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Autore: Oggetto: Harry Hopman: il coach

Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




Posts: 4217
Registrato: Oct 2003

  postato il 15/05/2005 alle 23:26
Dopo aver scritto, sperando di non scocciare nessuno, di atletica, boxe, pattinaggio artistico, automobilismo, slittino, bob, sci alpino, sci di fondo, stavolta plano su una disciplina un tempo a me cara…..
Il tennis è stato uno sport che ho seguito tantissimo in passato, quando era umano e le racchette erano di legno (con quelle il tocco era esaltato, mentre oggi servono……… gli ormoni della forza e l’ossigeno che ci si immagina….)…
Il personaggio che ho scelto è straordinario, per me uno dei più grandi allenatori della storia intera dello sport: Harry Hopman.


Il seguente post, è tratto da "Le grida del tennis" libro corposissimo che sto scrivendo a mo' di monografie sui campioni e sui principali tornei. Per questo l'inizio può apparirvi un po' strano………….

Fino ad ora parlando dei grandi campioni di questo meraviglioso sport, mi sono soffermato su atleti europei o americani, solo di scorcio ho avuto occasione di menzionare tennisti australiani. La storia del tennis però, sta in grande parte laggiù, in quel continente così lontano e per questo ancor più affascinante. Si apre qui un capitolo, ove l'Australia è l'indiscussa protagonista, per le gesta di campioni leggendari ed inimitabili, per qualità e numero. Pensare al fenomeno svedese, di quasi vent’anni fa, come un esempio simile a quello australiano, é un assurdo. Nessuno, penso, potrà riuscire a dominare per lustri interi con sette-otto giocatori, come hanno fatto i "canguri". Ed é perlomeno sbagliato pensare che simili vittorie, possano considerarsi meno valide di quelle di oggi, solo perché non si viveva nell'era open. Se pensiamo che il tennis australiano dominava la scena dilettantistica quanto quella professionistica, é matematico
credere che lo stesso dominio si sarebbe consumato anche con un'era open anticipata.
Dopo Pancho Gonzales e prima di Biorn Borg e Jimmy Connors, ci stanno soprattutto tennisti australiani, forgiati da quella che poi diverrà una vera scuola di tennis e di vita, che aveva in Harry Hopman l'indiscusso animatore. Mi pare logico ed indispensabile aprire alla rassegna sui campioni, un capitolo solo per questo allenatore (forse è troppo riduttivo definirlo così), il più grande di tutti, ma va detto che le pagine di questo sport si leggono meglio attraverso le racchette degli atleti.
Tanto più se consideriamo il tennis, con la visione degli appassionati di oggi dove ogni campione esibisce un coach diverso e perlomeno titolato. Nessuno però, é Harry Hopman, e nessuno nella storia del tennis può esibire titoli perlomeno vicini ai suoi. Fu grande e unico, per questo merita di stare fra i campioni, con gli stessi attributi.


HARRY HOPMAN, IL PIU’ GRANDE
Nato a Sydney nel 1906, Hopman era stato un giocatore discreto, forte
soprattutto in doppio, dove seppe conquistare sei titoli Australiani, due nel doppio maschile e quattro nel misto assieme a sua moglie Nell Hall Hopman (morta nel 1968). In singolare fu finalista nel 1930-31-32 agli Internazionali del suo paese, fermato la prima volta da Gar Moon e le altre due da Jack Crawford, un tennista, quest'ultimo, che abbiamo già menzionato e che era famoso perché colpiva la palla di dritto, sia con l'una che con l'altra mano. Aldilà di questi risultati non certo di grandissimo spessore, il palmares di Hopman giocatore, diviene più degno grazie ai quarti di finale raggiunti sia al Roland Garros che a Forest Hills e dall'essere stato un giocatore di Coppa Davis. Una carriera, insomma, non certo con i connotati del campione di prima
grandezza. Ma quello che non riusciva a lui, fu capace di trasmetterlo agli altri. Già da giocatore si era fatto notare per personalità ed intuizione, due ingredienti precipui ed indispensabili per un bravo "coach".

Norman Bookes, presidente della Federazione australiana, fiutando quelle capacità, diede così, nel 1938, ad Harry Hopman l'incarico di capitano giocatore in Coppa Davis. La scelta si dimostrò subito eccellente, poiché nel Challenge Round di quell'anno a Filadelfia, l'Australia, diede filo da torcere agli USA uscendo sconfitta per 3-2, guadagnandosi però, l'onore della critica. Ma non era finita lì, perché l'anno seguente, i "canguri", violarono la terra americana riportandosi l'insalatiera d'argento in Oceania. Era l'ultima Coppa Davis prima dell'immane conflitto mondiale.
A guerra finita, gli australiani, non più guidati da Hopman, subirono l'onta di ben quattro sconfitte consecutive in altrettanti Challenge Round, ad opera dei tradizionali rivali statunitensi. Brookes e collaboratori, decisero così di affidare ad Harry Hopman, non solo il ruolo di capitano non giocatore di Davis, ma quello, ben più importante, di organizzatore assoluto del tennis australiano. Fu l'inizio di un'era.
Qualche dato.
Dal 1950 al 1968, su diciannove edizioni di Davis, l'Australia ne vinse quindici! I suoi giocatori, fra il '50 e il 1975, si aggiudicarono 61 titoli in singolare e 70 in doppio in tornei del Grande Slam! In sintesi: 15 singolari a Wimbledon, 15 a Forest Hills, 10 Roland Garros, 21 titoli Australiani. In doppio: 18 Wimbledon, 14 Forest Hills, 16 Roland Garros e 22 Australiani! Una vera pioggia, praticamente un dominio.
In quel periodo, quando si parlava di tennis, anche il più profano pensava all'Australia. La scuola di Hopman, ha dunque sfornato un numero incredibile di campioni, alcuni dei quali scoperti dal grande maestro negli angoli più sparuti del continente australiano. Giocatori che hanno deliziato i campi di tutto il mondo per classe tennistica e signorilità. Per citare solo i più grandi: Frank Sedgman, Ken Mc Gregor, Ken Rosewall, Lew Hoad, Mal Anderson, Aschley Cooper, Neale Fraser, Mervyn Rose, Rex Hartwig, Rod Laver, Roy Emerson, Fred Stolle, Tony Roche e John Newcombe, ovvero la più bella generazione tennistica che la storia di questo sport possa vantare.

