
Van de Knoop Peter (Hol) 44 Anni
Van Luchem Filip (Bel) 35 Anni
Van Raasbeck Clement (Bel) 41 Anni
Wyffels Patrick (Bel) 41 Anni
Zanoli Michel (Hol) 35 Anni

Tutti questi corridori sono stati pro e provengono dai Paesi Bassi e il Belgio (Ho incluso Kuum perche’ ha vissuto li per un lungo periodo)

Tutti questi corridori sono morti tra il 1989 e il 2004 ( a meno di 45 anni di età)

Chiaramente non so di cosa siano morti (probabile per alcuni l’incidente stradale) , pero’ è una statistica a parer mio drammatica ( molto simile a quella del Football Americano)

Le due nazioni non son prese a caso.


L’intervento è stimolante, ma essendo inserito in un thread enorme e di difficile lettura è probabilmente sfuggito a molti. Mi sono permesso di correggere e rispondere con ciò che seguirà. Non so se il famoso sito richiamato da Forzainter, sia molto aggiornato o abbia scavato a sufficienza: restano molti buchi ed incongruenze, soprattutto diversi corridori famosi, belgi e olandesi, periti prematuramente, non compaiono in quell’elenco.
Dai miei dati e dalle mie ricerche, ad onor del vero un po’ vecchiotte, risulta questo:

Bruisman Victor (Hol) 39 anni mai passato professionista
Bruyere Jean Marc (Bel) 35 Anni si chiama Jean Marie ed è stato assassinato
Berkenbosch Luc (Bel) 43 Anni prof nel ’78, morto per tumore
Dauwe Johnny (Bel) 37 Anni prof dal 89 al 96 con 20 vitt. Morto per infarto
De Smul Pascal (Bel) 28 Anni prof nel ’94 e 95 morto nel 98 per incidente
Dewailly Pierre (Bel) 33 Anni prof nel 1991 morto in un incidente stradale
Dhaenens Rudy (Bel) 37 Anni prof dal 1983 al ’92 morto in un incidente
Draaijer Johannes (Hol) 27 Anni prof dall’88 al ’90 morto per arresto cardiaco
Haghedooren Paul (Bel) 38 Anni prof dal ’82 al ’94 morto per arresto cardiaco
Jonckhhere Danny (Bel) 22 Anni prof stagiaire nel 96 morto per incidente
Kuum Janus (Nor) 34 Anni prof dal 1986 al ’94 morto suicida
Lambrechts Johan (Bel) 41 Anni prof nel 1982 morto per un incidente
Lambrechts Wim (Bel) 25 Anni prof dal 1989 al ’92 morto in corsa per infarto
Mulders Rob (Hol) 31 Anni prof dal 1991 al ’96 morto per un incidente stradale
Oosterbosch Bert (Hol) 32 Anni prof dal ’79 all’88 per arresto cardiaco
Siemons Marc (Hol) 36 Anni prof dal 1990 al ’93 morto per un tumore
Van de Knoop Peter (Hol) 44 Anni prof nel 1985 morto per un tumore
Van Luchem Filip (Bel) 35 Anni prof dal ’92 al ’95 ciclocross morto per tumore
Van Raasbeck Clement (Bel) 41 Anni prof nel ’73 morto per incidente
Wyffels Patrick (Bel) 41 Anni mai passato prof morto per un incidente
Zanoli Michel (Hol) 35 Anni prof dal 1989 al 1996 morto per arresto cardiaco


Il messaggio di Forzainter è chiaro: quanti sono i morti per l’uso continuato di sostanze dopanti? Tanti, troppi, ma attenzione, in tutti gli sport. Se prendiamo ad esempio il calcio, grazie pure allo screening di Guariniello, scopriamo realtà ben più pesanti. Non mi pronuncio sul football americano, in assoluto lo sport che più mi sta sui cosiddetti, e che abbia elevate incidenze di mortalità prematura, non mi stupisce per nulla. In quanto ai ciclisti belgi e olandesi, fra i morti per arresto cardiaco ce ne sono altri, anche più famosi, da inserire in questo elenco. A memoria ne cito tre:
Marc Demeyer (Bel) 31 anni prof dall’82 al ’92 morto per arresto cardiaco
Geert Van de Walle (Bel) 24 anni prof dal 1986 all’88 morto per arresto cardiaco
Evert Dolman (Hol) 47 anni prof dal 1967 al ’73 morto per arresto cardiaco


Da questo elenco emerge una “geografia” particolare, che rende ben poco veritiere le velleità di coloro che danno agli anabolizzanti, poca influenza sulle malattie cardiache. I famosi vecchi stimolanti, da soli tragedie ne han fatte molto poche, ma quando questi farmaci sono stati assunti con maggior frequenza quotidiana, per aiutare a sopportare i carichi di allenamento necessari per il nuovo motore uscito dagli anabolizzanti, la somma ha portato a ciò che si intravede sopra. Il dato viene confermato ulteriormente da una veloce disamina, solo legata agli stranieri, uscita velocemente dalla memoria, riguardante corridori non dell’area presa in esame da Forzainter…:

Vicente Lopez-Carril (Esp) 37 anni prof dal ’65 al ’79 morto per arresto cardiaco
Joaquim Halupczok (Pol) 26 anni prof dal 1990 al ’92 morto per arresto cardiaco
Lebaube Jean-Claude (Fra) 1977 40 anni prof dal ’61 al 1970 morto per arresto cardiaco
Salanson Fabrice (Fra) 2003 23 anni prof nel 2002-’03 morto per arresto cardiaco
Le Bihan François (Fra) 1972 37 anni prof dal 1961 al ’63 morto per arresto cardiaco


Fra i citati, il solo Le Bihan, ed in parte Lebaube, che il coetaneo Ilic ricorderà senz’altro molto bene, può essere accostata all’era degli stimolanti semplici….
Cosa ne pensi il grande Janjanssen è, appunto, uno scopo, magari da esaurire in altro thread, di questo inserimento.


