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Autore: Oggetto: L'(in)utilità fatta thread

Livello Greg Lemond
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  postato il 03/03/2010 alle 14:06
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" Introduzione (IV)


Con politica si intende attuazione di "valori-obiettivi" in un contesto storico dato. Una politica del diritto scientificamente fondata (e non ideologica) implica la conoscenza del diritto positivo e, per la sua integrazione occorrono pure l'elaborazione filosofica e sociologica, oltre quelle specifica (giuridica).
Prima di proseguire occorre domandarsi se il diritto è in grado di esprimere "valori-obiettivi"? Occorre insomma un'ontologia del diritto, perché non è detto che tutto l'ideale etico o politico possa diventare diritto. Al riguardo ci sono i teorici dell'un campo e dell'altro, "giuridicisti" e "negazionisti-anarchici" invece dell'importanza del diritto nella società e che appunto lottano contro di esso e per la sua scomparsa.
La politica che il giurista è chiamato a svolgere, trova comunque i suoi limiti, ovviamente, nel diritto positivo, ma anche dal giuridico come tale, a prescindere dal contenuto storico-positivo.
Con queste avvertenze, è possibile affrontare il tema della politica del diritto come filosofia, cioè il tema dei valori-obiettivi che l'ordinamento giuridico può essere chiamato ad attuare.

 

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"Per principio rifiuto di sottopormi a questi controlli. Non sono ostile alla lotta al doping, che ritengo indispensabile tra i dilettanti, ma nel caso di professionisti è differente. Dopo 12 anni di carriera io so quello che devo fare e non voglio che una mia vittoria venga messa in dubbio dalla fantasia delle analisi".

(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

Non riesco a comprendere perché Morris non sia assunto da nessuna rete telvisiva come opinionista

 
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Livello Greg Lemond
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  postato il 04/03/2010 alle 13:45
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" Introduzione (V)



I valori-obiettivi, però, difficilmente si attuano nel concreto conservando la propria intransigente purezza; spesso, per la struttura plurale dell'essere in società, occorre essere disposti a negoziare con i princìpi complementari o addirittura contrari; non sono escluse quindi *antinomie*.
Occorre aggiungere che la politica del diritto non si identifica con la politica "tout court", perché esistono valori-obiettivi specificatamente giuridici (come vedremo in seguito).
Infine il giurista deve conoscere la società in cui e per cui opera, fare cioè sociologia (in senso lato) :
a) per accertare il diritto effettivo
b) perché il diritto è soluzione normativa di problemi pratici (nota mia ad es. il velo islamico e no)
c) perché non ogni modello assiologico, anche astrattamente ottimo, è realizzabile integralmente in ogni società.
(nota mia ad es. in una società integralista di ogni genere, occorre procedere "cum grano salis"

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 05/03/2010 alle 15:05
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" Introduzione (V)


Devo aggiungere che in questi nove anni in molti hanno scoperto la politicità della giurisprudenza, anche se, a dire il vero, pochi l'ànno puntualmente dimostrata e delimitata: Al contrario molti hanno preso a dire che tutto quello che facevano i giuristi e i giudici tradizionali era solo pura politica, nel senso deteriore dell'ideologia; insomma si è verificato un po' quello che Bobbio ha chiamato: "l'ideologia della caccia alle ideologie" e, come succede spesso in Italia, dopo un po' c'erano più cacciatori che selvaggina.
Io invece non volevo fermarmi ad un risultato di questo tipo, volevo semplicemente documentare la parte precisa di politicità (non-neutralità, non rigorosa logicità, non positività) ineliminabile dalla scienza giuridica. Ma spiegare in quale precisa misura, in quali punti, i giuristi non si limitano ad essere dei puri logici legalisti, non equivale ad affermare in blocco che gli stessi fanno dire alla legge qualsiasi cosa vogliano.

 

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Livello Greg Lemond
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  postato il 06/03/2010 alle 16:07
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" Introduzione (VI)


Meno ancora il corso teorizza l'irrazionalismo ed il politicismo brado, perché la tesi non era certo una rivendicazione, ma un accertamento logico-metodologico; non mi sono battuto per uno slittamento di competenze dal legislativo al giudiziario, né per una giurisdizione di equità. Del pari non ho inteso sottoporre l'ideale politico illuminista del giudice "bocca della legge" a critica politica, ho solo cercato di dire che il giudice di fatto non è, perché non può essere "pura bocca" e questo i cittadini devono saperlo.
Ciò, sia chiaro, non toglie nulla alla teoria dell'interpretazione, per la quale l'interprete deve tendere all'oggettività. Il corso infatti cerca di prescrivere il massimo di ristrettezza alla politicità ed invita a colmare lo spazio fra giuridico e politico nel più scientifico dei modi possibili.
Se non credessi alla possibilità di razionalizzare, entro certi limiti, la politica del diritto, il corso si limiterebbe ai primi due capitoli:
1) la legge (il diritto positivo) vi lascia questa possibilità
2) Fatene l'uso che credete.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 07/03/2010 alle 13:57
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" Introduzione (VII)


Per indicare una linea di direzione, mi limito a suggerire che:
a) E' proprio il progresso logico a svelare la non rigorosità della giurisprundenza e con ciò stesso a ricercare gli eventuali rimedi
b) Il giurista e il giudice, più sono politicizzati a senso unico, più sono prevedibili e dunque riducibili.

Cambiando discorso, devo dire che nell'ambiente culturale generale, il fatto più importante sopravvenuto dagli anni 60/70 ritengo sia stato, sembrerà strana come diagnosi, il diffondersi a livello di massa di tutta una serie di forme di "ateismo corrente", il che ha prodotto conseguenze sulla morale e sul diritto. Nuovo è stato infatti il diffondersi di forme teoriche e pratiche di "disconoscimento, negazione, oltraggio, irrisione" non solo dei dogmi e della morale cristiana teologale, ma dei valori stessi di quelle morali "laico-borghesi" in cui era ed è possibile riconoscere significative traduzioni secolarizzate di princìpi cristiani.
Il nuovo "immoralismo" ha finito per aprire altri fronti interni nella già incrinatissima unità morale dell'Occidente ed in particolare del popolo italiano, rimasti quasi privi di quel minimo di "religione civile" che molti studiosi assumono come necessario alla sopravvivenza di una società.