Harry Hopman, coi leggendari gemelli Lewis Hoad (alla sua dx) e Ken Rosewall (a sx)

Praticamente tutti i giocatori citati, saranno ripresi in maniera approfondita in
questa rassegna e, più o meno tutti, devono la gran parte delle loro fortune con la racchetta, a quel longilineo maestro che li ha forgiati e costruiti con amore paterno, quasi intendendo il suo ruolo come una "missione".
Hopman figlio di un insegnante, aveva probabilmente attinto da lui una particolare predilezione verso l'educazione e la disciplina. Le testimonianze di chi lo ha conosciuto e degli stessi giocatori, mantengono con costanza dichiarazioni in tal senso. Ma chi era in fondo questo grande personaggio?
Fred Stolle, in occasione della cerimonia funebre del grande maestro, ebbe a dire: "Hopman ci trattava come dei ragazzoni. Aveva sempre nutrito una grande passione per i bambini e non avendone, aveva riversato tutto il suo affetto su di noi.....la sua famiglia. La preparazione iniziava già due mesi e mezzo prima dell'incontro di Coppa Davis, per toccare l'apice nelle ultime due settimane, quando tutta la squadra veniva riunita in un Hotel e bisognava lasciare a casa mogli e fidanzate per vivere la vita del gruppo. Ciò voleva dire tre pasti al giorno in compagnia dei soliti otto amici, fra cui Harry, il quale aveva così modo di tessere la sua magica rete, con la quale ci avviluppava, trasmettendoci quei valori che ognuno di noi, tuttora, conserva come una parte fondamentale del suo carattere. Tutti abbiamo avuto degli scontri con lui, ma Hopman ha sempre goduto del nostro rispetto. Eravamo la sua squadra e per lui, fino all'ultimo, siamo rimasti i suoi ragazzi".
Ecco, "i suoi ragazzi", era il massimo comun denominatore del suo lavoro e tutto ciò si vedeva, tangibilmente, quando questi scendevano in campo: grandi lottatori, ma gentili e corretti, implacabili con gli avversari, senza collera per una decisione sbagliata del giudice, prontissimi a dare al pubblico il meglio delle loro possibilità.
Ricordo John Newcombe in particolare, ma anche Rod Laver e Ken Rosewall che sono i giocatori targati Hopman che più ho avuto occasione di vedere giocare, vincere o perdere degli incontri senza modificare le fisionomie del volto e degli atteggiamenti. Sembravano sempre vincenti anche quando perdevano. Da veri gentlemen favorivano simpatia immediata e difficilmente si trovavano il pubblico contro.
Un episodio mi é rimasto impresso. Era il 1972, ed a Roma si giocava la finale del Campionato WCT. Newcombe, numero uno del tabellone, incontrava nel primo quarto di finale Bob Lutz, un americano di buon talento e forte doppista, ma sicuramente tutto fuorché un super. La differenza fra i valori in campo era evidente, tale era la maggior classe dell'australiano, eppure, per tutto il match, la signorilità e la gentilezza di quell’aussie che sembrava un armadio vista la mole, parvero addirittura eccessive. Avevo la sensazione che Newcombe volesse perdere quell'incontro, tale fu la sua correttezza: cambiò a suo sfavore alcune decisioni dei giudici, sorrideva, si complimentava per i colpi dell'avversario ecc. Finì per perdere realmente la partita e per giorni e mesi, pensai ad un incontro truccato, poi la maggior esperienza, la visione di altri incontri aventi protagonista sempre lo stesso giocatore e le letture su Harry Hopman, mi fecero capire che quello era il vero Newcombe e che quella sconfitta fu reale. Era indubbiamente uno spaccato fedele del giocatore "made in Hopman". Non non lo dimenticherò mai.