Dei ciclisti fin qui apparsi, uno merita un approfondimento: per quello che poteva essere e non è stato e per tutti i significati che la sua ellisse possiede. E’ un corridore che Ilic ricorderà molto bene, perché considerato in patria l’erede del suo idolo Jan Janssen e perché, da dilettante, era famoso nella nostra comune terra romagnola: l’olandese Evert Dolman. Perché famoso? Bèh…a quei tempi in Romagna c’erano corridori e soprattutto squadre, come il Pedale Ravennate e la Rinascita Ravenna, che raccoglievano diversi azzurri di Elio Rimedio e Dolman, era lo spauracchio di tutti. Potremmo dire che era conosciuto quasi quanto un Battista Monti, un Antonio Albonetti o il grande incompiuto Lello Mariani…..

Per l’amore di Ilic verso la storia dello sport, eccolo qua il Venturelli olandese…..


Da “Protagonisti del ciclismo a Forlì”….


EVERT DOLMAN
Nato a Rotterdam (Olanda) il 22 febbraio 1946 ed ivi deceduto il 13 maggio 1993. Passista. Professionista dal 1967 al 1973 con undici vittorie.



Vincere la medaglia d’Oro olimpica nel ciclismo, a soli diciotto anni, credo rappresenti un record, perlomeno per una prova su strada. Tra l’altro, la gara che valse ad Evert Dolman l’Oro Olimpico di Tokyo ’64, era la massacrante “100 chilometri a squadre” (i suoi compagni furono Karstens, Pieters e Zoet), ovvero una disciplina che allo sguardo delle statistiche, ha sempre vissuto su alfieri di grande forza, ma pure con l’evidenza più significativa: è quella che in assoluto ha bruciato più talenti. Evert, dunque, con un’età da juniores, lasciò il segno più illustre, ma la sua carriera dilettantistica non finì lì. Già, perché nello stesso anno, il 1964, vinse il campionato olandese su strada, titolo che confermò anche nella stagione successiva, fra una miriade di vittorie. Nel 1966, a vent’anni, Dolman, conquistò di tutto e di più e, sul circuito del Nurburgring, superando facilmente allo sprint il britannico West (l’unico che aveva saputo tenergli la ruota), si laureò campione mondiale.

. Dopo tre stagioni leggendarie fra i dilettanti, nel ’67 passò professionista, all’interno della squadra più forte d’Olanda, la Televizier. Non fu un anno prodigo di soddisfazioni per Evert, che, comunque, vinse una tappa alla Vuelta di Spagna e si piazzò spesso. Nel ’68, con la maglia della belga Smith’s, si laureò campione d’Olanda con un’azione tipica del Dolman dilettante, indi colse i traguardi di Goirle e Ulestraten, ma la sua stagione per il resto fu grigia. L’anno successivo tornò in patria, vestendo i colori della WillemII-Gazelle, ma seppur vincendo il GP di Monaco, due tappe del Giro del Lussemburgo e il GP Maarheeze, diede l’impressione di essere abbastanza spento. Nel 1970, s’aggiudicò il Criterium di Kartenhoef e una tappa della Vuelta Andalusia, ma per il resto, pur impegnandosi allo spasimo nelle grandi classiche, non riuscì mai a piazzarsi degnamente.

La Mars Flandria, ovvero la squadra belga più forte, assieme alla Faemino di Eddy Merckx, gli diede una nuova chanche nel 1971, ed Evert ripagò la sua nuova squadra, con uno stupendo successo al Giro delle Fiandre, concretizzatosi con un colpo di mano nel finale, pronto a gridare l’antico talento. Il successo in una classica monumento però, non dispiegò le ali di Dolman, il quale vinse ancora a Sittard, pochi giorni dopo quel Fiandre e si spense. Nemmeno il successo nel prologo del Tour de la Loira l’anno successivo, parve risvegliarlo. A fine ’73, a soli 27 anni, complici alcuni problemi fisici, lasciò il ciclismo. Poi, il 13 maggio 1993, un arresto cardiaco se lo portò via per sempre. Regale in bicicletta come pochi, finisseur di razza, ha sicuramente pagato gli sforzi troppo pesanti consumati in giovanissima età. Un nobile incompiuto fra i più grandi che i miei occhi abbiano mai visto.

Le sue prestazioni al G.P. Terme di Castrocaro.
Invitato dalla Forti e Liberi all’edizione ‘67, anche per la sua fama fra gli appassionati romagnoli, fu autore di una corsa penosa, conclusa all’ultimo posto fra gli arrivati, a 13’34” dal vincitore Gimondi. Guardarlo pedalare, si aveva l'impressione di un corridore in grande sofferenza. Un'immagine incancellabile.

Morris


....continua...

 

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Livello Fausto Coppi




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  postato il 18/08/2006 alle 12:58
Tantissimi auguri caro Ilic!

 

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"Se hai la fortuna clamorosa di diventare un cronista di ciclismo, non puoi fare a meno di essere coinvolto, trascinato in una passione infinita, irrinunciabile, che ti segna per sempre" - Pietro Cabras

"C'è una salita? Vai su, arriva in cima, e vedrai che sarai sempre vincitore" - Giordano Cottur

 
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Livello Fausto Coppi




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  postato il 18/08/2006 alle 13:06
Augoroni a Ilic, e grazie Morris.

 

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Davide

 
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Utente del mese Agosto 2009




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  postato il 18/08/2006 alle 13:15
Tantissimi auguri anche da parte mia ad Ilic/Janjanssen, ci volevi tu per far tornare a scrivere sul forum il nostro caro Morris!

 

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Vorrei morire in bici, in un giorno di sole, dopo aver scalato una di quelle montagne che sembrano protendersi verso il cielo, mi adagerei sull'erba fresca senza rimpianti, attendendo con serenità il compiersi del mio tempo. Non importa se sarà ...oggi o tra cent'anni, avrò in ogni caso trovato il mio giorno perfetto.

 
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  postato il 18/08/2006 alle 13:48
Auguroni anche da parte mia!

