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Autore: Oggetto: Vilhjálmur Einarsson, l'islandese che amava l'aria....

Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




Posts: 4217
Registrato: Oct 2003

  postato il 12/07/2005 alle 00:45
Questo racconto, comprese le solite divagazioni solo apparentemente lontane al tema, nacque una sera d’agosto del 2002, ai margini d’un campo d’atletica, un tempo a me caro. Come sabato scorso, mi trovai in mezzo a dei giovani, alcuni atleti dal fresco passato, qualche invecchiato a respirare sport, ed una montagna di inediti in cerca di spazio nel grande romanzo sportivo. Ad un certo punto mi giunse una telefonata: era un campione del passato, uno che si collocò al confine fra i tempi empirici dell’atletica e quelli più professionali. Un amico, poi divenuto tecnico di pregio, che ho spolpato di domande per anni, per capire, conoscere, approfondire e col quale, al più presto, scriverò un saggio su un confronto, da pazzi o da convegno, su una specifica particolarità di atletica e ciclismo. La sua telefonata di quella sera, in parte circoscritta ad un aspetto tecnico delle piste degli anni cinquanta, mi riportò alla mente Vilhjálmur Einarsson, un triplista breve e significativo di quel periodo. Sotto la luce delle stelle in una serata senza luna, anticipai a voce, a quel gruppo, quello che mi sentivo di scrivere e la notte passò parlando di tutto. Quando Eos aveva levato i suoi chiarori ce ne andammo. Ripresi l’auto, raggiunsi l’ufficio e approfittando dell’emozionalità ancora forte raccontai l’islandese che amava l’aria.