"Hop" come veniva chiamato dai più, seguiva una filosofia particolare che vedeva la sua opera non come un costruttore a mo' di catena di montaggio dei suoi campioni, anzi, prediligeva un lavoro atto a superare le difficoltà tecniche e psicologiche dei suoi giocatori. Non voleva, insomma, snaturare il loro gioco, le loro tendenze, ma solo migliorarne la qualità. Il contrario dell'odierno orrido Nick Bollettieri, per intenderci. Lo stesso Harry, ebbe a dire più volte con chi lo definiva una specie di "fabbrica" o maestro dei maestri. Famosa fu una sua intervista rilasciata nel 1975, dove diceva: "Non condivido chi mi definisce il maestro dei maestri. Non approvo ciò che fanno la maggior parte degli altri istruttori. Non esiste un metodo unico per il tennis. Non sarebbe possibile insegnare ad un giovane Ashe, con lo stesso metodo usato per il giovane Ken Rosewall, o per un altro Jimmi Connors". Ancora su questo tema in un'intervista datata 1971: "Non esistono formule ne standard nei quali costringere un ragazzo. Inoltre non mi piace tiranneggiare le persone, né comodarle. Per ottenere i risultati necessari per formare un campione, bisogna organizzarsi. Sono sempre stato risoluto, ma non ho mai trattato i ragazzi nello stesso modo. Non avrei ottenuto nulla. E' questo uno degli elementi meno capiti del mio metodo. Molti giornalisti hanno parlato di catena di montaggio a proposito del tipo di preparazione da me impartito ai ragazzi, con frasi tipo questa: “In piedi alle 5 del mattino, costretti a correre per chilometri prima che Hopman consenta loro di far colazione!” Ricordo stupidaggini come queste, pubblicate su molti giornali e noi…. che morivamo dal ridere nel leggerle."
Al di là di queste dichiarazioni, una cosa comunque era certa, tutti i suoi giocatori lavoravano duro, ed erano governati da una ferrea disciplina. Nulla era lasciato al caso, tanto più la preparazione atletica, vero e proprio pallino di Hopman. I suoi ragazzi, in seguito, ebbero modo di dichiarare particolari interessanti delle giornate di allenamento col "grande Hop" e sono venuti così alla luce storie incredibili, circa le peculiarità di questo grande coach. Un esempio ci viene da quella che era la sua straordinaria ubiquità. Se qualche suo giocatore provava a fare il furbo, ed anziché fare i soliti otto-nove chilometri di footing, si fermava prima, per poi ritornare dopo il giusto tempo inzuppato di acqua, cercando di mimare la fatica, le sue probabilità di successo erano veramente minime. Il novanta per cento delle volte lo aveva visto e lo rimandava nei viali a rifare footing, fino al raggiungimento della reale distanza posta in tabella. Dice Fred Stolle: "Eri sempre sul chi va là, perché sapevi che da un momento all'altro sarebbe spuntato da qualche parte, da dietro un albero, una tribuna, o l'angolo di un corridoio e comunque non riuscivi a vederlo che all'ultimo istante. Nemmeno Oven Davidson, capace di distinguere un volto fra diecimila persone in tre minuti, era in grado di spuntarla. Hop, invece vedeva tutto... soprattutto ciò che facevi e che non avresti dovuto fare".
Oltre alla preparazione fisica perfetta, questo grande coach, esigeva dai suoi giocatori la convinzione delle loro possibilità, poiché era convinto che la classe e la forza atletica, da sole, non fossero sufficienti per vincere incontri importanti. La consapevolezza della propria abilità e la capacità della scelta tattica giusta in un match, erano per il grande Hop importanti e decisive per diventare super e lasciare una traccia in questo sport.
"Durante gli allenamenti - ricorda Mal Anderson - chiedeva il massimo,
sottoponendoci ad uno sforzo fisico superiore a quello di un normale match. Questo faceva si che ognuno di noi affrontasse gli incontri con la sicurezza di fondo, derivante dall'aver superato prove ben più impegnative in allenamento. Inoltre ti aiutava in continuazione stimolandoti ed incoraggiandoti con frasi come: 'Stai lavorando molto bene, con quei colpi stenderai l'avversario senza problemi.’ A poco a poco ti convincevi veramente di essere in gamba e di poter vincere. La sua era un'attenzione continua e totale, intesa ad infondere sicurezza psicologica in tutti noi". Harry Hopman, dunque, sapeva dar fondo alle facoltà dei giocatori, ma nel contempo metteva se stesso nelle condizioni di parità, non mancano gli esempi di disponibilità nell'esecuzione degli esercizi ginnici, nella preparazione dei colpi, nel regime di vita, insomma lavorava anche lui con la stessa intensità dei suoi campioni. Acuto ed esigente, inviava i suoi fidi osservatori in giro per il vasto paese alla ricerca di soggetti interessanti, quando ad intervenire e viaggiare non era lui stesso. Nel contempo, allontanava, o non schierava quei giocatori che non stavano alle sue regole, o non si dimostravano all'altezza di reggere confronti impegnativi come quelli di Davis. Un giocatore come Mervyn Rose, ad esempio, potenziale titolare in qualsiasi altra squadra del mondo, partecipò poco ai Challenge Round, perchè era troppo polemico, amante della birra, delle sigarette e delle donne, per integrarsi col carattere ferreo di Hopman. Rose, si badi, era un talento cristallino e dal braccio sinistro virtuoso, ma questi suoi "vizi", ne limitavano il rendimento quando il match si faceva lungo e stressante. Ed infatti, se guardiamo la sua carriera, scopriamo tante sconfitte in cinque set, quindi, le scelte di Hopman, hanno avuto fondi di logica e razionalità. Questo giocatore poi ebbe modo di farsi valere come istruttore e costruttore di tennisti, fu tra l'altro l'indubbio creatore tennistico di una delle più grandi campionesse della storia: Billie Jean Moffit King.
Non solo Rose però, può considerarsi l'esempio emblematico delle capacità di scelta e di visione di prospettiva di Hopman, si potrebbero tranquillamente fare altri nomi. Ad esempio Bob Mark, Martin Mulligan, Ken Fletcher e Bob Hewitt, tutti giocatori che, seppur regolarmente convocati ed allenati dal grande maestro, non hanno mai goduto fiducia in Davis. Guardando le loro carriere scopriamo che le decisioni di Hopman avevano giuste fondamenta.
Bob Mark, fu per due anni consecutivi il miglior junior australiano, aveva classe e potenza da vendere, ma un caratteraccio che lo limitava. Era superiore a Laver nei primi tempi e qualcuno lo vedeva come una futura "star", non Hopman che gli antepose il rosso mancino. La scelta fu opportuna, perché negli allenamenti e nei tornei l’assoluta mancanza di volontà di Mark, prese il sopravvento sulla tecnica, limitandone la carriera a pochi tangibili risultati. Il contrario di Laver, insomma. Martin Mulligan, Bob Hewitt e Ken Fletcher erano ottimi giocatori, ma tutti limitati sul piano caratteriale, in maniera sensibile il secondo, meno gli altri due, ma tutti e tre inadatti al clima di un contesto così pesante come quello di Davis. Mulligan, arrivò alla finale di Wimbledon contro Laver nel 1962, ma in quella sede fu talmente fiaccato dall'emozione, da farsi battere senza nemmeno provare a lottare. E dire che il nel suo cammino, prima della finalissima, era stato facile e trionfante. Quella partita, a mio giudizio, ha tolto gli eventuali ultimi dubbi sulla tenuta nervosa di Mulligan, all'occhio sensibile di Hopman. In seguito, lo stesso giocatore ebbe modo di dimostrare, anche quando giocò per l'Italia in Davis, quel suo difetto. Ken Fletcher e Bob Hewitt, quello che non riuscirono a dimostrare in singolare, lo recuperarono in doppio, soprattutto quando, assieme a Mulligan, ripudiati in patria, cercarono fortuna all'estero. Bob Hewitt, sposatosi con una sudafricana, diventò cittadino di quel paese e con Frew Mc Millen, costituì uno dei più grandi doppi del dopoguerra. Ken Fletcher, domiciliatosi prima ad Hong Kong, poi in Inghilterra fece incetta di “misti” con Margaret Court Smith e vinse anche in doppio specie con Newcombe. Per tutti e tre questi campioni, si può parlare di onorata e decorosissima carriera, ma chi fu preferito a loro da Hopman, era ben altra cosa, perlomeno in singolare.
Hop, in definitiva accostava, come pochi nel mondo dello sport, l'esigenza di prendere il meglio per un risultato immediato, alla prospettiva e all'investimento per l'avvenire. Forse, per questo, lo si distingue da altri coach, nel contempo pare unico come organizzatore di movimento e scuola tennistica. Ovviamente aveva i suoi difetti. A detta di Fraser (colui che più di ogni altro seppe vincere, dopo Hopman, nel ruolo di capitano non giocatore di Davis), era eccessivamente severo nel reprimere abitudini, da lui considerate nocive o poco adatte a convivere con un atleta. Oppure, il non voler lasciare ai suoi giocatori, il contatto o il dialogo coi giornalisti. Era questo un altro dei suoi pallini. Hop, pensava che i giornalisti fossero un fattore di notevole disturbo alla concentrazione dei giocatori, oltre che elemento di destabilizzazione nella ricerca costante di miglioramento del gioco.
Poco incline alla mediazione, amava vivere, perlomeno fino a quando non emigrò negli Stati Uniti, all'interno di una visione manichea delle cose, il bene da una parte il male dall'altra. I suoi atleti si mostrarono delusi, ad esempio, dalle sue dichiarazioni quando passarono al professionismo: li definiva finiti o adatti ormai solo per il "circo" del tennis professionistico. In quelle affermazioni, ci stava tutta la sua visione del mondo e del tennis, ma anche la preoccupazione di veder depauperato, o distrutto, il suo lavoro di produttore di grandi campioni.
In seguito, già emigrato negli USA, ebbe modo di dimostrare di aver cambiato atteggiamento e lo fece in maniera anche clamorosa. Entrò negli ingranaggi del tennis dell'era "Open" nel 1970, dopo venti anni di incredibili successi, guadagnandosi da vivere come istruttore e riuscendo a distinguersi ancora, nonostante la non certo verde età.