Certo, rileggendo gli ordini d'arrivo negli scritti
di Morris mi sovviene un irritante malessere.
Vedere quei nomi e constatare che invece oggi
i CORRIDORI, letteralmente si cag...no sotto gli uni
degli altri. Preferiscono arrivare 80° piuttosto che
2° dietro il rivale...così hanno la scusa per dire
che NON ERANO IN FORMA o CHE PUNTANO ALLA GARA SUCCESSIVA.
Fare le corse solo come allenamento lo trovo assolutamente
RIDICOLO.
W il ciclismo TUTTO l'ANNO.
Abbasso quello odierno.
Abbasso i corridori da 27 giorni o da 2 mesi.
...

che angoscia!

 

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Livello Fausto Coppi
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  postato il 18/08/2006 alle 14:27
In questi giorni, in occasione dei Campionati Europei di atletica leggera, Ilic, ha deliziato i forumisti con autentici zoom sulle gare di questa che era, e rimane, la disciplina regina dello sport. Un intreccio fra storia, protagonisti e stimolanti confronti, con un unico denominatore, l’amore verso l’atletica. Tante gare viste allo specchio senza dimenticare gli echi dei problemi che si pongono di fronte anche a questa disciplina: i soliti, quelli della devastante chimica….
Il romanzo di questo sport è infinito, ogni prova ha un fascino particolare, come fosse un dono per chi si pone ad osservare.
Fra le migliaia di ritratti possibili, ci sono quelli che stuzzicano di più perché richiamati di più dai media, ma ci sono anche i dimenticati o quelli velocemente messi in un cassetto. Da quest’ultimo enorme mazzo ne ho scelto uno, che trova cornice in una specialità dura, asfissiante, cerebrale: il timbro supremo della velocità prolungata, i 400 metri.
Una prova che ha quasi sempre visto i bianchi soccombere di fronte ai neri, per i mille motivi che già accompagnano le prove veloci, anche se, ad onor del vero, uno dei più grandi è stato proprio Alberto Juantorena, che non si può certo definire il classico atleta di colore.
Fra i protagonisti senza titolo di questa gara infernale, c’è un bianco tra i più veloci di medesima pelle, uno dalla corsa stupenda, compatta, bello da vedere ed efficace come pochi. E’ un australiano, non molto lontano nei suoi tempi d’acuto, il suo nome sarà sconosciuto ai più, ma tant’è: Darren Clark,
E dire che oggi, col mostro bianco Jeremy Wariner a dominare, certo denso di sospetti come del resto l’anfitrione allenatore Michael Johnson, una menzione nelle telecronache, per questo uomo degli antipodi, me la sarei aspettata…
Ad Ilic e per chi ama l’atletica….



DARREN CLARK



E’ stato uno dei più grandi quattrocentisti bianchi della storia. Il suo fisico era possente, ma naturale, la sua interpretazione della gara, era semplicemente perfetta e la frequenza del suo passo, stava ampiamente nella migliore tradizione della velocità prolungata.
Un granatiere più magro dei più, con la capacità di sconfiggere l’interminabile paura che solca gli animi dei bianchi, quando si corre la gara forse più adatta ai neri.
Darren, non si è mai risparmiato quei confronti con l’elite della specialità, spesso vezzo degli australiani, non già per motivi oscuri, bensì per le difficoltà dettate dal vivere in un continente che è alla “rovescia” della grande stagione dell’atletica. Essere in forma a gennaio, perché in Australia è estate, significa debito di energie a luglio, quando in Europa e negli Usa, si consumano i pezzi forti della stagione.
Bene, Clark, è stato capace per due lustri di scaricare su tutte le piste del mondo, quelle facoltà che l’han fatto un evidente dello sprint prolungato nel periodo che va dal 1984 al 1993, dove spesso ha messo alle corde i sempre tanti e forti specialisti statunitensi e si è permesso di andare per ben undici volte sotto la barriera dei 45”: un segno di qualità straordinario per uno dalla pelle bianca.
Assieme a Roger Black (con cui ha spesso battagliato) e il colossale e monumentale Glenn Davis (olimpionico a Melbourne e Roma sui 400hs, ma fenomenale anche sui piani e per me uno dei più grandi atleti della storia ogni-disciplina), forma il “podio” non di colore e non di terre esotiche o caraibiche della storia dei 400.
Nato il sei settembre del 1965 a Sydney, Clark si dimostrò subito un talento precocissimo. Qualsiasi sport praticasse, lo si notava per la sua inclinazione verso l’eccellenza. Fu un suo professore liceale a portarlo definitivamente alla velocità prolungata.
A diciassette anni, nel 1982, era già in grado di competere coi migliori specialisti “aussie” e l’anno dopo era già capace di correre sotto i 45”, al punto di trovarsi in tasca, il platonico titolo di miglior junior mondiale.
A quei tempi, infatti, non si tenevano i mondiali della categoria, la cui prima edizione fu svolta nel 1986.
Il giovane Darren, vera forza della natura, si confezionò nel 1984, uno di quei “piatti” destinati a fare storia, un po’ come la connazionale Raelene Boyle che, a sedici anni, riuscì a salire sul podio olimpico di Città del Messico. Bene, Clark, a diciotto anni e undici mesi, fu così bravo da superare gran parte del gotha mondiale della specialità, giungendo quarto alle Olimpiadi di Los Angeles, nel gran tempo di 44”75. Semplicemente fenomenale. La prestazione cronometrica era, a quei tempi, la terza “all time” fra gli junior, dietro il 44”69 di Darrel Robinson e il 44”73 di James Rolle, due statunitensi di colore poco più anziani di Darren, ma letteralmente scomparsi, dopo le loro performance stabilite non senza qualche sospetto in gare nazionali americane.
La progressione dell’aussie continuò inarrestabile fino a superare, con riscontri cronometrici sempre degni dei grandi, in prestigiosi meeting, diversi americani, fra i quali pure il campione olimpico Alonzo Babers e Antonio Mc Kay che, a Los Angeles, era giunto al bronzo.
Ai Giochi del Commonwealth del 1986, vi fu il primo grande scontro con Roger Black, l’inglese di un anno più giovane, che gli è stato superiore in carriera, anche se di pochissimo ed in virtù dei soli piazzamenti. I due arrivarono appaiati e con lo stesso tempo, poi, il fotofinish, trovò la “punta” della spalla destra dell’inglese leggermente avanti e la vittoria fu assegnata a Roger.
Ma l’aussie non stava certo abdicando, ed infatti, con una prestazione mostre, riconquistò la quarta piazza alle Olimpiadi di Seoul, nel 1988, correndo in 44”55 in finale, ma nella semifinale era riuscito a correre addirittura in 44”38, a quei tempi, per me, la miglior prestazione cronometrica di un bianco sui 400 metri. Ho detto, per me, in quanto il tedesco dell’Est, Thomas Schoenlebe, aveva corso un anno prima in 44”33, ma il suo nome fu fatto troppo spesso durante l’apertura degli archivi e delle indagini sul doping di stato della DDR, all’indomani della “caduta del Muro”.

