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L'(in)utilità fatta thread
Abajia - 22/11/2009 alle 01:55

Elisa, qualche giorno fa, m’ha chiesto lumi in merito ad una mia particolare asserzione, dimostrando sensibilità e consapevolezza che l’argomento verso cui ci si stava avventurando, sia pure marginalmente, è di non facile percezione, per certi aspetti arzigogolato, ed infatti, nel suo invito affinché mi dilungassi nel tema, ho letto la piena cognizione che, nel tal caso, la prolissità è pressoché “fisiologica”. [quote][i]Originariamente inviato da Abajia [/i] [quote][i]Originariamente inviato da elisamorbidona [/i] [quote] Strano che nessuno abbia fatto presente che la parola comunista in linguaggio giuridico significa anche l'abitante di un comune. Un professore di diritto pubblico, a Firenze negli anni sessanta, "buttò fuori" diversi studenti perché non sapevano rispondere alla domanda sul numero di comunisti esistenti in Italia :D :Od: [/quote] ecco perchè spesso c'è poco da fidarsi della competenza di chi ha fatto studi universitari. In questo modo si abituano le persone a pensare che la realtà , la carne e la sofferenza non esistano ma solo giochini del tutto astratti sui concetti più generali. Chiedo perdono per lo sfogo del tutto OT[/quote] La sofferenza, di per sé, non esiste. Ad un qualsivoglia [i]fatto[/i], si può reagire in una qualsiasi maniera, anche 'mersaultianamente' (da Mersault, protagonista del romanzo "L'Étranger", di Camus). Sul fatto che Mersault, nella sua apatia, fosse il primo a soffrire, si può discutere ed affermare tutto così come il contrario di tutto. E ciò proprio perché, di fatto, la sofferenza, nell'accezione comunemente diffusa, non esiste. Esistono, piuttosto, infinite modalità di reazione ad una data situazione (alla Kierkegaard; e non parlo per 'simpatia' nei confronti di un particolare filosofo, ché, per inciso, il mio 'quasi omonimo' [il suo secondo nome è Aabye :P ] è forse quello dal quale più mi sento dissociato).[/quote] Trattasi di filosofia. Qualcuno storcerà il naso, lo so, giacché ho motivo di credere che qualche benpensante si faccia grandemente fuorviare dall’etichetta che si attribuisce, oggi, ad un qualsivoglia (tentativo di) discorso filosofico. Avviarsi in un [i]logos[/i] di questo tenore, oggigiorno, equivale ad esser bollato, di primo acchito, alla stregua d’un ciarlatano, d’un fanfarone, come se si trattasse d’uno sproloquio del tutto aleatorio, volto alla facile persuasione, all’altrui consenso per mezzo di raggiro. È opinione largamente diffusa, oramai, ma chi metterebbe la mano sul fuoco sul fatto che sia [i]veramente[/i] un’opinione? Intendo: è un punto di vista proriamente detto, oppure soltanto una di quelle mezze ideuzze che ballonzolano, di tanto in tanto, nella nostra mente, delle quali non abbiamo piena consapevolezza, eppure riteniamo valevoli al punto da farle nostre ed esplicitarle come le più convinte e convincenti delle valutazioni? Che dire, se non che fate ancora in tempo ad evitare d’andare avanti. Voi stessi che, laddove capitasse l’occasione, non avreste remore nel palesarvi quali personalità altamente “filosòfughe”, immuni ad un qualsiasi esercizio razionale-locutorio, voi stessi, dicevo, potreste ritrovarvi implicati in un circolo vizioso, dal quale vi risulterà complicato uscire, se non completando la lettura, raccogliere le vostre idee, rattopparle alla meglio, scorrere nuovamente, velocemente, quanto seguirà di questo mio surrogato di dissertazione, e condividerle con chi vorrà accostarsi all’argomento. Non per chissà quale oscuro sotterfugio retorico, ma semplicemente perché spinti dalla piena volontà di dire la vostra; sia pure un millesimo di quello che avreste in seno di scrivere, ma sentirete, forse, il desiderio d’intervenire. Ciò che ho in progetto d’introdurre è un topic “interattivo”. Direte: sai che novità! Avete ragione. I threads sono pensati proprio per la loro interattività, atti alla comunicazione estesa e vincolata per tema, ma di certo non per quantità di fruenti. La