Negli Stati Uniti, contribuì non poco alla finalizzazione dei programmi di training della Port Washington Tennis Accademy di Long Island e, successivamente, creò la Harry Hopman's International Tennis di Bardimoor, in Florida. Ebbe modo di aiutare il decollo di atleti giovani, ma pieni di talento come Vitas Gerulaitis e, soprattutto, John Mc Enroe che, mi si permetta, assieme ad Edberg e Sampras, rappresenta il terzetto che può ambire a confronti coi grandi "aussie" forgiati da Hopman. Gli unici, in grado di essere paragonati alle leggende australiane come classe tennistica e gioco. Non certo come signorilità e gentilezza, nel caso di SuperMac, ovviamente. Significativa un'affermazione di Mc Enroe su Hopman: "Mi piaceva come persona, lo trovavo divertente, ed era ciò che lui pensava di me. Non ha mai cercato di cambiarmi, mi accettava per quello che ero. Non posso dire cos'é che m'ha insegnato, ma certamente qualcosa mi ha dato. Era un uomo molto costruttivo che riusciva a comunicarmi vibrazioni positive". Oltre a questi giocatori, Hopman, ha seguito negli ultimi suoi anni di vita, altri atleti di fama, compreso l'equadoregno Andres Gomez e Ramesh Krisnan, figlio del campione indiano Ramanathan, un tennista elegante e classico, tanto bello da vedere quanto non dotato della cattiveria necessaria per vincere i grandi match. Ramesh, pochi lo ricorderanno, è stato uno dei tennisti più gradevoli del circuito professionistico negli anni ottanta, ma come il padre, così carente in grinta, da rendere vani persino gli sforzi del grande coach australiano.
Harry Hopman, colui che giustamente é stato definito il maestro più grande di tutti i tempi, morì il 27 dicembre 1985, colpito da attacco cardiaco proprio mentre stava, come suo solito, lavorando duramente sul campo, aveva settantanove anni. Per ricordarlo, concedetemi di considerare questa dichiarazione, come l'epitaffio più bello per questo grande e leggendario personaggio. Le parole sono di Ramanathan Krisnan: " Hopman era un maestro severo ed inflessibile, ma doveva esserlo, perché questo sport è terribilmente competitivo e non ammette cedimenti. Personalmente l'ho sempre considerato un uomo estremamente buono e sensibile, che sotto la scorza del duro, nascondeva un cuore grande così. Ha aiutato moltissimi ragazzi di ogni parte del mondo. Trattava Ramesh come un figlio. Ho pianto quando ho saputo della sua morte e così mio figlio".

Morris

 

[Modificato il 16/05/2005 alle 00:03 by Morris]

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"Non discutere con gli stupidi, perchè scenderesti al loro livello e ti batterebbero per la loro esperienza".

 
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Livello Fausto Coppi




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Registrato: Apr 2005

  postato il 16/05/2005 alle 00:12
la leggenda degli "Aussie"...strepitosa veramente.
Se penso all'Italia, non ci sono assolutamente paragoni. La "piccola" Australia è la patria del tennis....Laver, rosewall, Hoad..tutti in gara per essere cionsiderati i migliori di sempre.
Ah...con racchette di legno.
Vincendo su erba e terra....
Altri tempi Morris!

 

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pedala che fa bene.....

 
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Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




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Registrato: Oct 2003

  postato il 16/05/2005 alle 00:46
Caro Jan, per continuare nel sogno di tempi che non ci son più e per finire questa parentesi sul tennis, aggiungo una parte del ritratto sul campione di questo sport che mi è più caro, Ken Rosewall.
La conclusione……sarà tronca, per motivi che ci si può immaginare......