Erano i tempi della “tennisolite”. Le piste lasciavano tracce, piccoli solchi o vere e proprie buche. Idem le pedane. Molti atleti fermavano la loro concentrazione per riparare le loro corsie, o la stessa pedana, prima delle rispettive esibizioni. Era così dappertutto, anche quando la gara era importante, addirittura una Olimpiade. Erano i guai di quel fondo, che spesso faceva ammattire gli atleti delle specialità più tecniche, solo i mezzofondisti potevano stare un poco più tranquilli.
Sto parlando, ovviamente, dei tempi in cui l’atletica leggera, la regina degli sport, fungeva da palestra della conoscenza tecnica dei giornalisti e rappresentava un valido test per quegli allenatori che non operavano direttamente nella disciplina, ma in altre. I fondi in terra rossa, sui quali ancora oggi il tennis gioca pagine autorevoli, di lì appunto la definizione un po’ grossolana di “tennisolite”, erano la “vita” dell’atletica di quei tempi, il tratto sul quale sviluppare sogni, ed impazzire per le proprie testimonianze atletiche e relativi indotti. Certo, derivazioni povere rispetto a quelle di oggi, ma sufficienti per gratificare soprattutto quegli studenti che diventavano idoli dei propri consessi, e divenivano stelle fra i lettori di penne che non hanno paragoni con le “moriture” odierne.
Gli atleti “mordevano le nuvole”, come diceva Gianni Brera, studiavano assieme agli allenatori, essi stessi da considerarsi autodidatti per le scoperte che ogni giorno li accompagnavano. Pensate, che il secondo allenamento quotidiano, per molti fra i migliori del mondo, fece la sua apparizione solo nella seconda metà degli anni cinquanta e rappresentò una rivoluzione, tanto nei contenuti, quanto nelle risultanze. L’atletica era un segno di superiorità. Un grande atleta non giocava a calcio, era difficile che si volesse o potesse permettere la civetteria di un gioco che pure poteva divertire, sempre o quasi sceglieva come epigone naturale la difficoltà del gesto atletico puro, accostato ad una tecnica, specie nei lanci, in grado di comportare scoperte e particolari a getto continuo. Erano degli eroi considerati snob, perché espressione, sovente, di una scolarità che si vedeva come una differenza di classe, o come il gesto di figli di danarosi personaggi di un’economia in crescita, ma erano ugualmente ammirati e seguiti, attorno a quegli anelli in tennisolite, da folle enormi ed impensabili.
Atleti eroi, tecnicamente più goffi di quelli odierni, solo per il fondo citato che non permetteva distensioni lineari senza l’angoscia di un equilibrio instabile, allenamenti e conoscenze meno sofisticate e porcherie varie praticamente inesistenti nelle vene, ma più grandi.
Jesse Owens era meglio di Carl Lewis, lo sanno le pietre ed i sassi, non lo sanno quegli uomini persi nella droga della comunicazione fasulla dell’odierno. Glenn Davis, addirittura, s’immolava in una grandezza anche superiore a Jesse, ed era bianco, ma nato con stimmate uniche: un fenomeno di cui parlerò cercando di non scendere nell’emozione dell’ammirazione e nel ricordo scolpito e tracciato dagli artisti-atleti suoi avversari o contemporanei, mentre insistentemente chiedevo loro di raccontare. Erano sublimi ricercatori dei confini della mente proiettata sul fisico, quando attorno a loro c’erano ancora le povertà di mezzi apparentemente non distanti da quelli di oggi, ma in realtà lontani un abisso. Erano, perché di quello sport che mi entrò nelle vene inconsciamente per linea cromosomica, in quanto nato dopo quei tempi empirici e metafisici, oggi esistono le stonate tracce di un odierno che ha preteso, su tutti i contesti umani, di trasformare l’incenso, nel fittizio dell’affare e di quel danaro segno incancellabile ed eterno della stupidità umana.
Ecco perché fa bene ricordare e raccontare, è come bersi un bicchier d’acqua a piccoli ed importanti sorsi, dopo giorni di calura ai margini del deserto. E’ come sognare un corso diverso della nostra ellisse, senza le criminali banche e gli altrettanti ed inconsci criminali poveracci ed infernali, che predicano quotazioni in borsa e puzzolente politica. E’ come riscoprire quel Dio che non ho mai pregato, dopo che è stato ucciso miliardi di volte ogni giorno, dall’opportunismo dettato da quei bigliettoni che, da diavoli, si sono trasformati nel vero dio.
C’entra poco con lo sport? C’entra, c’entra, è la cultura, signori! E’ lo stile di un’antropologia che lega e legge la nostra quotidianità, è gnoseologia applicata, ma non lo si può dire quando fai una conferenza, perché ci son sempre gli imbecilli fattorini, tanto ignavi quanto beceri, di quei politici che sono i più stupidi di tutti. Puoi scriverlo, passando per intellettuale stonato alla normalizzazione dell’ipocrisia, ma non dirlo alle platee, altrimenti anche i modesti tuoi ex compagni di percorso, si sentirebbero confusi dall’urto del loro essere poco veri e, da bravi bambini viziati, si vendicherebbero.
E’ quella cultura sportiva che non c’è più, uccisa sul nascere della sua seconda generazione perché non serve al business e alle sue derivazioni, a quell’orco infantile, riflesso e non immaginario, vissuto e venduto come progresso, sia nelle concezioni tecniche e sia nelle sue elevazioni umane. Quindi, si fanno andare avanti solo le conoscenze (???) dei fatti e delle gesta artistico-sportive, funzionali al tentacolare volere dei burattinai che si elevano, non per intelligenza, sulle nostre teste. Che tragedie si consumano, anche in questo frangente dell’apparente normalità del quotidiano!
Ora però basta. Non posso continuare ad arrabbiarmi con connotati enormi, ne va delle mie coronarie di uomo vecchietto, ed è meglio ritornare all’incenso, a quello sport sublime accennato sopra. E’ ora di riprendere il punto dal quale sono partito, a quella tennisolite che tanto spingeva gli atleti del tempo a delle opere d’arte suppletive.