Anche Seoul dunque, aveva portato a Darren una medaglia di legno, ma insisteva pure la soddisfazione di esser stato per la seconda Olimpiade consecutiva, l’unico bianco in finale. Da notare, che in entrambe le rassegne olimpiche citate, aveva portato al medesimo piazzamento ai piedi del podio, anche la staffetta australiana 4 x 400.
Nel 1990, l’atleta di Sydney, si prese un’altra rivincita su Black e vinse i Giochi del Commonwealth, correndo in un sempre eccellentissimo 44”60.
Il canto del cigno della grande carriera di questo fenomeno della velocità prolungata, avvenne nel 1993, ai mondiali indoor, quando giunse terzo, dietro al nigeriano Sunday Bada e al vincitore statunitense Butch Reynolds. Una serie di infortuni, lo costrinse dapprima ad un’attività più ridotta e all’abbandono anticipato delle piste nel 1996, a trentun anni.
Oggi, Clark è un valente giornalista, a cui accosta la mansione di allenatore presso l’AIS (Australian Istitute of Sports) che, per esperienza personale, è qualcosa di molto, molto meglio, rispetto al nostro CONI.

Morris


…..continua….

 

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Livello Fausto Coppi




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  postato il 18/08/2006 alle 14:34
grazie morris, 6 1 enciclopedia ambulante di sport!complimenti davvero!
 
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  postato il 18/08/2006 alle 14:53
Tanti auguri, Immenso Ilic!!

P.S.: Wood, m'hai rubato il pensiero...

 

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Mario Casaldi - Cicloweb.it

CICLISTI
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Livello Fausto Coppi




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  postato il 18/08/2006 alle 16:36
Mille grazie al mitico Morris!!! Auguroni Jan...

 

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Livello Fausto Coppi




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  postato il 18/08/2006 alle 16:42
Auguri Janjan!!
 
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Livello Giro delle Fiandre




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  postato il 18/08/2006 alle 18:34
mi associo agli auguri
 
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Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




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  postato il 18/08/2006 alle 20:50
Caro Ilic, come tu sai, nell’atletica leggera c’è una gara che è ancor più atroce dei 400 piani: la medesima distanza con gli ostacoli. Una specialità che ha stuzzicato le nobili penne sportive di tanti anni fa…..
Questa sera, è in programma il Meeting di Zurigo, il Meeting per eccellenza, un campionato mondiale annuale. Sara l’ultima volta sul mitico anello del Letzingrud, la pista dei record. Nel 2007 sorgerà uno stadio nuovo, ma chissà se sarà capace di mantenerne inalterato il mito.
Chi fa atletica dopo il sogno olimpico, al pari di un Europeo o di un Mondiale, vorrebbe vincere a Zurigo, perché se vinci lì sei nella storia di chi sente dell’atletica ogni richiamo. Il ritratto che segue passa per il Letzingrud, con un condensato più acre che dolce, ma vale ugualmente molto e mi da l’occasione di parlare di un eroe tanto breve, quanto fulgido, della Romagna, la nostra terra.
Il protagonista è un caro amico, uno che ha giocato un ruolo importante nella mia acculturazione e conoscenza sportiva, ed uno col quale ho avuto l’onore di lavorare, nel Politecnico dello Sport, la Polisportiva Edera di Forlì…...

Gli spezzoni che seguono sono tratti dal libro che scrissi nel 2002, su quella che definirò sempre la mia più vera e più grande università, il fulcro profondo della mia carriera di dirigente che non ha mai perso la voglia di imparare….


GERMANO GIMELLI
Cuore e classe per appiattire gli ostacoli della “gara che uccide”




Ancora oggi, quando lo osservi hai modo di capire di quale sangue blu fosse dotato in gioventù. La sua postura e la straordinaria adattabilità allo sforzo, senza per questo attenuare quelli che vedi come peculiari aspetti tecnici, ti fanno intuire quelle valenze che un tempo lo fecero uomo di vertice mondiale. Germano Gimelli è stato un autentico campione, tanto breve e fulgido da non sfuggire agli sguardi dei palati fini dell’atletica, tanto profondo nella sua ricerca autodidatta della perfezione da chiedersi una montagna di perché, tanto lineare nella sua condotta di fronte ad una specialità che gli anglosassoni, giustamente, han sempre chiamato “The killer event”: i 400 ostacoli. Germano aveva tutto per intenerire i puristi come il grande Giorgio Oberweger, ed aveva pure la determinazione tipica della gente di Romagna, capace di soffrire nel silenzio la fatica e la propria abnegazione. Un cavallo di razza, uno di quelli che pareva nato per correre a velocità notevole e costante, saltando siepi e fossi a lunghe falcate e che finisce su pista come d’incanto, per determinare l’intensità del suo incontro col vento. Ebbene sì, sportivamente Germano Gimelli è stato uno che poteva arrivare tanto alla medaglia olimpica, quanto al record mondiale, nonostante corresse ai tempi di Glenn Davis, uno dei campioni più leggendari che l’atletica abbia mai avuto. I suoi valori fisici, i suoi tempi di riferimento sui 400 piani e quelli indicativi sui 200 e 500, la sua naturalezza accostata ad un evidente furore agonistico, ci dicevano che la “gara che uccide” era la sua vetrina ideale e stereotipata. Il tutto senza dimenticare che Gimelli correva su piste in terra rossa, o tennisolite come veniva comunemente chiamata allora, un fondo tanto più lento del plastan di oggi e, per gli ostacolisti, un vero martirio, in quanto compagno dell’aleatorio sugli appoggi e sulla effettiva determinazione degli automatismi nel salto degli ostacoli. Aspetti, questi, che potevano provocare notevoli miglioramenti nei tempi fra una gara e l’altra e dove l’interpretazione del numero di passi fra un ostacolo e l’altro era oggetto di un vero e proprio studio, sia nell’allenamento che nella rivisitazione della gara. Germano fu interprete sopraffino di una specialità in piena evoluzione, capace in soli tre anni di migliorarsi di due secondi, un abisso sul quale avrebbe giocato un ruolo primario se non avesse chiuso la carriera anticipatamente, alla vigilia delle Olimpiadi di Roma, a soli 23 anni. I grandi risultati conseguiti dopo il suo ritiro da avversari, pure battuti come Salvatore Morale o lo svizzero Galliker, danno alle nostre parole poste sopra, quel segno realista che una veloce e superficiale lettura poteva considerare dovute all’amicizia. Invece no, Germano Gimelli, aveva veramente tutto per entrare nell’immortale storia dell’atletica leggera, certo tanto di più di quell’evidenza comunque di vertice internazionale che la breve carriera gli ha consentito.