KEN, GRAZIE PER AVER SCELTO IL PIANETA TERRA.
Caro Ken, è difficile, anche per un romantico senza fine come me, spiegare cosa sei stato per il tennis e per chi ha avuto la fortuna di vederti dipingere l’interno di quella cornice che, nel linguaggio corrente, chiamiamo campo. E’ pressoché impossibile narrare le tue gesta, senza scomodare la corposità di un libro, che avrebbe sempre il difetto di essere troppo superficiale, su alcuni momenti importanti della tua carriera senza fine. Per anni ho rivisitato le pagine del tuo sport, dovevo fare una graduatoria fra i più grandi di tutti i tempi, ed in qualche modo ti dovevo collocare fra i primissimi posti: me lo chiedeva l’obiettività, dimenticando il cuore. Poi, a distanza di tanto tempo, ho rivisitato altro materiale e riproposto altri confronti, giungendo ad una conclusione: caro Ken, tu quasi dividi con Rod Laver, la palma di “più grande” di tutti i tempi, ed anche se hai un curriculum dilettantistico e open inferiore, c’è tanto in te, da farti praticamente pareggiare. Ci sono molti motivi che mi spingono a quest’affermazione, soprattutto quella conoscenza interna, psicologica e fisica dell’atleta, che prima non conoscevo così bene. C’è, ed è finalmente precipua, quella base che mi proietta a guardare l’arte sportiva non da solo da scrittore romantico, ma pure con quel condensato che, in altri campi, è possesso del critico. Oggi, con la conoscenza acquisita, aggiungo alla visione della tua classe, il volante per comprendere meglio la tua lunga striscia agonistica, i miracoli distribuiti da quel tuo fisico apparentemente modesto o normale, quei colpi giocati di polso nello stress dello sforzo aventi la precisione di un cecchino e quella tua capacità di nascondere dietro la gentilezza e la sportività, una determinazione nel trovare le motivazioni che ti varrebbero un master in psicologia presso tutte le università del mondo. Eri e sei, tutt’oggi, un fenomeno che ha vissuto un infinito tratto agonistico sempre di nota, con la scorza di chi ha avuto stimmate fisiche e mentali pressoché uniche e, quindi, naturalmente superiore a quelli che coi quali ti confrontano. Altro aspetto che non posso dimenticare: tu eri pulito, così tanto pulito da non finire mai e, forse, per questo, il tuo fuoco è rimasto costante senza le punte di altri. Sei l’esempio dello sportivo che altri verrebbero sempre vedere anche al di fuori del tuo quadro, positivo nella vita senza il benché minimo cedimento ai facili richiami che il segmento d’esistenza può porre grazie agli dei, pardon danari. Un altro modo per dirmi che non potrò mai scrivere un articolo su di te e, forse, non basterebbe un libro perché sei stato sempre un top, per tutti i tuoi 70 anni fin qui vissuti. Non mi stupirei, se a 90, fossi ancora capace di battere un quarantenne. A volte c’è da chiedersi se sei terrestre, ma chi lo conosce il tuo tratto? Troppo pochi, ed anche tu vai nel dimenticatoio dei tritasassi odierni, o di quelli che, “poveracci”, ancor trovano la forza, o l’incoscienza dettata dall’ignoranza, di esaltarsi per i putridi bionici senza fantasia che, in ogni giorno di questi tempi, distruggono quella che un tempo, per tanti, fu la tua inimitabile arte.