 

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Livello Fausto Coppi
UTENTE DELL'ANNO 2009
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  postato il 08/03/2010 alle 01:12
Apprezzo il tuo sapiente spaziare nel discorso, Elisa, ma il rischio è quello di trascendere un po' troppo dal nucleo della tematica, laddove il troppo sta ad intendere la perdita dell'opportuno orientamento in inerenza all'argomento.


Originariamente inviato da elisamorbidona

Tuttavia, il fatto che si possa dire che a Dio siano state attribuite tutte le perfezioni umane, e la sua idea in questo senso sia pressochè da sempre una "creazione" dell'uomo, usata molto spesso per fondare dei regimi di oppressione e sfruttamento, non dimostra tanto meno alcunchè riguardo alla sua esistenza o non-esistenza nella realtà.

Appunto.
Ecco, il punto è questo: l'esistenza di Dio non è dimostrabile, se non privando le presunte dimostrazioni dell'esperibilità necessaria per poter, a ragione, dirsi convinti dell'effettiva realizzabilità d'un qualsivoglia processo esplicativo.

Quanto a Dio - in qualunque modo lo si voglia intendere -, non ci è possibile l'effettiva dimostrabilità della sua esistenza così come della sua non-esistenza, come giustamente scrivi, ma, allo stesso modo, se è vero ch'io non potrei a ragione affermare che nella mia tazza di Mickey Mouse (per dire uno degli oggetti che ho davanti agli occhi) risieda un'entità onnipotente, è altrettanto pacifico il contrario.

Ora: la differenza, dunque, qual è?

Come ho sempre detto, un'argomentazione di questo genere non può prescindere da un'opportuna contestualizzazione storica: l'esistenza di Dio è scritta nella Storia dell'Uomo.
Mi fa rabbia, quindi, che per millenni si sia dato credito a credenze assolutamente fatue ed inconsistenti.

Se il cristianesimo, attraverso varie tappe storiche (vedi Editto di Milano e la successiva proibizione di ogni altro culto, promulgata sotto l'impero di Teodosio), non fosse passato da religione di una setta a grande Chiesa coincidente coi confini dell'Impero di Roma, ora come ora, forse, le stesse persone che oggi si dicono convinte dell'esistenza del Dio cristiano, contrariamente affermerebbero di professare una religione politeista salita in auge nell'epoca storica di vattelappesca, e i nostri calendari, oggi, sarebbero scanditi in tutt'altro modo.


Il cuore della questione è a mio parere proprio il fatto che questo problema si trova al di qua della ragione e della parola, non al di là. Non nel senso che non se ne possa parlare con parole e frasi di senso compiuto, ma nel senso che per tentare una qualche affermazione positiva o negativa bisognerebbe affondare l'ancora non nei principi logici e razionali che teniamo come evidenti, ma sulla natura stessa dell'evidenza di quei principi.
[...] ora, non potrebbe darsi che sia il caso di effettuare una tale rivoluzione copernicana in ambito filosofico e teologico, nel senso che si dovrebbe ritrovare un senso, un modo di esperire l'essere (la realtà delle cose del mondo su cui di per sè non possiamo avere dubbi) e Dio (la realtà di ciò che di per sè non è del mondo e su cui di per sè non si possono avere certezze), se c'è, che non passi attraverso il procedimento dimostrativo ed esplicativo.
Quello, in sostanza, che fa l'arte, la quale non aspira certo ad alcunchè di fantastico o irreale, ma tenta, nella maniera maniera più diretta possibile, richiamandosi in parte al vissuto emozionale, in parte all'evocazione delle esperienza fondamentali dell'essere al mondo, comuni a tutti gli uomini, di restituire l'esperienza della realtà.
Carlo-lemond diceva che a lui di un film interessa solo la sceneggiatura...ma allora perchè fare un film piuttosto che scrivere un libro o dipingere un quadro? Non sarà perchè l'immagine o la poesia dicono qualcosa che la prosa non riesce a dire, qualcosa in più, ed è in questo a volte vertiginoso arrivare al cuore della realtà che risiede l'esperienza liberante, aprente, della bellezza?

Non confondiamo le acque; parli di evidenza seguendo le tappe di un discorso evidentemente soggettivo.
La funziona comunicativa dell'arte risiede, per l'appunto, nella suscettibilità dell'uomo a partecipare all'intento dell'artista.
Laddove dovesse mancare questa disponibilità, non sussisterebbe alcuna "trasmissione" emozionale.
Inoltre, se si parla di "arte" in senso generale, il discorso che ne consegue non può che avere le premesse d'una certa genericità.

 

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(Raymond Merrill Smullyan, 5000 B.C. and other philosophical fantasies, 1.3.8)


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Tour de France: Longjumeau - Paris Champs-Élysées: 1°
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Livello Greg Lemond
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  postato il 08/03/2010 alle 16:03
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" Introduzione (VIII)


La conseguenza che riguarda la scienza giuridica è che nulla può più considerarsi teoricamente acquisito o almeno generalmente consentito. A titolo indicativo; il matrimonio e la famiglia, la distinzione di ruoli fra i sessi, la democrazia e lo Stato di diritto, la chiesa o le chiese, l'autorità in ogni sua forma convivono e confliggono in una guerra civile culturale. Le Costituzioni cessano di essere espressioni dell'unità fatcosamente raggiunta, per diventare "mantelli di Arlecchino", tirati in ogni direzione a copertura delle opposte ideologie, o meglio *antropologie*, perché le spaccature non sono solo sulle istituzioni e applicazioni, sono proprio sui significati umani primi.
Proprio la radicalità della crisi sembra tuttavia esigere, e in qualche modo anche favorire, una nuova fondazione scientifica della politica come unica alternativa ad una "Babele non biblica", con l'aiuto della ragione non riduttiva. Perché la necessità e la logica delle cose guida chi vuole capire e trascina, suo malgrado, chi non vuole.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 09/03/2010 alle 15:09
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" Introduzione (IX)

Preso nel suo insieme, si può ridurre ad un tentativo di risposta non riduttiva alla domanda: se il diritto è per l'uomo, per lo sviluppo della persona (art. 3 della Costituzione), chi è l'uomo? in quale direzione avviene l'autentico e completo sviluppo della persona?
In tempi diversi sarebbe stato forse sufficiente rimanere all'interno dell'esperienza giuridica, ma nella dilacerazione in cui ci troviamo, dobbiamo addentarci anche nell'antropologia filosofica.
Occorre riavvertire che l'irrazionalismo, o ideologicismo, metodologico indiscriminato troverà un opposizione. Il giurista, abbiamo detto, fa politica, ma le sue preferenze affettive o ideologiche incontrano un triplice limite:
a) il limite del diritto positivo (significativamente circoscrivente)
b) il limite della ragione (razionalità o ragionevolezza) pratica
c) in sede di politica del diritto, il limite del giuridico in quanto tale.
Sono i tre limiti che rendono appunto scientifica la scienza del diritto.