Osservate queste due foto di Gimelli, sembrano identiche pur con maglie diverse. Si può notare la esasperante ricerca della perfezione tecnica e l’assoluta eguaglianza dei particolari, essi stessi componenti preziosi per il raggiungimento delle risultanze. Un campione certosino in tutto!
Uno che non ha mai lasciato nulla di intentato nell’allenamento e nella cura dei particolari di una gara che ha vissuto con devozione, come fosse un credo. Ma sentiamo dalle sue parole come giudica quel rapporto…
“I 400 hs – esordisce Gimelli - sono la specialità dell’atletica forse di maggior fascino, perché richiede una intensissima espressione fisica, abbinata a dei notevoli aspetti tecnici. E’ una gara terrificante, di grandissima intensità a tutti i livelli, che porta a percorrere gli ultimi 70-80 metri in uno stato di totale debito, da pregiudicare perfino la visibilità delle ultime barriere. Famose e molto efficaci, le colorite definizioni del grande Gianni Brera, uno dei padri del giornalismo sportivo italiano che definiva i 400 hs, come una gara in cui, ad un certo punto, l’acido lattico ti impregna perfino la mente e ti porta, inconsciamente, a mordere le nuvole. E’ una gara inesauribile e, sotto certi aspetti, unica, che non perdona se si sbaglia, perché nel momento particolare del massimo dispendio e, quindi, in una situazione di totale debito, richiede una tale lucidità tecnica ed una prontezza di riflessi decisionale (che è difficilissimo, quasi impossibile, possedere in quel preciso istante), nell’adeguare e modificare, anche repentinamente, le cadenze fra le barriere, a seconda delle particolari e, a volte, determinanti circostanze che si possono verificare. E’ una gara che se la pensi troppo ti demoralizza, ti scoraggia, ti incute paura, e poi quelle dieci barriere che sembrano non finire mai e che ti ritrovi di fronte a scadenze fisse ti ossessionano, anche e soprattutto nel sonno. Ma è una gara che ti da un grande orgoglio, che ti penetra dentro”. Non è dunque un caso se gli anglosassoni la chiamano “The killer event”!

Qualche eco della sua storia…….(purtroppo alcune foto molto significative sul piano tecnico non sono in grado di ridurle coi miei umili mezzi e la mia incommensurabile incapacità)

…… Ma il triennio preolimpico, come citato, fu soprattutto Germano Gimelli. L’ostacolista ederino, grande ammiratore del grandissimo Glenn Davis, già oro olimpico a Melbourne e primatista mondiale dei 400 hs, si mise ……veramente sulle sue tracce. Vinse sui 400 hs nel ’58 i Campionati Societari a Firenze (l’ineguagliata rivista “Lo Sport Illustrato” gli dedicò la foto prima pagina), lasciandosi alle spalle Moreno Martini primatista italiano e i migliori specialisti nazionali con una facilità irrisoria, nel gran tempo di 52”4. Giorgio Oberweger, presente all’avvenimento, dichiarò ai media che su Gimelli non si sentiva di porre dei limiti, tale era il suo stile e la sua classe.
Stravinse i Titoli Universitari sui 400 hs nel ‘58 e nel ’59, ed in quest’ultimo anno, proprio come amava fare l’idolo Davis, vinse pure i 400 piani. Nel 1958, si guadagnò l’azzurro agli Europei di Stoccolma, dove però venne tradito dall’emozione e non superò la sua batteria. Si prese subito una personale rivincita a Bolzano, sempre nel ’58, dove stabilì il primato personale con 51”9, terzo tempo di sempre in Italia, quinto stagionale in Europa e decimo nel mondo. Ma la sua ascesa non s’arrestò. Nel 1959 a Milano batté Salvatore Morale, considerato con lui l’enfant prodige italiano degli ostacoli bassi e si ripeté sul tempo di 51”9. Ormai certezza dell’atletica azzurra, andò a Zurigo per quel meeting che rappresentava allora (come oggi del resto), una specie di campionato mondiale. Gimelli, fu protagonista di una gara “monstre” dove la vittoria, a quei tempi non c’era il fotofinish, fu probabilmente sua o, se non fu sua, la differenza col vincitore, lo svizzero idolo di casa Galliker, fu di qualche centimetro appena.

1959 - Il prestigioso podio di Zurigo. Germano Gimelli con lo svizzero Galliker, vincitore e il tedesco Joho.