differenza, se ci sarà – tra l’idea che si ha in testa, il dire, e poi il fare, c’è di mezzo… un sacco di cose! –, non sarà, probabilmente, d’immediata tangibilità. Mi diletterò nel proporvi, di tanto in tanto, alcuni giochini, test, dubbi, rompicapo, illusioni psico-verbali e quant’altro, e (anche) da questi scaturirà fuori l’argomento che si andrà a trattare. Ma, beninteso, la mia idea non è quella d’un thread ad esclusivo uso e consumo del sottoscritto. Anzi. Meno sarò [i]costretto[/i] ad intervenire, e più sarò lieto d’aver speso alcune delle mie giornate nell’intento di dar vita a tutto quello che, se vorrete, leggerete di seguito. In ogni caso, non mi pentirò d’averlo fatto. Del resto, checché se ne possa pensare, il mio fine non è l’altrui convincimento. O meglio: sì e no. Sì, perché, se ciò scaturisce dal mutuo scambio d’idee, opinioni, giudizi, consigli e via dicendo, allora ben venga una situazione [i]postuma[/i] nella quale ci si troverà ad avere punti di vista sostanzialmente distanti da quelli [i]iniziali[/i]. No, per gli stessi motivi. Potrei aver la sensazione d’interloquire con qualcuno che, qualsiasi cosa si scriva, non saprà far altro che plaudire qualsiasi abbozzo di sontuosa verbosità (ahahahah!). Frasi di congratulo e manine plaudenti? Bello, sì, ma trovarsi davanti, per tutta risposta, una bella paginona di asserzioni critiche… non ha prezzo! :D Non a caso, riprendendo una citazione di Oscar Wilde, “tutte le volte che gli altri sono d’accordo con me, ho come la sensazione d’aver torto”. La risposta, Cara Elisa, non sarà concisa. Anzi, per certi versi, potrei dire che neppure sarà una risposta vera e propria, se non per “vie (molto ma molto) traverse”. Nel richiamare il concetto di [i]sofferenza[/i], sono andato a “pigiare tanti tasti”. Dunque, piuttosto che lambire marginalmente alcuni temi, prenderne spunto per sommi capi e propinarti quattro frasette che [i]nulla[/i] aggiungono a quanto già detto, preferisco scrivere perfino [i]troppo[/i]. Dire [i]nulla[/i] in mezzo a tanto è comunque preferibile del dire [i]nulla[/i] in mezzo a poco, no? :D Darò, volutamente, un tono libresco a ciò che vado a trattare, e la “puzza del concetto di terza mano” farà sì che le mie idee personali (che, spero, verranno anticipate da quelle di qualche luminare del forum :cool: ) rimarranno distinguibili da ciò che ho premura di scriver prima (che, ribadisco, sono conoscenze proposte sostanzialmente in chiave “distaccata”, personale ma non del tutto personalizzata). Una sorta di Propedeutica all’Abajianismo. :D Nel ringraziare chi ha avuto la premura di leggere anche solo fin qui, do l’avvio. Parto. La Filosofia, oggi come oggi, è vista come una non-scienza, o, per meglio dire, come una scienza [i]vuota[/i], che ha esaurito la sua carica condizionante, ammesso che l’abbia avuto in epoca recente. Non è mio intento scardinare cotanta [i]credenza[/i], ché, in fin dei conti, potremmo ritenere fondata. Del resto, quella che pare esser la scienza [i]madre[/i] di tutte le scienze (“pare”, ovvero: vallo a dire, oggigiorno, ad un chimico, o ad un matematico!), è pervenuta a [i]noi[/i], secoli XX-XXI, quasi sventrata della sua originaria portata innovatrice, in seguito alla “scissione” di quella “progenie” (fisica, fisiologia, chimica, e poi le scienze umane e sociali: psicologia, economia, sociologia e via di questo passo) che ora si dichiara del tutto indipendente. M’avventuro, adesso, nel tentativo di tentare un “ripristino”, in tal senso, conscio che, se ciò avverrà, così sarà solo e soltanto in questa sede, motivo di svago e diletto d’un esiguo numero di “pocofacenti”. :D Da secoli, oggetti di studio filosofico sono la Realtà, la Conoscenza e i Valori. [b]Realtà[/b]: essere, dio, natura, essenza, causalità, tempo, spazio, io, identità, libertà, infinito, numero, necessità, possibilità, divenire, funzione, fatti, verità Aree principali e sottoaree [u]Metafisica[/u]: ramo della filosofia che si occupa delle caratteristiche universali, delle cause prime al di là degli accidenti [u]Ontologia[/u]: studio dell’essere (dal greco [che riporterò traslitterato] [i]ontos[/i], “essere”) Domande-tipo: Chi siamo veramente? Che cosa siamo veramente? Cosa è fondamentale? Qual è la mia parte nell’esperienza della realtà? Il suo ordine è imposto dalla mente o dalle leggi fisiche? Sulla base di questa definizione, la fisica è parte della metafisica, distinta da quest’ultima solo per la sua epistemologia scientifica (i suoi metodi). Le scienze sociali, in quanto studio delle formazioni sociali, sono ivi comprese in senso ampio. Punti d’incontro (punti d’interconnessione tra aree) – Se i valori o la conoscenza non sono reali, allora sono illusioni – La necessità rende possibile la certezza – Avere uno scopo ed essere una persona sono concetti sia etici, sia metafisici – Ciò che è permesso, è ciò che è eticamente possibile [b]Conoscenza[/b]: verità, metodo, dubbio, certezza, percezione, cognizione, errore, pregiudizio, paradosso, intuizione Aree principali e sottoaree [u]Epistemologia[/u]: ramo della filosofia che si occupa delle condizioni della natura della conoscenza [u]Logica[/u]: scienza dell’inferenza o arte dell’argomentare; come si deve ragionare Domande-tipo: Cosa posso conoscere? Cosa dovrei credere? Come posso essere sicuro? Vedere è credere? Come si riduce l’incertezza? Sulla base di questa definizione, i metodi scientifici sono parte dell’epistemologia, e così è la neuroscienza cognitiva. La sociologia della conoscenza è un diverso approccio empirico all’epistemologia. Punti d’incontro (punti d’interconnessione tra aree) – Se la realtà o i valori non possono essere conosciuti, sono concetti vuoti – Questioni logiche all’interno della metafisica: verità, forma, necessità, insieme, infinito – Il ragionamento morale implica sia valori etici, sia leggi logiche [b]Valori[/b]: giusto, sbagliato, buono, cattivo, virtù, scopo, dignità, salute, felicità, bellezza, il sublime, il sacro, danaro, prudenza Aree principali e sottoaree [u]Teoria del valore[/u]: ramo della filosofia che comprende tutte le questioni relative al valore; include anche l’estetica (teoria dell’arte e della bellezza) [u]Etica e moralità[/u]: include anche i valori politici (libertà, giustizia, eguaglianza, comunità) e i valori spirituali (fede, il sacro, pietà, rettitudine) Sulla base di questa definizione, questioni filosofiche sorgono anche in economia, medicina, politica, spiritualità. Punti d’incontro (punti d’interconnessione tra aree) – Non si dovrebbe fare filosofia laddove non avesse valore – Ciò che è obbligatorio, è ciò che è eticamente necessario – La verità è un valore. La fede è una pretesa di conoscenza – La saggezza (quello che dev’esser saputo) è il culmine dell’epistemologia – La libertà è un concetto metafisico, ma anche morale, politico, spirituale [b]Epistemologia[/b] “Alle porte della conoscenza, lo scettico fa la guardia: per poter fare ingresso nella fortezza dobbiamo rispondere alla sua sfida” (Annas & Barnes, 1985) La conoscenza (cos’è, cosa richiede, cosa ci da’) è, indubbiamente, centrale all’impresa della filosofia. È l’oggetto di quel ramo della filosofia noto come epistemologia, un’area che deriva il suo nome dalla parola greca [i]episteme[/i] (conoscenza). Ma tutti i rami della conoscenza sono intrecciati: nessuno di essi sarebbe minimamente plausibile, se non fosse per l’epistemologia. Non ha senso fare affermazioni su ciò che è reale, o ha valore, in assenza di conoscenza. La realtà e i valori possono ben esser come sono, ma, se non ne abbiamo conoscenza, tutto il nostro teorizzare è vano. La conoscenza è la porta d’ingresso alla fortezza della filosofia stessa. Tuttavia, pare che taluni filosofi trascorrano la vita intera rimanendo al di fuori di quella porta, e non tutti, peraltro, protestano per entrare; alcuni se ne stanno nei paraggi a ridicolizzare le credenziali di chi vorrebbe entrare. Questi guardiani della conoscenza, autonominatisi tali, fanno domande: come ? Sei proprio sicuro? Come fai a saperlo? Non potrebbe essere andata diversamente? Gli