 

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Livello Greg Lemond
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  postato il 11/03/2010 alle 07:56
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (I)

La scienza giuridica come politica del diritto



La risposta più comune alla domanda su cosa faccia il giurista è, con ogni verosimiglianza: "interpreta ed applica la legge". Il nostro corso intende contestare che il giurista, all'interno dell'ordinamento giuridico statale, applichi solo la legge e che quindi la sua attività sia pura logica applicata.
E' quindi necessario rendersi conto anzitutto delle origini storiche di tale finzione.
Perché si realizzino le condizioni di un ordinamento legale in senso stretto, sembra indispensabile il ricorso allo strumento del codice, perché la legislazione frammentaria, qual è di solito quella degli Stati nel periodo del diritto comune, non basta a fornire il postulato di fondo di un ordinamento legale in senso stretto.
La vicenda del diritto comune durante il medioevo è l'esempio grandioso di un ordinamento che si sviluppa per secoli senza l'intervento del legislatore, bensì per opera della prassi e dei giuristi. Con la formazione degli Stati assoluti, il concetto stesso di diritto comune a Stati diversi entra in crisi, mentre si irrobustisce l'idea del diritto, come legge emanata dal singolo Stato.

 

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  postato il 11/03/2010 alle 14:33
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (II)


A favore del codice opera anche l'ideologia giusnaturalistica e illuministica, il razionalismo giuridico che ritiene conoscibile e formulabile dalla ragione l'insieme dei princìpi e delle norme di convivenza. Si potrebbe dire che un ossimoro si traforma nel suo contrario, perché il codice è, al tempo stesso atto di volontà assoluta (al limite arbitraria), compendio di un'esperienza specilialistica di secoli e modello razionale. L'idea finale, quindi e infatti, si risolve in una serie di ambiziosi paradossi: giusnaturalismo positivistico, tradizionalismo riformistico o addirittura rivoluzionario, volontarismo razionalistico ...
E forse proprio in questo sta la sua necessità e vitalità storica, che lo porta, in un secolo, a conquistare quasi tutta l'Europa.
I codici nascono favoriti dai monarchi assoluti e dalla burocrazia, ma vengono poi fatti propri dal liberalismo, che si richiama a Montesquieu e paradossalmente proprio la versione libverale dà il suggello al positivismo assoluto ed alla teoria dell'automatismo del giudice e del giurista, il che contribuirà poi alla fondazione del diritto che, staccato dalle sue matrici, sarà poi, certo preterintenzionalmente, la premessa di validità della legislazione nazista.

 

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  postato il 12/03/2010 alle 13:59
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (III)


Soprattutto nel dopoguerra, il positivismo legalista è stato criticato sulla base della c.d. "reductio ad Hitlerum" : si faceva notare che i giuristi tedesci non avevano saputo resistere al nazismo, proprio perché abituati a considerare la volontà della legge come volontà da seguire in ogni caso. Bastava allora che una dittatura si impadronisse del Parlamento per conferire legittimità costituzionale a tutte le proprie decisioni.
(nota mia: ciò che sta accadendo in questi giorni in Italia ...)
Questa passività nei confronti della legge nasceva proprio dagli aspetti di verità contenuti nella dottrina liberale dello Stato di diritto: difesa della libertà del cittadino contro l'eventuale arbitrio del giudice.
E' chiaro che nel concetto di legalità di un giudice nazista rimaneva ben poco delle componenti giusnaturalistica, tecnico-giuridica, liberaldemocratica e garantistica dell'idea di codice, ma il giudice nazional-socialista avrebbe di certo sfruttato l'alone di valore che esse avevano conferito alla legalità formale.

 

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  postato il 13/03/2010 alle 13:40
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (IV)


Noi non intendiamo, in questa fase, sottoporre il legalismo a critica politica, ma solo chiederci se sia reale o possibile il seguente postulato: non c'è diritto al di fuori della legge e non c'è non-diritto all'interno della legge. La prima proposizione esclude le fonti del diritto diverse dalla legge: la consuetudine, il diritto giurisprudenziale, i precedenti giudiziari, la prassi amministrativa, ma anche lo "ius gentium", il diritto naturale o razionale, la c.d. equità; insomma esclude ogni altra norma e storicamente manda "in soffitta" il diritto comune. La seconda proposizione esclude soprattutto la desuetudine, il suo cioè non essere più vincolante, se non osservata. E' chiaro che questo postulato distrugge l'autononia politica del giurista e, come disse Robespierre il termine giurisprudenza va addirittura cancellato dalla lingua, e la scienza giuridica non può e non deve invocarsi come elemento a favore di una tesi sostenuta in giudizio. Certi "codificatori" hanno addirittura vietato ogni interpretazione e commento della legge ed infatti il giurista ortodosso dell'ottocento era orgoglioso, quando sosteneva "io non conosco il diritto civile, insegno soltanto il Codice Napoleone".

 

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  postato il 14/03/2010 alle 14:53
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (IV)


La nostra prima critica si dirigerà contro l'asserto che la legge è tutto il diritto, che può formularsi anche: "la legge è completa".
Ci sembra invece che è possibile constatare come, all'interno di un ordinamento legale, ci sia un largo spazio vuoto (lacuna) che l'interprete è chiamato a colmare con mezzi propri. Possiamo asserire che esiste lacuna in tutti i casi, e solo in essi, in cui l'interprete che vuole risolvere un dato problema pratico ipotetico o reale fondandosi solo sulla legge, non trova invece nel codice una soluzione univoca e riconoscibile come tale da ogni intelletto ragionante. A scopo puramente espositivo, raccoglierò queste lacune in due gruppi:
a) statiche, quelle che la legge presenta già astrattamente, cioè a prescindere dal fatto che essa debba applicarsi ai casi concreti ed alla vita sociale in evoluzione.
b) dinamiche, quelle invece destinate ad evidenziarsi nel concreto e nel divenire.