Vilhjálmur Einarsson

Nell’atletica leggera, il salto triplo era, fra i salti, quello più penalizzato da quel tipo di fondo. Le buche ed i solchi accennati si disponevano facili all’incontro coi diversi piedi degli atleti, aumentando nei medesimi punti l’instabilità del fondo e la reattività del salto, nonché la possibilità di infortuni. Mai, come nella tennisolite, il detto di “accarezzare la pedana”, si dimostrava veritiero e opportuno. L’atleta era chiamato al primo stacco con la maggior potenza possibile e poi doveva sospendersi in volo, lasciando ai due appoggi seguenti, solo il segno del tratto, ed una lievissima e redditizia spinta. Si doveva radere la pedana, consapevoli che una maggior trasmissione di forza sul primo e secondo appoggio, poteva ottenere effetti opposti ai desiderati. Un atleta dotato di una grande velocità di base, era favorito sulla “terra rossa”, in maniera ancor più evidente rispetto a chi ha potuto saltare sul tartan o sul plastan, in quanto, nell’economia del triplo, un primo salto più lungo, diminuiva l’impatto non facile degli appoggi intermedi. Certo, la tecnica radente e la capacità di non perdere velocità e coordinazione nel posare il piede sulla pedana, nonché rilanciarsi in aria, poteva consentire un recupero anche enorme, su quello che non era stato dato dalla spinta della velocità di base.
In questo contesto, un uomo venuto sconosciuto e misterioso da una terra freddissima, si dimostrò un maestro in grado di essere letto come un esempio di tecnica sopraffina. L’occasione di conoscerlo, nello stupore generale di un osservatorio allora tanto attento, quanto animato dalla volontà di imparare, si concretizzò d’improvviso, proprio nella massima occasione, l’Olimpiade. E fu così che sotto la Fiaccola Olimpica di Melbourne, l’iscritto al triplo più impronunciabile per nome, arrivato dalla sconosciutissima Islanda, diede a tutti sensazioni incancellabili: Vilhjálmur Einarsson
I suoi salti radenti, accarezzarono la pedana dello stadio olimpico come fossero espressione di una farfalla, fino a scolpire la sua testa biondissima, sullo sfondo dei cinque cerchi e dell’immaginario di un pubblico ammirato ed entusiasta. Tutti guardavano quel nome stampato sui comunicati della manifestazione, provando ad enunciarlo e, probabilmente, storpiandolo come i primi approcci ad uno scioglilingua. Intanto lui saltava, ridonando emozioni e senso di leggerezza agli osservatori, quanto preoccupazioni miste ad ammirazione agli avversari.
Di lui non si sapeva nulla, gli stessi atleti non lo conoscevano: solo quel nome impronunciabile e quello stile tanto bello quanto redditizio. Vilhjálmur Einarsson non poteva saltare che così, la natura non gli aveva donato una velocità di base sufficiente per arrivare a spiccare un primo volo pronto a bucare l’aria. Lui, con quest’ultima, si doveva confondere cercando di intenerirla, perché lo tenesse il più possibile avvolto nel suo fazzoletto invisibile, ma presente. Erano quegli attimi di tenerezza e di affetto a fargli allungare la caduta finale e decisiva. Uno spettacolo denso dell’io profondo che accomuna l’atleta, la sua mente e il contesto del gesto, un atto d’amore senza far bestemmiare chi, di questa parola, conosce solo un significato; un’espressione di gratitudine come quella di una foglia che trova nell’aria, la protettrice ovatta che attenua la sua caduta sul terreno.
Einarsson, era grandissimo perché era questo, senza saperlo, vivendo nell’inconscio, l’istinto che divide il vero e grande, dal costruito. Vilhjálmur finì per far tremare le gambe del grande brasiliano Ademar Ferriera Da Silva, primatista del mondo, campione olimpico di Helsinki e mostro sacro dell’atletica del tempo. Un uomo che si presentava atleta più dotato di spinta e velocità, poi finito a fare l’artista anche cinematografico.
Vinse il carioca, ma fu una battaglia di puri gesti tecnici. La differenza, di soli nove centimetri, la fece quella natura che aveva dotato il brasiliano di un fisico tanto più potente di quell’uomo sconosciuto, venuto dal freddo di un piccolissimo e dimenticato paese che si credeva solo denso di ghiacci.
Vilhjálmur Einarsson era una realtà incancellabile, aldilà della medaglia d’argento conquistata. Era l’esempio di come lo stile e le facoltà nate per necessità istintiva, potessero dipingersi sulla tela immaginaria di un gesto. Un quadro, che avrebbe meritato al pari di una reale pittura, il museo de l’Houvre. Vilhjálmur era l’amante di quell’aria che se lo teneva fra le braccia spingendolo dove i muscoli non sarebbero mai arrivati. La conquista della medaglia d’argento, mosse subito i giornalisti curiosi di sapere, di conoscerlo, di capire. Il cronista de l’Equipe, si fece capo di cercare un interprete islandese. Ma chi mai avrebbe potuto sapere l’islandese, un paese così piccolo e sconosciuto? La ricerca fu ben presto vana, anche perché in quei momenti, i secondi sono ore, ed è tale l’impeto di tutti coloro che debbon raccontare, che ogni gesto o sillaba fa notizia particolare. Giorgio Oberweger, nel ruolo di giornalista-tecnico, indimenticabile ed illuminato, dopo esser stato un grandissimo atleta capace di giungere al bronzo olimpico nel disco a Berlino, urlò ad un collega tedesco, di provare a parlare con Einarsson in inglese. Fu un altro choc! Una dozzina di giornalisti, con tanto di taccuini accompagnati dai flash dei fotografi, si trovarono di fronte ad un atleta che conosceva l’inglese, assai meglio di loro. Certo, perché Vilhjálmur, quella lingua l’aveva studiata ed imparata alla perfezione al Dartmouth College, nel New Hampshire, dove si era diplomato.