scettici, secondo molti, sono fastidiosi, ma hanno un influsso benefico: tengono i dogmatici lontano dalla città ideale. Inoltre, mostrano anche qualcos’altro: se, da una parte, la conoscenza è la via maestra per la fortezza della filosofia, la filosofia, tuttavia, fiorisce anche fuori della sua stessa porta. La filosofia esiste come domanda, come “cosa sarebbe se …”, prima ancora di formulare una risposta, e, quindi, di puntare alla conoscenza. Ma, posto che il mio ruolo non si confà a quello dell’elargitore di conoscenza, sarebbe consigliabile non aspettarsi di ottenerne molta! Seguiranno, come detto, un vasto assortimento di dubbi, errori o presunti tali, illusioni, pregiudizi, qualche racconto improbabile ma “illuminante”, alcune teorie e miti e leggende. Del resto, Aristotele stesso, Ipse dixit, affermò che la filosofia trova e sempre troverà avvio con lo stupore; ebbene: cosa produce stupore tanto quanto un piccolo dubbio? Ah, sì, un grande dubbio. Per iniziare, prendo in considerazione la definizione provvisoria proposta da Platone: la conoscenza è credenza vera giustificata. La tesi va letta in entrambe le direzioni: da una parte, per conoscere qualcosa, occorre crederla, bisogna che sia vera ed avere una giustificazione per crederla; all’inverso, ogni cosa che sia creduta con giustificazione, e che sia vera, è conosciuta. La definizione, tuttavia, è passibile di critica, ma, prima, credo sia propedeutico iniziare ad esaminare le sue tre caratteristiche peculiari. [u]Credenza[/u] La conoscenza è una specie di credenza. A volte, se veniamo messi in discussione, diciamo: “Non è che lo credo: lo so!”, come se la conoscenza rendesse superflua la credenza. Ma la credenza non scompare quando giungiamo alla conoscenza, a meno che non rimpiazzi una credenza falsa. E, anche in tal caso, sostituiamo una credenza vera ad una falsa. Come individui, non possiamo sapere alcunché, se non lo [i]crediamo[/i]. [u]Verità[/u] Per conoscere una proposizione, occorre [i]crederla[/i]. Ma [i]crederla[/i] solamente è insufficiente. Per prima cosa, la proposizione dev’esser [i]vera[/i]. Ma cos’è la [i]verità[/i]? In puro stile socratico, non vogliamo un esempio di proposizione vera, ma una definizione della natura della verità. In primo luogo, cosa vuol dire che una proposizione è vera, sia essa creduta o meno? Si tratta d’una domanda metafisica, ma che ha ovvia importanza per l’epistemologia. Ci tornerò (molto) in seguito, in esposizione delle tre teorie della verità. [u]Giustificazione[/u] Avere una giustificazione non significa avere una scusa, bensì una prova. Non si ha conoscenza se si crede una verità per mero caso; il modo in cui si ottiene conoscenza è parte della conoscenza stessa. Giustificare vuol dire offrire una spiegazione razionale, una ragione credibile per accettare una credenza, una garanzia epistemica. Gli esperti godono d’autorità, ma è la loro perizia che dovrebbe spingerci a chiedere il loro parere; la perizia si mostra da sé, nelle conclusioni a cui essa stessa conduce. Altrimenti, è pure e semplice autorità, od un mito di fantasia. Per Platone, fornire una spiegazione razionale (un [i]logos[/i]) era un imperativo epistemico, così come lo è che gli esperti rispondano di ciò che asseriscono. I suoi ideali di giustificazione erano la dimostrazione geometrica e l’intuizione dialettica, ma raccontava anche un bel po’ di storie fantasiose, miti in cui affermava di credere solo in quanto probabili o, al massimo, verosimili. Come il mito di Atlantide. Socrate, da par suo, aveva i suoi misteriosi “strumenti” di giustificazione, ed in particolare il suo demone interiore: la voce divina, o coscienza, alla quale obbediva. È stato detto che la filosofia nacque in Grecia nel momento in cui i miti cessarono d’esistere, andando a sostituire, come [i]logos[/i] (discorso razionale), il defunto [i]mythos[/i] (racconto, o narrazione). Talete, considerato il primo filosofo greco, riteneva che l’acqua fosse l’archetipo, il principio originario del mondo. Anassimene disse che era