 

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  postato il 15/03/2010 alle 15:46
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (VI)

Lacune statiche


La legge non può (e di solito, neppure pretende) fissare in modo univoco il significato di tutte le proprie parole. I tentativi di fare del linguaggio legislativo un linguaggio "formalizzato" nel senso della logica moderna sono sempre falliti e con ragione, perché proprio la logica moderna ha scoperto l'impossibilità di formalizzare integralmente qualsiasi sistema linguistico, anche molto più preciso di quello legislativo. Si pensi ai concetti di buona fede, buon costume, stato di necessità, forza maggiore, colpa, diligenza del buon padre di famiglia etc. Proprio il concetto di buona fede fu utilizzato da Cicerone per includervi l'obbligo del venditore di informare il compratore che la casa in vendita era infestata dai fantasmi.
Affini al precedente sono i casi di implicito o esplicito rinvio da parte del legislatore alla "dottrina e giurisdizione".
Ma le lacune non si esauriscono qui; ci sono anche quelle derivanti dalla limitatezza con cui il legislatore si rappresenta i fatti sociali sui quali intende intervenire s sono lacune in aumento, in quanto proporzionali alla complessità della società contemporanea e dei compiti che in essa sta assumendo lo Stato.

 

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"Per principio rifiuto di sottopormi a questi controlli. Non sono ostile alla lotta al doping, che ritengo indispensabile tra i dilettanti, ma nel caso di professionisti è differente. Dopo 12 anni di carriera io so quello che devo fare e non voglio che una mia vittoria venga messa in dubbio dalla fantasia delle analisi".

(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 16/03/2010 alle 14:06
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (VII)


Al perfetto legislatore (senza lacune) si richiederebbe la conoscenza integrale del "corpus legale preesistente", cosa impossibile e che comporta anche l'esistenza di *antinomie*, che assomigliano alle lacune, perché l'interprete manca di una norma univoca da applicare.
Criteri per superare le antinomie sono previsti, del tipo la Costituzione prevale sulle leggi ordinarie o la successiva sulla più antica; ma questi criteri sono opera non della legge stessa, ma nascono dai giuristi.
Oltre che dalla conoscenza della società e del diritto, il legislatore è limitato dalla propria capacità di formulare adeguatamente un proprio volere. (Nota mia; si pensi al ministro Maroni che il giorno dopo aver firmato un decreto, lo ripudiò sostenendo che non lo aveva capito ).
Ciò prende il nome, in generale, di sfasamento tra "litera" e "ratio" che ciascuno può sfruttare per far dire alla legge più o meno di quello che ha scritto.
Le lacune non sono, si badi, proprie solo della legge, ma anche nei principii generali, perché essi sono, di solito, il risultato di giudizi di valore contrastanti (si pensi alla funzione sociale della proprietà privata) e quindi anche coloro che intendono salvare il legalismo, considerando l'interprete vincolato ai *principii*, pongono, a parer mio, un vincolo ben poco operante.

 

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Livello Greg Lemond
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  postato il 17/03/2010 alle 14:21
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (VIII)

Lacune "dinamiche"



La legge deve anzitutto confrontarsi con i singoli casi, pur essendo generale ed astratta. Ora, nella visione di completezza della legge, viene presentata al giudice una situazione di vita concreta e questa "di sicuro" deve rientare nelle cosiddette "fattispecie tipiche", cioè previste dalla legge. E' la teoria del sillogismo giudiziario che, purtroppo per i sostenitori, non si presenta mai (o quasi), perche non esiste il caso particolare che rientra perfettamente nella norma generale. Di solito in giudizio si va proprio perché le parti hanno qualche dubbio, perché se fosse proprio chiaro il caso, chi è in torto non andrebbe davanti ad un giudice. Quindi è verosimile che i casi concreti non rientrino esattamente sotto una norma. Inoltre si può osservare che i casi concreti sono regolati dall'intreccio di più norme ed implicano tutta una serie di circostanze che la norma non può prevedere.
In conclusione, per ora, si può dire che l'individuale fa entrare la norma in una dimensione equitativa (la giustizia applicata al caso singolo) con cui deve misurarsi e in tal modo incontra una serie di incognite con le quali fare i conti.
L'importanza di questa dimensione dell'individuale è tale che ci sono teorie giuridiche che riducono quasi tutto il diritto alla soluzione dei conflitti individuali concreti; ad es. "Il realismo giuridico".

 

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  postato il 18/03/2010 alle 15:16
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (IX)


Credo che la posizione più equilibrata sia quella di riconoscere un'esistenza specifica della norma generale, ma anche (nota mia, mi scusi Veltroni ) una complementarità con la norma individuale. Quindi il diritto, visto nella sua concretezza, si configura come un arco ove la norma generale diventa la cornice che deve poi puntualizzarsi nelle decisioni e quindi si può anche dire che si va oltre le lacune, siamo addirittura di fronte ad un arcipelago nel mare della realtà. I teorici dell' *arcipelago* sono stati detti anche giusliberisti, perché hanno scoperto la libertà del giurista di fronte alla legge.
Un altro discorso, circa le lacune, riguarda le incognite del *divenire* (fatti nuovi rispetto alla legge). Il legalista potrebbe obbiettare che basta che il legislatore integri, ma la risposta è facile, perché moltiplicando le leggi ai nuovi casi si creano antinomie, tensioni, si moltiplicano i termini usati, si riaprono insomma tutte quelle lacune che abbiamo chiamato statiche. A me, in definitiva, sembra che il legalismo sia altrettanto logico quanto fare una carta geografica in scala 1:1.
Oppure si dovrebbe ammettere che la Storia tutta, in quanto innovativa, dal punto di vista giuridico andrebbe costruita (quando non avesse per soggetto il legislatore) quale *illecito*.
Abbiamo incontrato un'altra "reductio ad absurdum" dell'ipotesi legalista.