Uscito da Zurigo un po’ triste per quella vittoria forse reale e non assegnata, ma con la convinzione di avere i mezzi per ergersi ai vertici mondiali, decise di prepararsi con dovizia per l’obiettivo di stagione: le Universiadi di Torino. Il destinò però, stava riservandogli un colpo che ebbe un peso determinante nel suo prosieguo di carriera: il progressivo decadimento fisico del padre, afflitto da un male incurabile. Affranto e spossato, non s’allenò per un mese e si presentò alla rassegna mondiale universitaria in condizioni più che precarie. Quella edizione delle Universiadi, passerà alla storia come una delle migliori per quantità e qualità dei partecipanti. Germano Gimelli raccolse tutte le sue straordinarie energie nervose e giunse in finale. Qui, il suo stile perfetto nel passaggio degli ostacoli e quella sua grande capacità di mantenere la velocità, parvero donargli l’incontro con la fama immortale. Arrivò primo con ottimo margine sul rettilineo d’arrivo, ma quel decimo ostacolo che spesso la “gara che uccide” ti presenta sotto forma di un monte avvolto dalla nebbia delle nubi, tanto più a quei tempi ove il fondo sdrucciolevole in tennisolite rappresentava fatica suppletiva, gli fu fatale. Perse il ritmo abbracciando la stanchezza cieca di chi ha affrontato precario un appuntamento così importante e, pian piano, la sua velocità scemò. Vinse Salvatore Morale e Germano finì secondo per l’inezia di trenta-quaranta centimetri. Un argento che poteva essere oro, ma che dimostrò, ancora una volta, quanto fossero evidenti le stimmate del campione dell’Edera. Poco più di un’ora dopo, i tecnici della Nazionale gli chiesero un ulteriore sforzo, schierandolo nella 4 x 400. Gimelli, raccolse il fondo delle sue energie nervose e corse una frazione perfetta, spingendo il quartetto ad un altro (per lui) argento.
I vertici della Fidal si complimentarono assai con l’ederino, ma quella gara rappresentò il suo canto del cigno, ed a soli ventitré anni abbandonò lo sport attivo. I tristi eventi di famiglia l’avevano corroso al punto di somatizzare il suo stato psicologico, fino ad incontrare e mantenere per un decennio problemi fisici che gli impedirono di praticare attivamente lo sport. Ma quello che è stato uno dei più grandi atleti italiani della “gara che uccide”, non abbandonò il sodalizio e i suoi colori.
Come vedremo, diverrà tecnico e dirigente, creando, anche negli altri ruoli, quel solco e quel fascino che lo avevano contraddistinto da atleta.

Universiadi di Torino (6 settembre 1959) – Germano Gimelli, in primo piano all’ingresso del rettilineo finale. Qui è nettamente in testa, ma il poco allenamento comincia a farsi sentire. Lo si può notare da come un perfezionista come lui affronta l’ostacolo, molto alto, quindi prossimo a perdere velocità. Sul filo di lana verrà sconfitto di poco, ma quello che più rattristerà i palati fini dell’atletica come Gianni Brera ad esempio, fu la constatazione che “l’airone degli ostacoli” recitò in quella gara il suo forzato addio allo sport e alla “gara che uccide”. Un’altra evidenza di questa foto è dettata dal pubblico, davvero degno dei numeri calcistici di oggi. Evidentemente quarant’anni fa, la gente era più sportiva, grazie all’educazione e all’indottrinamento di giornalisti migliori e giornali liberi di fare, dello sport, un momento di cultura. Il contrario di quello che avviene oggi, dove la sponsorizzazione “costi quel che costi” del “dio pallone”, portata avanti dai proprietari dei media, ha letteralmente rattrappito la cultura sportiva, ed una positiva attenzione verso tutte le discipline.

P.S. Anche se nel libro non è stato scritto, Gimelli vinse il Meeting di Zurigo ’59. “Sentivo il filo di lana – mi disse – me lo portai presso per dieci metri oltre il traguardo, ma allora, purtroppo, non c’era il fotofinish. Che vi fosse imbarazzo fra gli stessi giudici che avevano favorito lo svizzero di casa, ne ebbi la prova quando, dopo la premiazione, mi avvicinarono è mi regalarono un cronometro particolare, di grande valore. Agli altri non diedero nulla. Comunque, rammarico a parte, Galliker era molto bravo. Un anno dopo, alle Olimpiadi di Roma, eliminò il mio amico rivale Salvatore Morale e corse la finale. Non la guardai in televisione, stavo troppo male….Come mi dicevano in tanti, dovevo esserci io…”

Morris

....continua....

 

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Livello Fausto Coppi
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  postato il 18/08/2006 alle 21:53
E per finire questo excursus sportivo, caro Ilic, non rimane che il calcio e l’Inter…..

Si dice che siamo una squadra argentina….. ed io aggiungo: “Magari!”



Il calcio quando era poesia e cresceva l’amore verso l’Argentina….. Volando nei ricordi fra Maschio e Racing, fino al recente nerazzurro di Cuper.

Lo ammetto, caro Ilic, sono debole di fronte ai figli della “Pampa”. C’è un retroterra che mi unisce a loro, fin dal lontano 1967. Erano i nostri dodici anni, quando, sull’onda della grande Inter, verso la quale, come sai, simpatizzava la maggioranza dei bambini e noi eravamo fra questi, vidi una squadra argentina giocare un calcio decisamente più armonioso dei più, si chiamava Racing Club, ed era di Avellaneda, un grande quartiere di Buenos Aires.