l’aria, Eraclito postulò che fosse il fuoco, affermando, poi, che l’unica costante è il divenire, il cambiamento, e che mai potremmo bagnarci due volte nello stesso fiume, poiché “acque sempre diverse scorrono” intorno a noi. I primi filosofi (o meglio, sapienti), perciò, furono, da Aristotele, definiti “fisici”, o “naturalisti”. In seguito, i colti sofisti (letteralmente, “saggi”) confluirono ad Atene, centro democratico d’un impero nascente, allo scopo di fornire consigli a ricchi e potenti. Si guardagnavano lo stipendio dispensando pareri, educando i giovani ad esser virtuosi ed efficaci nelle loro azioni. Oratoria e retorica, gli “strumenti” delle pubbliche relazioni d’allora, erano arti indispensabili nei tribunali e nell’arena politica. Il fatto che codesti “saggi” portassero a casa la pagnotta dispensando pensieri, parole ed insegnamenti a destra e a manca, si rivelò, per loro stessi, un’arma a doppio taglio: non mancarono, infatti, le critiche a quel loro operato che fece sì che le idee messe in circolazione furono messe in secondo piano, bistrattate in ragione d’un esercizio, quello del sofista, che, in un certo senso, aveva bisogno di idee per andare avanti; dunque, pensiero diffuso era che tante parole venissero elargite solo col preciso fine della retribuzione economica, con tanti saluti a quella carica d’innovazione tanto sperticata. Una sorta di “esercizio ad ogni costo”: urge trovar qualche cosa da dire! Logica conseguenza d’una situazione di questo tenore è che, di tutta l’erba, si faccia un fascio unico, con buona pace di quei fili d’erba d’una rarità più unica che rara. Tra questi, novero quel Protagora, figura complessa ed intricata, la cui importanza è stata oscurata anche e soprattutto per tutti questi motivi, e del quale ci è pervenuta la famosa citazione, forse più conosciuta addirittura dello stesso autore, “l’uomo è misura di tutte le cose”. Socrate stesso è stato, spesse volte, accostato ai sofisti, ma certo non ne aveva le caratteristiche. Non chiedeva d’esser pagato, danaro e potere non gli interessavano, e cercava di “seguire l’argomento dovunque esso conduca”. In cerca della conoscenza, piuttosto che della persuasione efficace, Socrate faceva rifiuto dell’uso di artifizi retorici volti al raggiro del pubblico; sviare l’altrui mente e far sembrare più forte un argomento di per sé debole non erano mezzi che – così affermava – gli si confacessero. Nella disputa, a Socrate piaceva vincere, sì, ma senza sotterfugi retorici. All’etichetta di sofista (colui che è saggio), egli preferiva un’espressione più modesta: filosofo, cioè amante della sapienza, che Socrate non pretendeva, però, di possedere. Sapeva di non sapere, ed invitava chiunque a seguirlo nella sua ricerca. Ma, d’altronde, la scoperta stava nella ricerca stessa, vale a dire nell’attività di pensare per conto proprio, di ragionare a fondo su problemi morali ed epistemologici, senza dare per scontate le idee ricevute, o prender per buone risposte appena plausibili. Per Socrate, verità e virtù sono la medesima cosa. Nessuno fa il male intenzionalmente, sosteneva, ma solo perché non comprende ciò che è buono e giusto. È solo pensando per conto proprio, vale a dire aspirando all’autonomia morale, che siamo in grado di ridurre il male fatto non intenzionalmente, e, quindi, rendere la nostra anima quanto più virtuosa possibile. Ma non è possibile pensare da sé senza giungere a conoscersi; la conoscenza di sé stessi non può essere insegnata, ma è l’unica garanzia di virtù. Dunque: la virtù è conoscenza, il vizio è ignoranza. Un giovane ed appassionato seguace di Socrate consultò l’antico Oracolo di Delfi, sacerdotessa e portavoce di Apollo, dio della ragione e della misura. Il giovane chiese se vi fosse qualcuno, ad Atene, più saggio di Socrate; la risposta fu no. Al che, Socrate, venutolo a sapere, rimase pressoché sconcertato da questo fatto, dal momento che era persuaso di non possedere la saggezza. Per nulla incline ad accettarla solo perché gli faceva comodo (immune, quindi, al [i]bias di