 

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  postato il 19/03/2010 alle 16:03
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (X)

Espedienti del legalismo per colmare le lacune



Nel diritto romano il giudice era autorizzato, in caso di dubbio, a non pronunciarsi "Non liquet" significava appunto che la cosa non era chiara. Il codice Napoleone esclude invece questa facoltà ed anzi il giudice potrebbe essere perseguito sul piano penale per "denegata giustizia". E allora, come si procede per seguire il *dogma* legalistico della completezza della legge?
Si è pensato anzitutto al "reféré legislatif" nel senso che il giudice può ricorrere al legislatore, ma è impraticabile per diversi motivi: prima di tutto per la lunghezza dei processi che dovessero sottostare anche all'attesa di una pronuncia del parlamento; poi, in questo modo, la legge perderebbe la sua generalità, perché il Parlamento dovrebbe interpretarla per il caso concreto propostogli. (nota mia: figuriamoci nell'era di Berlusconi ); infine il "reféré legislatif" incoraggiava nei giudici la mentalità dello "scarica barile" e quidi fu abolito dappertutto.

 

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  postato il 20/03/2010 alle 14:45
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XI)

Le regole legislative sull'interpretazione



L'art. 1 del codice svizzero sostiene che nei casi non previsti dalla legge, il giudice decide secondo la consuetudine e, in difetto di questa (ecco il punto più importante) secondo la regola che egli adotterebbe come legislatore. Questo articolo purtroppo non è stato imitato da nessun altro codice. A noi però interessa principalmente una soluzione escogitata per colmare le lacune senza far intervenire una valutazione autonoma del giudice, che è quella della *negazione logica* delle lacune. Gli autori sostengono che l'ordinamento contiene una *norma generale di chiusura* per cui tutti i casi non regolati da una norma particolare, cadrebbero (appunto) sotto una norma generale (non scritta) che assegnerebbe a tutti un identico "status", con due varianti teoriche:
a) tutto ciò che non è regolato, è permesso
b) è irrilevante.

 

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  postato il 22/03/2010 alle 14:19
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XII)


La critica più ovvia al punto (b) è che esso non dà alcuna direttiva vera al giudice, che peraltro non può rifiutare di pronunciarsi, pertanto questa teoria è pericolosa, tanto più che, messo alle corde, il giudice può decidere imprevedibilmente.
Più importante è il punto (a). Secondo questa variante, di cui è abbastanza evidente l'aspirazione liberale, l'intervento del diritto come limitatore della libertà è da intendersi come eccezionale ed anomalo, ma anche a questa concezione possono farsi varie critiche.
Anzitutto chi ha mai detto che il legislatore debba essere liberale? Inoltre se si fosse coerenti con tale ipotesi, sarebbe impossibile condannare non solo nel caso di completa mancanza di norma, ma anche in presenza di *lampante* oscurità. Perché se si ammettesse che tutte le volte che la legge penale è oscura e che, se si è in dubbio sulla applicabilità dell'ipotesi di reato, si assolve, non sarebbe facile condannare ed allora per farlo molte volte si introduce invece una chiarezza artificiosa. (segue)

 

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  postato il 22/03/2010 alle 14:20
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XIII)

In questo senso diventa chiaro che la scelta, eventualmente fatta dal giudice, per la norma generale di libertà è una scelta politica, perché questa norma non c'è e quindi il postularla presuppone la tutela di certi interessi contro altri, mentre il conflitto tra di essi era lasciato irrisolto dalla legge. O forse la tutela da parte del giudice è, al tempo stesso, arbitraria e incoerente, perché concessa ad interessi opposti, a seconda di chi, casualmente, si trovi a intentare l'azione. Prendiamo ad es. una causa di furto di elettricità: se un privato deviava la corrente in casa sua, l'azienda elettrica perdeva la causa, per il principio che ciò che non è regolato è permesso! Ma se, la stessa azienda, "magiava la foglia" e mandava qualcuno a tagliare il filo, l'utente, che la conveniva in giudizio, perdeva (questa volta lui) la causa, non essendo prevista né come furto, né come altra ipotesi di illecito, l'interruzione del passaggio della corrente. Il giudice veniva quindi a rendere una giustizia " a corrente alternata"
(segue)

 

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  postato il 23/03/2010 alle 14:29
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XIV)


C'è un altro argomento che mi sembra più rilevante ancora ed è l'argomento di fatto: la prassi dei giudici e dei giuristi ha smentito sempre l'esistenza di questa norma di chiusura (non credo ci sia neppure una sentenza a favore della teoria giusliberista).
Infine un ultimo argomento, forse il più importante di tutti. Non esiste praticamente nessun caso nella vita per cui si possa dire che è totalmente non previsto dalla legge, quasi sempre invece il caso presenta degli aspetti di coincidenza *parziale* con la fattispecie legale o, per meglio dire, il caso è suscettibile di più interpretazioni.
Pertanto se il conecetto di lacuna che si adotta è questo, cioè l'unico realistico, accettare la tesi della norma generale di chiusura porterebbe a respingere l'azione legale ogni volta che c'è un minimo di oscurità.

 

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  postato il 24/03/2010 alle 14:15
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XV)

La conclusione è che nella legge le lacune ci sono e non sono autocolmabili. Esiste però l'espediente di gran lunga più importante per far finta che ... e si chiama *logicismo giuridico* che costituirà il bersaglio polemico principale del nostro corso.
La tesi: "E' possibile trarre dalla legge nuovo diritto", mediante operazioni logiche paragonabili alle trasformazioni della matematica.
E' facile comprendere che il legalismo è collegato (sta o cade) al logicismo, perché se non esistono operazioni logiche con le quali colmare le lecune ...
Di fronte al logicismo, noi dovremo dimostrare:
a) che i procedimenti veramente logici e neutrali, non sono fecondi
b) che i procedimenti veramente fecondi non sono logici
c) che nascono gravi inconvenienti di tipo umano e politico dal fatto che quei procedimenti siano considerati e logici e fecondi.