Humberto Maschio
Quel sodalizio sontuoso, in maglia biancoceleste, mi folgorò: vinse la Coppa Libertadores, indi vendicò la sconfitta dell’Inter per 2-1 col Celtic (nella finale di Coppa dei Campioni), vincendo l’Intercontinentale.
La formazione base era composta da Cejas (un portiere più forte, a mio giudizio, del futuro racinguista Ubaldo Fillol), Martin, Perfumo (giocatore efficace e signorile), Cabai, Basile (quello che poi guidò l’Argentina ai mondiali USA ed è state recentemente incaricato di guidare nuovamente la Selecion), Rulli, Cardenas, Cardoso, Rodriguez, Maschio e Raffo.
La stella, era Humberto Maschio, un vecchietto oriundo italico, uno dei tre “angeli dalla faccia sporca” (gli altri erano il divino Angelillo, che si giocò tutto con le attricette di cinecittà e l’immenso “cabezon” Omar Sivori) venuto in Italia nel 1957, per giocare nel Bologna. Gli “angeli” erano stati i protagonisti della vittoria in Coppa America, avevano annichilito il Brasile e l’ancor forte Uruguay. Maschio era stato il capocannoniere di quella manifestazione, pur non giocando di punta. Un giocatore denso di stimmate, coi piedi catalizzatori di precisione. Il presidente Dall’Ara, quello dell’ultimo scudetto rossoblu, si era svenato per portare in Italia colui che sembrava addirittura l’angelo più fulgido.

Humberto detto “El Bocha”, nella città felsinea imparò le bontà dei tortellini e della pastasciutta, giocando a meraviglia quando la fronte spaziosa si volgeva al sole, molto meno bene quanto il cielo s’oscurava verso quella notte dove lui, all’occhietto verso le ragazze, aggiungeva il fascino-pancetta delle bontà culinarie bolognesi. Maschio, sapeva dove la palla andava messa e, quando voleva, faceva dei gol da antologia, soprattutto mostrava le variabili universitarie di quel tiro, che i pesanti palloni marroni del tempo consentivano. I palati fini della pelota, impararono dal “Bocha”, l’arte di come si calcia di potenza, a foglia secca, a pallonetto, con l’effetto a rientrare. Il suo genio calcistico era fuori discussione, ma erano le ombre del suo carattere particolare a preoccupare. Niente di strano s’intende, ma quella cucina e le sottane stuzzicavano la sua voglia di isolarsi e concentrarsi solo su di loro, comunque un passaggio decisivo a partita te lo garantiva sempre.

Era un artista anche con la lingua, quando non aveva fame, e nel suo palmares sotterraneo, pur essendo un giocatore correttissimo in campo, ci stavano pure certe definizioni che lasciavano il segno. Finì, dopo essere passato all’Atalanta ed aver giocato mostruosamente il campionato ’61-62, come gli altri oriundi, a giocare per la Nazionale italiana i mondiali del 1962 in Cile, in quelli che saranno ricordati a lungo, perché un’Italia probabilmente fortissima e di nuovo ai mondiali dopo tanti anni, incocciò nella rudezza e nella provocazione dei giocatori di casa. Maschio, nella “nefasta” e decisiva partita col Cile, arrivò, nella concitazione dei vari momenti di tensione di quel match ben poco calcistico, a dire ad un cileno, di cui mai s’è capito chi fosse: “Hei tu, se hai i piedi che sembrano delle padelle perché giochi al calcio!?” Quella frase però, non arrivò a chi era diretta, perché Lionel Sanchez la volle per lui e mollò ad Humberto un gancio, tanto forte ed inaspettato, da mandarlo a gambe levate, col naso rotto.
El Bocha arrivò anche all’Inter di Herrera, quando stava diventando “la grande”, ma non giocò molto, perché ai soliti vizietti, aggiunse le sue ficcanti frasi, proprio in direzione del timoniere mezzo connazionale, già HH.
“Ma vai a cagare schizzato, vai a mangiare, o fatti qualche puttana piuttosto!” La reazione dell’allenatore, fu la spinta verso il limbo della squadra per quel geniale “professore”, dai piedi vellutati e dalla pancetta da bancario.
Humberto Maschio finì alla Fiorentina, dove deliziò e segnò pure tanto, ma anche lì, il gusto fiorentino della omonima bistecca, presto lo portò ad una fase d’infatuazione, preludio dell’amore che già provava verso la pastasciutta e i tortellini di bolognese memoria. Ritornò nel 1965 nella sua amata Argentina, la sua vera patria, dove nessuno gli avrebbe fatto osservazioni all’incontro con la pajella e mondializzò il suo genio. Col Racing sembrava un sire, segnava, mandava in rete Cardenas, Raffo, Rodriguez e quel Rambert, papà più decoroso verso il calcio, di quel Sebastian che finì all’Inter, tanti anni dopo, come uno dei tanti oggetti misteriosi. Le maglie biancoazzurre, quasi uguali a quelle della “Selecion”, s’illuminavano ai suoi tocchi. Maschio, correva al trotticchio, ma nessuno poteva contrastarlo, semplicemente perché prima dell’arrivo della gamba di un avversario, lui aveva già inviato il pallone dove voleva. Quella squadra, quel giocatore sì radioso, ripeto, mi folgorarono e da allora il calcio d’Argentina è diventato il mio preferito, una simpatia profonda, quasi una fede.


Negli anni, ho sempre difeso i figli della Pampa come fossi argentino. Il resto, lo tenevano in vita le amicizie anche importanti di quei luoghi, sempre pronte ad illustrarmi il valore del calcio per quella gente: milioni di persone che imparano ad amare questo sport come un segno di vita, tanto nelle gioie, quanto nelle lotte e nei dolori.
E come posso dimenticare quando un avvocato assai famoso, titolare di uno studio dove la principale collaboratrice era Silvia, un’amica, pianse con me via internet, per dirmi che dopo 35 anni, era meraviglioso rivincere un campionato! Già, il loro-nostro Racing era divenuto Campeon 2001 e la partita decisiva contro il Velez Sarsfield,
gliel’avevo raccontata io via chat, mentre loro lavoravano, perché l’Argentina di quei giorni, stava vivendo l’ennesima pagina nera di un corso tragico infinito.
E come posso dimenticare le mail di quei giovani argentini, bravi con la pelota, ma pieni di fame, quando mi trasmettevano la speranza che fossi in grado di poterli aiutare a trovar squadra qua da noi? Ci ho provato sai, ma in Italia, nei tempi di dominio di procuratori in mano moggiana, se non eri figlio della bisaccia d’odor di padrino, con tanto di “cagnotta”, magari in nero, nessuno acquistava anche a zero ed in prova, come proponevo io. E dire, che alcuni di essi, oggi giocano in Spagna, a livelli ben superiori alle squadre da me contattate in Italia.