Jozef Schmidt
All’indomani della prima Olimpiade australiana, l’Islanda poté accogliere legittimamente quel suo figlio come un eroe, ma il ragazzone non si montò la testa e continuò ad amare l’aria, fino a disegnar sull’orizzonte la traccia delle pedane.
Nel 1958, dopo aver ospitato i Mondiali di calcio, la Svezia organizzò gli Europei di atletica leggera. Fu un’edizione molto sentita, perché il confronto fra i due sport, rappresentò per gli svedesi un’occasione per legarsi ancora alla regina atletica, nonostante sul campo verde fosse nata la stella di Pelè.
“La gente – mi raccontò l’amico, ex grande ostacolista, Germano Gimelli - soprattutto le ragazze, impazzivano per i nostri autografi, ci guardavano con occhi particolari. Eravamo degli idoli, prima ancora che dei giovani da amare in altro senso. Nello stadio, soprattutto nel campo di allenamento e rifinitura, sentivi la loro competente partecipazione. Ciononostante, ti trasmettevano quel calore che per uno come me, solo ventiduenne, era considerato impossibile in un paese nordico. Forse, anche per quello, non fui all’altezza delle mie grandi prestazioni di quell’anno!”
Bene, in quel clima così particolare, Vilhjálmur Einarsson, non più sconosciuto, ma divenuto evidente riferimento, portò i suoi capelli biondi, nell’amato triplo, ad una significativa medaglia di bronzo, proprio nella gara che rese notorietà internazionale, a quello che, per me, è il secondo più grande triplista della storia, il polacco Jozef Schmidt. Se Melbourne, poteva rappresentare l’eccezione di una sorpresa, o di una giornata di grazia, Stoccolma, elesse definitivamente Vilhjálmur, fra i grandi triplisti del mondo, ben aldilà del suo stile inconfondibile.

Einarsson oggi
Alle Olimpiadi di Roma nel 1960, dopo aver portato ai campionati islandesi di Reykjavick, il suo limite alla fantastica misura di 16,70 (era la terza assoluta, ed uguagliava il mondiale dell’anno prima), finì quinto con 16,33, ma ormai il fenomenale polacco dominava i palcoscenici europei e mondiali.
All’indomani dell’Olimpiade, Vilhjálmur Einarsson, a soli 26 anni, si ritirò. Non poteva avere la totale assistenza dei suoi colleghi dei paesi comunisti, o quei già presenti soldi, nonché le “particolari borse di studio” delle federazioni o delle università dei paesi occidentali evoluti. Iniziò così la sua attività professionale nel campo delle scienze, ma nessuno, di quelli che l’han visto saltare, potrà dimenticare il suo stile radente che si confondeva con l’aria, cercando l’amore di questa, per tenerlo in sospensione. Un grande.

Morris

 

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"Non discutere con gli stupidi, perchè scenderesti al loro livello e ti batterebbero per la loro esperienza".

 
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