KEN ROSEWALL, QUANDO IL TENNIS FERMA IL TEMPO
Con Rosewall, ci troviamo di fronte a quello che indubbiamente può essere considerato il monumento del tennis. Il piccolo Kenny merita questa definizione: per il valore peculiare del suo gioco e dei risultati e per la sua longevità sportiva che non ha finora nessun paragone plausibile. E’ impressionante la sua storia perché sembra infinita. E’ viva la sua immagine perché anche i più giovani hanno avuto modo di sentirne parlare da chi è stato accarezzato dalla leggiadra brezza del suo giocare con la “magia” che lo ha sempre contraddistinto, ed è ancor più incredibile, infine, la sottovalutazione sulle sue imprese da parte di alcuni media.
Per anni trovai scandaloso come tanti giornalisti, soprattutto televisivi, tramutassero le loro telecronache ove magari era impegnato Jimmy Connors, in una specie di culto al valore verso il campione grande e longevo, dimenticando, appunto, il più grande di tutti: Ken Rosewall. Capivo che nell’era delle immagini e della vendita dei prodotti a tutti i costi, parlare e lodare un campione ancora presente fosse più redditizio, ma la dimenticanza di almeno una menzione (vero Tommasi?) del migliore, a livello professionale, fu molto grave. Tanto più in considerazione di una realtà e di un fatto: le carriere di questi due tennisti si sono incrociate per diversi anni nonostante i 18 anni di differenza.
Dicevo sopra che nessuno è mai riuscito ad avere una stecca sportiva così lunga come Rosewall. Bene tutto ciò è vero, anche se guardando senza commento le statistiche di questo sport, scopriremmo in Arthur Gore (GB) una longevità superiore: vinse infatti tre titoli di Wimbledon, di cui l’ultimo all’età di 41 anni e si ritirò dopo aver partecipato consecutivamente a 40 edizioni del sopraccitato torneo. Lo stesso Bill Tilden vincitore a 37 anni del titolo di Wimbledon, giocò con grandi risultati ancora per diversi anni, ma fra i professionisti e se a 48, veniva considerato ancora il sesto giocatore del mondo, era solo grazie ad una graduatoria artificiosa che mescolava professionisti e dilettanti, senza però, la prova del campo. Tilden e ancor più Gore, si esibirono in un’era dove il tennis era meno frenetico e sicuramente meno capace di presentare campioni o avversari per i due credibili: Arthur Gore giocava praticamente un ristretto campionato inglese quando vinceva i suoi match, mentre Tilden, anche se si trovò di fronte i “Moschettieri di Francia” che, tra l’altro, seppero batterlo il più delle volte, aveva avversari che si contavano sulle dita di una mano. Alla luce di queste considerazione, sia Gore che Tilden, non sono utili e validi al confronto con Ken Resewall. In altri sport sono pochissimi gli atleti capaci di essere grandi a 40 anni abbondanti. Forse, sempre tenendo conto dei tempi in cui hanno consumato la loro carriera solo Michael Jordan e Lev Alcindor (Abdul Jabaar) nel basket, Jop Zoetemelck nel ciclismo ed i nostri Maurilio De Zolt nello sci di fondo ed Eugenio Monti nel bob, oppure alcuni piloti automobilistici, potrebbero essere citati. Lasciamo perdere i pugili iper-quarantenni di oggi per mero dovere di pancia… Inoltre per una corretta disamina, bisognerebbe considerare le peculiarità delle loro discipline coi necessari distinguo fra gli sport di riferimento. Ed è pur vero che non fanno testo le discipline che usano un mezzo a motore, in quanto la presenza di questi, altera il peso dell’età in maniera diversa. Non sono utili al confronto, quindi. Lasciamo poi perdere la consistenza di quel nuovo doping che ha modificato tutto il modificabile, fino a creare degli eroi in età della pensione….In fin dei conti, e lo cito volutamente solo ora, quello che più si è avvicinato al buon Ken Rosewall, per affinità dirette di sport, è stato “Pancho” Gonzales. Le vittorie di questi, attorno e dopo i 40 anni però, non sono state così importanti e lucide come quelle del piccolo australiano. Ciononostante, i risultati conseguiti lo fanno inserire nella mia personale graduatoria, nelle vicinanze di Ken. Voglio ricordare inoltre che Pancho, (zio di Andrè Agassi, ma un anno luce migliore del nipote), fu anch’esso uno straordinario campione e dopo diversi anni di inattività, si permise, il 26 settembre 1972, a 40 anni, di dare un’autentica lezione al giovane e ambizioso Jimmy Connors, allora ventenne. Tutto questo per dimostrare che il vecchio Gonzales, con uguali racchette di legno, avrebbe potuto permettersi di dare ben altre lezioni a quel giovanotto che, poi, nel suo invecchiare, fra i 36 e i 40 anni, venne addirittura adulato da giornalisti, volutamente o realmente, un po’ smemorati. Ed è anche giusto far sapere che l’allora giovanissimo Kenny (aveva solo 38 anni), incontrò anch’egli l’ambizioso Connors quando questi aveva vent’anni, distruggendolo. Poi vi perse nettamente a 40 anni in due superfinali a Wimbledon e Forest Hills, ma veniva da maratone precedenti che avrebbero spossato anche gli extraterresti come lui. Anche questo per dire che Rosewall, di “Pancho Gonzales”, anche se non di molto, è stato più grande! Le dimensioni della grandezza del piccolo Ken, si possono palpare nelle affermazioni di chi ha avuto occasioni di incontrarlo e di chi ama questo sport genuinamente, senza cioè nazionalismi ed interessi di cassetta. Una dichiarazione di Rod Laver, presente nel suo libro “Il mio tennis”, credo possa far tacere molti e rinfrescare la memoria ad altri: “Ken Rosewall è certamente il meno apprezzato fra tutti i grandi tennisti. Le vecchie glorie possono affermare , e non mancano mai di farlo, che Bill Tilden ci avrebbe fermati tutti, ma io non crederò mai che il grande Bill, avrebbe potuto imporsi sul piccolo Kenny giocando da fondo campo. Speriamo che abbiano occasione di incontrarsi nella terra battuta lassù, in paradiso, e spero di avere l’occasione di fare il raccattapalle per vedere andare a segno quei rovesci di Rosewall che mi hanno creato tanti problemi qui, sulla terra. Mi piacerebbe vedere come se la caverebbe Tilden, per tanto che possa contare sulla protezione divina. Rosewall non è mai stato valutato al suo giusto valore, per la semplice ragione che dopo le finali del 1956, ha speso i suoi migliori anni fra quei vagabondi chiamati professionisti”. Queste parole dette da uno dei suoi più grandi avversari hanno un valore decisamente superiore a quelle di semplici osservatori, tanto più se vinti dal bisogno di far passare le immagini e i testi dell’attualità come sempiterni, per mere ragioni di cassetta. E poi un giudizio sereno su Kenny, lo da la sua stessa storia.