Bene, arrivando nel vicino dei nostri giorni, non posso dimenticare, da italiano nerazzurro, Hector Cuper. Costui dell’Argentina che soffre, che ha fame, che vive l’umiltà di uno status voluto dal saccheggio nordamericano ed europeo su quel grande continente, è uno stereotipo. Uno che lavora, che ha fatto soldi, ma che non ha mai dimenticato le sue origini, sempre. Uno che ha avuto il coraggio di dire che se non ci sono fuoriclasse, bastano buoni giocatori, l’importante è essere seri. Hector, era cresciuto con Griguol, un grande allenatore, troppo bravo e troppo fuori dalle logiche dei grandi club di quel paese, per fare il tecnico della biancoazzurra per eccellenza. Con Griguol, Cuper, fece grande quel Ferrocarril Oeste che non aveva altro che buoni giocatori pieni di volontà, e lui, il nostro, in campo si sentiva, era un leader, anche dal portamento regale. Non aveva però i piedi per stare, più di quello che è stato, in quella Selecion che difficilmente potrà vincere mondiali, perché, portieri a parte, ha un’infinità di grandi giocatori, ma tutti sparsi per il mondo e tendenzialmente egocentrici per i ruoli ricoperti nei club. Che non vincerà per quel fattore psicologico, che si ingenera in chi è costretto ad essere zingaro intercontinentale e perché, qualsiasi allenatore che la guiderà, dovrà sempre fare i conti con le forbici e gli equilibri di club che sono superiori alle normali rivalità, in quanto espressioni dei ceti sociali e delle contraddizioni della terra madre dell’indimenticabile Che Guevara. Per vincere, l’Argentina, dovrebbe trovare l’involucro illuminato e profondo di un altro Maradona, l’unico giocatore della storia a modificare l’inizio di una partita di calcio: da zero a zero, in uno a zero per le casacche in cui giocava. Attualmente sono 979 gli argentini che giocano in campionati professionisti fuori dal loro Paese. Fra questi, certo ci sono pure dei modesti, ma tanti, anzi troppi, meriterebbero la Selecion. No, nessuna terra al mondo, per numero di giocatori di valore, risultanze, tangibilità, sociologia e popolazione a disposizione, è patria del calcio come l’Argentina. Sono sempre stato d’accordo con Brera: preferirò sempre la biancoceleste, ed in seconda battuta l’Uruguay, al Brasile. L’Italia? Lasciamo perdere…..



Cuper, figlio perfetto di quella terra, mi ha spinto simpateticamente a lui, al suo essere personaggio gentile, denso dell’humus di quella serietà che vorrei patrimonio di questo sport e che, spesso, non lo è. Nell’Inter non ha vinto, ma ci è andato vicino e se ha perso la conquista d’uno scudetto, fra gli altri, lo deve a personaggi-giocatori coccolati da una società nerazzurra spesso esageratamente e stupidamente filantropa. Un sodalizio dove un Recoba, ovvero il 50% di tutti i versanti che fanno un atleta calciatore, non ha imparato niente dall’uomo Cuper. Lo avesse fatto, sarebbe divenuto un giocatore di calcio vero e non una "viziata marionetta". Avrebbe capito, aldilà degli schemi di gioco, l’onestà che deve rimanere alla base di chi fa sport.
Ora mi dirai che la mia è una forma di sindacalismo fideista. E sia!
Non ho la pretesa di nascondere le mie passioni, però è pur vero che il Valencia cuperiano che vidi giocare, nei tempi del calciaccio moderno, era inferiore come qualità di gioco solo all’insuperabile Milan di Sacchi e al Real di qualche anno fa, quando i mostri in “merengues”, avevano voglia di sobbarcarsi la copertura dei buchi e dei difetti di quella squadra. Ma la compattezza e l’armonia di quel Valencia, privo di fuoriclasse, fatta con dei vecchi e dei poco valorizzati, resta una delle pietre fulgide del calcio degli ultimi tre lustri.
E’ vero, Cuper era monotematico, tatticamente a volte ingenuo, ma la più bella partita dell’Inter degli ultimi due lustri, la vedemmo con lui in panchina: a Londra contro l’Arsenal. Oggi, con fighetta Mancini (decisamente meglio come giocatore che come allenatore), nella speranza di vedere la squadra vincente e bella della nostra fanciullezza, vorrei che non si dimenticasse Hector, che gli si riconoscesse l’abnegazione al lavoro, la cordialità, il non lamentarsi mai (specie degli arbitri spesso bari del nostro calcio, ed in questo è stato l’unico allenatore ad essere rimasto immacolato) e l’amore che ha provato e che prova per l’Inter. Non ho mai visto, Simoni a parte, un allenatore così vicino ai nostri colori. Ci ha provato, non ha vinto, ma dobbiamo rendergli atto di serietà ed onestà come nessuno. In un mondo pessimo e delinquenziale come quello del calcio odierno, queste, sono virtù rare, ed io non posso e non voglio dimenticarlo. Da dirigente sportivo ho sempre concepito l’errore, il non riuscire tecnicamente, ma non ho mai tollerato l’abulia dorata. Già, proprio questo ultimo aspetto, non lo voglio più vedere nell’Inter.

Morris

DI NUOVO AUGURONI MITICO ILIC!!! :

 

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  postato il 18/08/2006 alle 22:28
Sinceri e sentiti auguri di buon compleanno, caro Ilic-Janjan!!!

 

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  postato il 21/08/2006 alle 01:53
Caro Ilic buon compleanno,
capisco che a te non sarebbe molto "comodo"
ma visto cosa scatena questo evento vorrei
che se ne celebrasse uno a settimana !!

 

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"Non esistono montagne impossibili, esistono uomini che non sono capaci di salirle", Cesare Maestri

"Non chiederci la parola che mondi possa aprirti, si` qualche storta sillaba e secca come un ramo...
codesto solo oggi possiamo dirti: cio` che non siamo, cio` che non vogliamo.", Eugenio Montale.

 
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