 

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  postato il 25/03/2010 alle 14:35
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XVI)


Lasceremo da parte il primo tipo, perché interessa meno, concentrandoci sul secondo e cioè sull'esame di quei procedimenti che di fatto possono produrre veramente diritto. Il terzo tipo di critica lo eserciteremo tutto in una volta, contro il metodo logicista nel suo complesso.
Per dimostrare che l'insieme di operazioni che possono indicarsi col termine generico di *interpretazione* non si risolve in un'attività di natura logico-filosofica esporrò anzitutto i principali tipi di interpretazione giuridica, mostrando che nessuno di essi porta a risultati univoci capaci di imporsi come tali ad ogni intelletto correttamente ragionante.
La prima coppia antitetica di tipi elementari di interpretazione può essere data dall'i. oggettiva e soggettiva.
La prima è quella che si propone di accertare il significato della legge, l'altra cerca invece di stabilire ciò che ha voluto dire il legislatore. L'i.soggettiva utilizza quindi i lavori preparatorii, mentre l'altra guarda soltanto quanto è passato nel testo (non gli interessano le teste )

segue

 

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  postato il 26/03/2010 alle 14:49
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XVII)


Una seconda alternativa, di fronte a cui si trova il giurista, è quella fra i. storica e evolutiva. La prima cerca di accertare il significato della legge al tempo dell'entrata in vigore, a differenza dell'altra che ricerca il significato attuale. Si capisce l'importanza di questa distinzione soprattutto pensando alle leggi più longeve (ad es. il Code Napoleon o il codice Rocco). Anche qui, ci sono argomenti sia per l'uno che per l'altro tipo a seconda che si voglia privilegiare la realtà sociale ovvero la certezza del diritto.
Una terza dicotomia, si ha fra interpretazione letterale e fondamentale, intendo con quest'ultima ricercare la "ratio" o lo spirito. Il fondamento di una norma può poi essere accertato in due modi principali e sono quelli dell'i. concettuale o teleologica. Il secondo modo riguarda i fini che la legge si proporrebbe, mentre il primo per spiegarlo occorre un esempio.
Una norma sulla compravendita che dica ad es. che essa va eseguita secondo buona fede, viene interpretata in modo concettuale se l'interprete ritiene che la buona fede sia stata introdotta perché la compravendita rientra nell'insieme (concetto) superiore del contratto e ogni contratto va iinterprato appunto ...

(segue)

 

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  postato il 27/03/2010 alle 14:51
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XVIII)


Facendo un passo indietro, mi sembra interessante anche un esempio di i. teleologica. Le regole del traffico contengono la norma: è vietato passare con il rosso, il che sembra piuttosto semplice, ma non è così, perché può prodursi (credo sia stato sperimentato quasi da tutti) una certa situazione del traffico per cui se si rispetta il divieto di passare con il rosso, si paralizza completamente la circolazione. Sentiamo che c'è un contrasto fra il contenuto concettuale della norma e il fine per cui è stata posta ed allora noi semplicemenete, interpretando, sostituiamo la norma ed invece di "passare col rosso" *scriviamo nella nostra mente* "è vietato compiere atti che siano nocivi alla sicurezza ed alla speditezza del traffico.

(segue)

 

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  postato il 29/03/2010 alle 14:35
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XIX)


L'interpretazione si può distinguere in settoriale, se si limita ad interpretare la norma con se stessa, e sistematica se interpreta quella stessa norma, estendendosi alla considerazione congiunta di altre norme, anche se sembra difficile pensare ad un'interpretazione solo settoriale, dato che tutte le norme dell'ordinamento sono egualmente in vigore e la dimenticanza di una di esse attinente alla materia, può infirmare la decisione. Tuttavia in pratica questo non sempre avviene, sia perché non è sempre facile tener presente tutte le migliaia di leggi, sia per un'antinomia che esporrò più tardi con riferimento all'interpretazione telologica, ma che può forse valere per ogni tipo di interpretazione fondamentale.

(segue)

 

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  postato il 31/03/2010 alle 13:21
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XX)


L'elenco delle possibili interpretazioni serve a mettere in luce il punto d'inserzione dell'attivita politica del giurista e per far capirne meglio la portata si può notare come i nostri codici (redatti durante il fascimo) sono rimasti letteralmente identici in moltissime parti, ma interpretati molto diversamente dopo l'entrata in vigore della Costituzione. Oppure si possono considerare le norme sui diritti di libertà sanciti, più o meno con gli stessi termini, in tutte le costituzioni del mondo, però è evidente che parlare di libertà di manifestazione del pensiero negli S.U.A. in Italia, nel Canadà, in Russia, a Cuba, nel Ghana, nello S.C.V o (in "Padania" direi io, se ci fosse una costituzione anche lì), significa dire con gli stessi termini cose molto diverse. Lo stesso può valere per concetti come "buon costume" e "ordine pubbblico".
Quindi si può concludere che la relativa unità di interpretazione della legge deriva dall'accordo che si forma nel contesto sociale; per esempio se la magistratura risolve sempre certi problemi giuridici in un certo modo, pian piano si forma un'opinione sociale sul significato di quella norma che magari non è affatto richiesta dal contenuto logico delle regola stessa.

(segue)

 

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  postato il 02/04/2010 alle 14:21
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XXI)


Tra i vari tipi di interpretazione, nessuno è tale da portare spesso a risultati incontrovertibili, perché già l'operazione dell'interpretare (accertare cioè il significato di un insieme di segni) è per sua natura rigorosamente incerta. Un filosofo tedesco (Dilthey) ha ben spiegato come intendere è qualcosa come rivivere un'intenzione, una rappresentazione, una emozione; insomma un atto di quasi pura soggettività. Ora, com'è possibile *dimostrare* di aver inteso un testo correttamente? Se ad es. assumiamo dal neopositivismo il canone secondo cui una dimostrazione rigorosa dev'essere o analitica o sperimentale, l'affermazione che una dato testo ha un dato significato non può essere dimostrata rigorosamente.

 

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  postato il 05/04/2010 alle 13:50

Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XXII)


Oltre al carattere inverificabile dell'intendere, si potrebbe metterne in luce il carattere "storico" nel senso dell'ermeneutica ispirata ad Heidegger: non si comprende se non da un'esperienza, da un interesse. Inoltre l'interpretazione giuridica ha una peculiarità, è un testo con il quale regolare la vita, quindi anche ammesso che l'interpretazione filologica fosse certa, non lo sarebbe, per ciò stesso, quella giuridica.
Ad es. nessun filologo si chiederebbe quale potrebbe essere il significato (evolutivo) di una poesia di Catullo, mentre nel diritto questo tipo di interpretazione può servire a far dire alla legge più di quanto ...