IL TENNISTA DEI VIRTUOSISMI E DELLA SERIETA’
Kenneth Robert Rosewall, è nato a Sydney il due novembre del 1934. Prese per la prima volta in mano una racchetta all’età di sette anni, ereditando subito una passione incredibile per questo sport. Il padre, fu senza dubbio colui che più di ogni altro gli trasmise le prime nozioni e la prima tecnica. A dire il vero questo genitore fu una vera e propria fonte di pressione verso quel figlio così piccolo che faticava non poco per manovrare un attrezzo così pesante per quelle esili braccia. Il piccolo Ken usava per lo più la racchetta della madre, meno pesante, ma non per questo poteva evitare di usare le due mani quando si trattava di colpire di rovescio. Il padre però non gradiva quell’atteggiamento, così gli impose l’uso di una sola mano, la sinistra o la destra. Per Ken, infatti, l’uso della sinistra o della destra, era pressoché indifferente. Il fatto più strano è che Kenny stava per scegliere la sinistra. Lo stesso giocatore, dopo tanti anni, ebbe modo di dichiarare che se avesse scelto quella mano, forse non avrebbe avuto tutti quei problemi col servizio, sicuramente il suo colpo più debole, in quanto il braccio sinistro sviluppava maggior potenza. Si esercitò a lungo, sempre seguendo i consigli del padre, fino a diventare un prodigio di tecnica e fantasia. A dieci anni era già l’attrazione principale dei frequentatori del Wyanga Club di South Hurtsville, una località non lontana da Sydney dove, nel frattempo, si era trasferita tutta la famiglia. A dodici anni, iniziarono le sfide col suo “gemello” Lewis Hoad, col quale ha diviso la prima parte della carriera. In quelle partite giovanili, si alternarono spesso doppi 6/0 sia per l’uno sia per l’altro, anche se Ken era quello che ne vinse di più. La fantasia di Rosewall e la potenza di Hoad, facevano mani basse dei titoli giovanili australiani e quando Harry Hopman pensò che non si potesse più aspettare, nonostante la giovane età, ad inserirli nelle prime tournée nazionali ed internazionali, ai più, parve una scelta quasi scontata. In realtà, era tale la fama che quei ragazzini si erano procurata, da non riuscire più a distinguerli dai più affermati giocatori australiani. Ambedue, poco più che diciassettenni, iniziarono così a girare il mondo, confermando, anche in Europa e in USA, quanto fosse giusto chiamarli “wonder kids” (ragazzi prodigio). Viaggiando in lungo ed in largo per il pianeta, i due ebbero modo di farsi vedere nei tornei più importanti, quanto i giocatori di fama superiore. Rosewall raggiunse i quarti sia agli Internazionali d’Australia, dove fu battuto da Mervyn Rose in cinque combattuti set, sia a Forest Hills dove la strada gli fu sbarrata da Mulloy, sempre in cinque epici set. Hoad raggiunse i quarti agli Internazionali degli Stati Uniti, prima di arrendersi al più forte giocatore dell’epoca e connazionale, Frank Sedgman. Era l’anno 1952, ed i due gemelli, a diciotto anni non ancora compiuti, entravano nel novero ristretto dell’elite mondiale.
L’anno dopo fu per Ken Rosewall indimenticabile, perché prima vinse con grande autorevolezza gli Internazionali d’Australia, battendo in semifinale il più forte giocatore non australiano, Vic Seixas, poi, in finale, e nettamente, Mervyn Rose, un mancino di sopraffino talento, ma con tre passioni forse superiori al tennis, la birra, le donne e le sigarette. In Francia, nel tempio della terra rossa, Kenny si impose sempre sull’americano Seixas, dopo un cammino che faceva capire a spettatori e stampa quanto fosse peculiare il suo valore. A quel punto Rosewall, a diciott’anni e mezzo era diventato il numero uno del mondo e si stava incamminando verso il “grande slam”. A dire il vero, lo stesso giocatore non pensava ad una simile possibilità, era ancora troppo giovane ed ancora voglioso di imparare, per avere in serbo quelle energie nervose, più che fisiche, che una simile impresa ha sempre comportato. A Wimbledon, infatti, fu frenato da Nielsen che diventerà poi, per lui, una mezza bestia nera. La sua resa però, fu stoica, ed avvenne in cinque set dopo quasi quattro ore di gioco. A Forest Hills, fu invece Tony Trabert a fermarlo in semifinale, ma aldilà di questi ultimi riscontri non vincenti, il 1953, rimarrà nella storia di Ken Rosewall e più decisamente in quella del tennis, un anno peculiare, perché il “piccolo Kenny”, grazie a quelle vittorie, rimane tutt’ora l’unico giocatore diciassettenne, a fregiarsi nello stesso anno di due titoli del “grande Slam”.
Il 1954 segnerà, invece, per Rosewall una grande delusione, non tanto per le sconfitte in semifinale agli Internazionali d’Australia ad opera di Mervyn Rose, o per l’inopinata eliminazione negli ottavi al Roland Garros, ma per l’amarissima sconfitta in finale a Wimbledon. Il cammino del giocatore di Sydney, per arrivare alla partita decisiva fu veramente difficile, prima Ashley Cooper negli ottavi, poi un altro connazionale, Rex Hartwig, nei quarti, ed infine Tony Trabert in semifinale, lo costrinsero a vere e proprie maratone che ne ridussero alquanto le energie disponibili per la finale. Qui, si trovò di fronte l’esule cecoslovacco naturalizzato britannico Jeroslav Drobny, una figura mitica del tennis di quei tempi, con la peculiarità rara di guadagnarsi la rete attraverso la palla corta. Al Lawn Tennis di Wimbledon, nonostante il peso del suo nobile passato, Jeroslav, non veniva dato fra i favoriti (era testa di serie numero 11) ed i favori del pronostico pendevano dalla parte del “baby” australiano. Il ceko, era stato, tra l’altro, campione mondiale nell’hochey su ghiaccio, ed aveva un portamento da intellettuale con tanto di occhiali e pancetta. Ebbene, nonostante la lunghezza dell’incontro, che rimane tuttora una delle finali maratona, per game giocati della storia di quel torneo, il più giovane finì per perdere. Il peso degli incontri precedenti fu decisivo per le tristi sorti di Ken Rosewall, il quale abbandonò lo stadio lungamente applaudito da un pubblico che non s’immaginava di certo, come la sconfitta di quel giovane campione, avrebbe costituito un emblematico precedente. Il punteggio finale a favore di Jeroslaw Drobny, fu di 13/11 – 4/6 – 6/2 – 9/7.
Kenny, deluso, si presentò a Forest Hills per prendersi una rivincita, ma invece, costei, finì per essere appannaggio del connazionale Rex Hartwig, che lo batté nettamente in semifinale. Finì quell’anno ancora peggio, perché assieme al gemello Hoad, incappò proprio nella città natale di Sydney, in una sonora sconfitta nel Challenge Round di Davis, contro gli Starti Uniti.