 

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"Per principio rifiuto di sottopormi a questi controlli. Non sono ostile alla lotta al doping, che ritengo indispensabile tra i dilettanti, ma nel caso di professionisti è differente. Dopo 12 anni di carriera io so quello che devo fare e non voglio che una mia vittoria venga messa in dubbio dalla fantasia delle analisi".

(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

Non riesco a comprendere perché Morris non sia assunto da nessuna rete telvisiva come opinionista

 
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Livello Greg Lemond
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  postato il 05/04/2010 alle 14:47
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XXII)


Oltre al carattere inverificabile dell'intendere, si potrebbe metterne in luce il carattere "storico" nel senso dell'ermeneutica ispirata ad Heidegger: non si comprende se non da un'esperienza, da un interesse. Inoltre l'interpretazione giuridica ha una peculiarità, è un testo con il quale regolare la vita, quindi anche ammesso che l'interpretazione filologica fosse certa, non lo sarebbe, per ciò stesso, quella giuridica.
Ad es. nessun filologo si chiederebbe quale potrebbe essere il significato (evolutivo) di una poesia di Catullo, mentre nel diritto questo tipo di interpretazione può servire a far dire alla legge più di quanto ...

 

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  postato il 05/04/2010 alle 15:51
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XXI)


Oltre al carattere inverificabile dell'intendere, si potrebbe metterne in luce il carattere "storico" nel senso dell'ermeneutica ispirata ad Heidegger: non si comprende se non da un'esperienza, da un interesse. Inoltre l'interpretazione giuridica ha una peculiarità, è un testo con il quale regolare la vita, quindi anche ammesso che l'interpretazione filologica fosse certa, non lo sarebbe, per ciò stesso, quella giuridica.
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  postato il 06/04/2010 alle 07:34
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XXI)


Oltre al carattere inverificabile dell'intendere, si potrebbe metterne in luce il carattere "storico" nel senso dell'ermeneutica ispirata ad Heidegger: non si comprende se non da un'esperienza, da un interesse. Inoltre l'interpretazione giuridica ha una peculiarità, è un testo con il quale regolare la vita, quindi anche ammesso che l'interpretazione filologica fosse certa, non lo sarebbe, per ciò stesso, quella giuridica.
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  postato il 06/04/2010 alle 14:09
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XXIII)


Riassumendo, l'esigenza di interpretazioni metafilologiche nasce dall'esigenza di colmare le lacune della legge. Se si ammettesse che la legge non è tutto il diritto, ci si potrebbe limitare alle interpretazioni di tipo filologico anche se dovremmo comunque accettare il fatto che sopravviverebbero più tipi di interpretazione, nessuno dei quali rigorosamente certo. Prendiamone una per tutte: quella che si chiamava un tempo "i. secondo lo spirito". Il giurista più famoso della fine dell'ottocento (Windscheid) consigliava di pensarsi immersi dentro l'anima del legislatore; espressione quasi mistica il cui ingenuo idealismo faceva già sorridere alcuni suoi contemporanei e Goethe sosteneva appunto che il c.d. "spirito della legge" altro non era che il pensiero di lor signori interpreti.

 

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  postato il 07/04/2010 alle 14:56
Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XXIV)


Va detto però che senza l'interpretazione teleologica la vita del diritto sarebbe impraticabile; ho già fatto l'esempio della paralisi del traffico prodotta dall'interpretazione letterale, potrei ricordare anche i ben più probanti "scioperi" attraverso l'osservanza del regolamento in certe amministrazioni statali. Penso (soggettivamente) che si possa dimostrare che l'i. teleologica arrivi sempre alla norma fine ultimo: agisci per favorire il bene comune. A questo riguardo si ci si può riferire al diritto canonico nel quale, per dottrina costante, tutte le norme devono essere applicate telologicamente, avendo in vista il fine ultimo della "salus animarum".
Ma se è inevitabile salire fin lì, è anche impossibile rimanervi, perché a quell'altezza il diritto positivo sarebbe altrettanto indeterminato quanto il Bene di Platone e ciascuno sarebbe libero di determinarlo a suo modo.

 

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  postato il 08/04/2010 alle 13:28
XXV

Quando anche i singoli metodi interpretativi fossero tutti certi (ma sappiamo che non lo sono), resterebbe il problema di scegliere tra di essi. Con quali criteri? Ce ne sono *tali* da imporsi ad ogni intelletto correttamente ragionante? E' anche questo un banco di prova per il logicismo giuridico.
Già nel 1916 A. Merkl scriveva: "A rigore si può addirittura affermare che ci sono, sotto la stessa legge, esattamente tanti ordinamenti giuridici quantio sono i metodi di interpretazione".
Una teoria dell'i. corretta sarebbe, a mio parere, quella che mostrasse i vantaggi e i rischi di ciascun metodo e traesse poi tutte le conseguenze del fatto che nessun metodo è tale da ...

 

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  postato il 09/04/2010 alle 14:44
XXVI

Vediamo se è possibile compiere una scelta all'interno dell'ideologia legalista. Da un lato, il postulato che la legge è tutto il diritto porterebbe a scegliere i metodi che più certamente escludono interpolazioni valutative extralegali, ma dall'altro, quello stesso postulato esige che la legge riesca a coprire tutte le situazioni concrete e porta quindi a scegliere i metodi che fanno dire alla legge il più possibile, ossia i metodi teleologici, evolutivi, sistematici. Il legalista tenderà piuttosto a scegliere i metodi fecondi che salvano, non la legalità, ma l'apparenza di legalità (nota mia: come nel caso dell'obbligatorietà dell'azione penale).
Il legalista tenderà a risolvere le antinomie, anziché denunciarle e ritenersi poi libero di decidere a modo suo sul punto regolato contraddittoriamente.

 

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  postato il 11/04/2010 alle 10:29
XXVII

Un criterio di valutazione può anche essere dato dal modo in cui si concepisce la legge, in base alla seguente alternativa:
a) il valore dell'autorità; non c'è diritto al di fuori della sovranità
b) il principio della ragione; è possibile costruire un sistema legale completo e razionale.
Se la legge è essenzialmente volontà del più forte, sembra doversi scegliere l'interpretazione letterale, perché è inutile cercare altro fondamento.
Se la legge invece, è portatrice di obiettivi razionali, sia formali (coerenza, completezza) che sostanziali (giustizia) è coerente dedicarsi a costruire tutto un sistema.