Nel 1955, Rosewall, iniziò benissimo, vincendo a mani basse gli Internazionali d’Australia. Qui, batté facilmente in tre set Tony Trabert (che poi sarà il miglior giocatore di quell’annata) in semifibale, e Lewis Hoad in finale. Partecipò poi a Wimbledon, perdendo dal “solito” Nielsen in semifinale e subì da Trabert la rivincita nella finale di Forest Hills. Concluse trionfalmente l’anno, vincendo assieme ad Hoad e Hartwig, proprio a Forest Hills, la finale di Davis per 5 a 0, umiliando così la formazione americana, nella quale era ovviamente presente quel Trabert che poi trent’anni dopo, in qualità di commentatore, affermerà che nessun tennista è stato più forte di Ken Rosewall.
Il 1956, fu l’anno del gemello di Kenny, quel Lewis Hoad che seppe vincere tre quarti del Grande Slam giustiziando il piccolo Ken in Australia e a Wimbledon, ma subì proprio da Rosewall, la più penose delle sconfitte, nella partita decisiva, agli Internazionali USA. Nel dolore, come poi ebbe occasione di dichiarare, Ken andò così a rompere il sogno dello “Slam” al grande amico, ma nel contempo dimostrò che, aldilà di Hoad, il tennis dilettantistico di quei tempi aveva, appunto, in lui, un altro dominatore supremo, appunto in lui. I gemelli poi, stravinsero il Challenge Round di Davis, superando ad Adelaide, di nuovo per 5 a 0, gli Stati Uniti.
I richiami del professionismo, già presenti da tempo sui due giovani australiani, furono raccolti subito dopo la finale di Coppa dal solo Rosewall, che firmò un contratto con Jack Kramer per 55000 dollari.
“Sono stato indeciso anche lo scorso anno - dichiarò Ken - quando l’offerta di Kramer fu addirittura di 100.000 dollari. Ora però, mi sono deciso, perché anche se ho solo 22 anni, non è mai troppo presto per pensare al proprio avvenire”.
L’accordo con l’organizzazione principale dei professionisti, prevedeva per Rosewall grossi miglioramenti finanziari, se fosse riuscito a terminare in vantaggio la serie di partite che lo avrebbero visto opposto al più forte tennista dei professionisti, Pancho Gonzales. Insomma aldilà delle difficoltà di un ovvio noviziato, si aprirono per il piccolo Kenny, quelle possibilità di una prosperità economica a cui sia lui, sia la sua famiglia, tanto tenevano.
I titoli fra i professionisti, messi al bando dalla Federazione Internazionale, non avevano un grosso significato, ciononostante, superarti i primi momenti di grosse difficoltà e le frequenti sconfitte con Gonzales, Ken Rosewall, seppe diventare anche fra i “prof” il numero uno. Un dato significativo sono le sue sei vittorie su undici partecipazioni, a quello che veniva definito il campionato mondiale dei professionisti e cioè il Torneo di Wembley.
Ben undici anni, i migliori, sono dovuti passare, affinché Ken, come gli altri “vagabondi”, potessero riassaporare il clima e le tensioni dei “tornei ufficiali”, in specie quelli del Grande Slam. Anni in cui, come diceva Laver, Rosewall espresse il tennis più spumeggiante della sua carriera, anche perché la sua gioventù gli consentiva tutto ed il suo “tutto”, non aveva paragoni plausibili. Anche all’arrivo dello stesso Laver, Rosewall continuò a vincere.

Il primo torneo “open” fu quello di Bournemonth, che Rosewall vinse presentandosi nella maniera più efficace al mondo del tennis ufficiale. Aveva trentaquattro anni, un’età proibitiva per i tennisti di oggi! Si era nel 1968, l’anno della contestazione giovanile e, proprio Parigi, la città teatro dei più sanguinosi avvenimenti di quella rivolta, ospitò il primo torneo “open” valevole per il Grande Slam, della storia del Tennis. In un torneo di quella importanza, i quattro semifinalisti furono Laver (30 anni), Rosewall (34), Gimeno (31) e Gonzales (40), ovvero “vecchietti” arzilli, pronti a dimostrare che il tennis professionistico non li aveva arrugginiti. Essi diedero vita a partite di grande valore tecnico ed agonistico. Per gli assertori della superiorità del tennis dilettantistico fu una stecca clamorosa, che mise fine ad una polemica e ad un contenzioso ridicolo, tanto più se si pensa quale danno, ha provocato a questo sport, quell’orrenda divisione perpetrata per decenni.
Ken Rosewall doppiò il successo di Bournemouth, vincendo il Roland Garros, quindici anni dopo la vittoria del 1953. Fu straordinario in finale, dove impose un’autentica lezione a quello che giustamente veniva considerato il numero uno del mondo, il connazionale Rod Laver. Pur giocando sempre ad alti livelli non vinse tornei di primaria importanza l’anno seguente, dove però dovette subire la rivincita di Rod in finale, sempre a Parigi. Di ben altri contenuti per il piccolo Kenny fu il 1970, dove, pur non partecipando ai primi due tornei del grande Slam, arrivò in finale negli altri due. A Wimbledon, dopo un cammino sicuro, giunse alla partita decisiva contro John Newcombe con l’affettuoso tifo di un pubblico che lo aveva eletto esclusivo beniamino, ma pur lottando come un leone dovette cedere in 5 set al tanto più giovane ed allora devastante avversario. Era proprio una disdetta quel torneo! Per un tennista sconfitto a Wimbledon, esiste una sola vera e grande rivincita quella di vincere, magari battendo il vincitore del torneo londinese, gli Internazionali degli Stati Uniti che si tengono storicamente poche settimane dopo. Ken Rosewall si prese a Forest Hills, proprio quel tipo di rivincita, battendo “facilmente” uno dopo l’altro Stan Smith, che era la più bella realtà del tennis americano, John Newcombe (proprio lui) e in finale quel Tony Roche, un tennista giovane e pieno di talento che si vedrà poi ridimensionare la carriera da una serie infinita di acciacchi ed infortuni. In quello stadio che lo aveva visto 14 anni prima distruggere i sogni del grande amico Hoad piovve un lungo applauso, era la genesi di un mito.
In quegli anni il computer non era ancora stato messo in funzione, quindi la graduatoria mondiale non aveva ancora assunto gli odierni automatismi. Ken Rosewall poteva comunque ragionevolmente essere considerato il nuovo numero uno del mondo. Era, ovviamente, un titolo simbolico, riconfermato sia nel 1971 che nel 1972 per vittorie e contenuto tecnici! In quegli anni vinse due volte gli Open d’Australia e, soprattutto, due volte, in due magnifiche finali contro Rod Laver, il Master WCT, al tempo giustamente considerato come un vero e proprio campionato mondiale. La seconda delle due finali, vinta da Ken per 4/6 - 6/0 - 6/3 - 6/7 - 7/6, è considerata la più bella partita di tennis della storia.......(continua)

Ken Rosewall oggi


Morris

 

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"Non discutere con gli stupidi, perchè scenderesti al loro livello e ti batterebbero per la loro esperienza".

 
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