 

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  postato il 12/04/2010 alle 14:25
XXVIII

E si noti che gli atti di volontà non hanno bisogno di chissacché. Al limite può bastare una legge che dica di decidere con la monetina, purché siano precisate in modo inequivocabile le regole del gioco (ad es. qual è la testa e ...). L'importante è che si possano dedurre risultati certi, perché togliere alla legge la precisione sarebbe toglierle la sua unica giustificazione. (Nota mia: nella legge elettorale per il Senato "Pocercellum" si è data un'interpretazione non letterale, così come è del tutto imprecisato il modo di interpretare la raccolta di firme per le ultime elezioni e, tenendo conto solo solo della "pace elettorale" si è proprio perso l'essenza della legge).
Come si vede, sotto le scelte interpretative, può esserci tutta una filosofua della società e del diritto.

 

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  postato il 13/04/2010 alle 14:27
XXIX

Il giurista (secondo Merkl) dovrebbe scegliere i metodo e da questi pervenire ai resultati, mentre nella realtà avviene il contrario.
La prima cosa, infatti, di cui ci si accorge analizzando le motivazioni esplicite delle sentenze (per es. la Cassazione) è l'eclettismo metodologico di tali motivazioni. Si tratta, secondo me, di un'osservazione fondamentale: tutti i tipi di interpretazione vengono utilizzati volta a volta, anche nella stessa sentenza.
Nessun giudice della storia, ch'io sappia, ha mai reso pubblici i propri criteri di metodo, impegnandosi ad attenervisi almeno per un anno giudiziario. E nessuna sentenza viene attaccata ed eventualmente *cassata* per essersi basata su un dato tipo di interpretazione piuttosto che su di un altro, la motivazione dell'ultima corte è sempre che "quella sentenza era contro la legge". Un po' troppo facile, no?

 

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  postato il 15/04/2010 alle 14:39
XXX

Quali i criteri per scegliere la soluzione "migliore"? Se scartiamo la più seguita (scelta pro amico), non restano che i criteri politici; e al riguardo la metodologia dei risultati è più scopertamente politica di quella dei metodi. Cerchiamo di ...
Un primo argomento a favore della m.d. metodi può essere quello, puramente formale, della coerenza, ma ognuna delle due è coerente (poco o molto, oggettivamente) sul proprio piano ed eclettica, invece, su quello dell'altro. La coerenza metodologica implica necessariamente l'incoerenza politica e viceversa.
Ora, la valutazione negativa della "politicità" deriva da due aspetti:
Il primo se si crede che il giudice faccia politica nel senso ideologico detriore e come gioco di potere;
il secondo riguarda la convinzione che più un problema è politico, più la soluzione sarà arbitaria.
In altri termini la scelta contro la metodologia dei risultati (nota mia: proprio oggi si sta scolgendo in parlamento la discussione per salvare in qualche modo il decreto del governo, interpretativo delle leggi elettorali regionali ) è una scelta per il valore della certezza del diritto.

 

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  postato il 16/04/2010 alle 14:25
XXXI

Secondo me il vero problema della certezza è dato dalla domanda:" E' più probabile che si ottenga l'accordo su un metodo o su un'ideologia?"
In astratto non è infondato ritenere che i problemi metodologici siano suscettibili di soluzioni più "certe" di quelli politici, ma ivi è sottintesa la sfiducia nella ragione pratica, cioè nella possibilità di una politica "disinteressata" ovvero "scientifica", perché esiste o può esistera anche questa (nota mia: Pannella, nel male e nel bene, ne è un esempio), cioè né slogan, né pura scelta emozionale.
Sempre a mio parere, comunque, le probabilità che prevalga la metodologia nella coscienza dell'interprete sono piuttosto scarse, per cui è più probabile che abbiano la meglio i motivi ideologici (giustizia sostanziale) sui quali si fonda la metodologia dei risultati.
Essere marxista o cristiano è qualcosa che prende molto di più che essere per l'i. letterale o per quella teleologica.

 

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  postato il 17/04/2010 alle 14:12
XXXII

Stante il fatto che è molto improbabile raggiungere la certezza attraverso l'accordo effettivo su un metodo, la vera scorrettezza metodologica dei giudici e dei giuristi non sta tanto nella scelta della metodologia eclettica dei risultati, quanto nel carattere criptico di questa opzione, che sottrae alla luce della discussione le motivazioni reali.
Il giurista deve però (comunque) prepararsi ad affrontare i problemi politici sostanziali che si pongono nei vari campi del diritto e quindi può anche scegliere (con plausibili ragioni) l'eterodossa metodologia dei risultati. (con la riserva di cui sopra)

 

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  postato il 20/04/2010 alle 14:02
XXXIII

Abbiamo finora accettatato, in via provvisoria, l'ipotesi che il diritto statale coincida con la legge. Se quella ipotesi fosse veritiera, sarebbe con ciò dimostrata la nostra tesi della politicità della giurisprudenza, perché il giurista conserva, di fronte alla legge, uno spazio di scelta politica che né la legge, né la logica rigorosa, sono in grado di abolire.
Dobbiamo quindi sottoporre a verifica l'ipotesi dell'identità legge-diritto, perché resta ancora possibile l'obbiezione che il diritto positivo sia qualcosa di ben più ampio e completo della legge e che di fronte a questo diritto, la politicità della giurisprudenza finisca per abolirsi o ridursi fortemente.

 

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  postato il 22/04/2010 alle 14:23
XXXIV

Ci chiediamo allora che cosa il giurista debba considerare "diritto vigente". Questa domanda è duplice, perché occorre sapere:
a) cos'è il diritto;
b) quale sia quello da applicare.
La prima interrogazione distingue il diritto dalla morale, dal costume, dalle leggi economiche etc, la seconda fa riferimento, per contrapposto, al diritto passato, a quello di un ordinamento straniero, o al "de iure condendo" (il diritto ideale).
In sintesi possiamo dire che la prima distinzione si riferisce all'essenza, la seconda all'esistenza.

 

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