conferma[/i]), il filosofo si dedicò a testare l’affermazione del dio, per mezzo dell’oracolo, soprendo, infine, che non v’era alcun saggio tra loro che avevano la preta di esserlo. L’obiettivo di Socrate era l’educazione dei giovani nobili, ma ciò implicava la denuncia degli impostori della conoscenza, quale che fosse il loro status: si faceva, così, non pochi nemici. Nel corso del dialogo, Socrate esigeva dalla controparte una coscienza attiva nella ricerca della verità; per questo, afferma Conford, “Socrate scoprì l’anima”. Taylor, sulla scorta di Burnet, sostiene che Socrate “creò la concezione dell’anima” che fin d’allora ha dominato la filosofia occidentale. Giustino il Martire (secolo II d.C.) lo considerava un cristiano vissuto prima di Cristo, e molti altri filosofi occidentali (Platone, gli stoici, gli scettici) hanno identificato in Socrate il loro precursore. Cicerone disse che “tutti i filosofi pensano a sé stessi come seguaci di Socrate, e vogliono che anche gli altri lo pensino”. Socrate era esperto di matematica ed aveva studiato i primi filosofi greci, e giunse a ritenere che le loro tesi metafisiche non fossero superiori ai miti: trattàvasi di speculazioni oltre la portata della conoscenza umana, perfino al di là di nostri legittimi interessi. All’inizio, Socrate nutrì molte aspettative per la filosofia di Anassagora, il quale sosteneva che l’origine del cosmo non fosse l’acqua, né l’aria o il fuoco, ma la Mente. Socrate era sicuro che questa concezione fosse corretta, giacché solo la Mente avrebbe potuto ordinare tutto per il meglio, e far sì ch’ogni cosa seguisse le proprie funzioni. Ma il libro di Anassagora (andato perduto) deluse Socrate, poiché, in esso, la Mente si limitava a dare origine al mondo: erano i ben noti princìpi fisici ad ordinare le cose nel modo in cui ora le vediamo. La sua delusione, implicitamente, rivela una convinzione, di fondo, teleologica: non si può comprendere il mondo, se non se ne conoscono i fini. Così come ho fatto per Socrate, laddove ritenessi propedeutico un quadro introduttivo d’un tratto caratteristico del pensiero filosofico di una particolare personalità, per scopi grossomodo introduttivi ad un segmento tematico, farò altrettanto anche in seguito. [u]Pregiudizi cognitivi Il cretino ed il folle[/u] Ci siamo passati tutti. State facendo tardi al lavoro, andate di fretta, quando rimanete bloccati per strada, per colpa d’uno stupido lumacone che non si toglie di mezzo. Oppure: state guidando rispettosi del codice della strada, quand’ecco che un folle vi si fionda dietro, impaziente di passare, ma praticamente impossibilitato a farlo. Si incolla al paraurti. Ecco un altro pericolo pubblico! L’autista lento che ci sta davanti è un cretino: noi non siamo mai i folli. Quello che ci sta dietro dietro è un folle: noi non siamo mai i cretini. Noi sì che andiamo sempre alla velocità giusta! Se andiamo a curiosare nel chiacchierio continuo della nostra mente, impegnata nella sua quotidiana routine, vi troveremo le spiegazioni (provvisorie) che diamo a ciò che ci accade intorno. Ad esempio, spieghiamo il comportamento delle persone attribuendogli delle cause – come quando biasimiamo o scusiamo qualcuno per quello che ha fatto – pur rimanendo nel silenzio privato dei nostri pensieri. Gli psicologi hanno studiato quello che è, da tempo, oggetto di rimprovero da parte dei filosofi: la tendenza a prendere decisioni nel modo [i]sbagliato[/i], a giudicare con approssimazione, ad attribuire cause che non esistono. La mente non è uno strumento di misurazione oggettivo, coloro che lo usano senza prendere precauzioni necessarie a controbilanciare il peso a proprio favore, si troveranno in un condizione di svantaggio. Ma, d’altro canto, è solo grazie a questo strumento [i]difettoso[/i] che possiamo sperare di correggere i suoi stessi difetti: impresa dall’esito alquanto incerto. Come illustra l’esempio del cretino e del folle, tendiamo a proporre attribuzioni personali quando dobbiamo spiegare il comportamento altrui, ma, quando trattasi di noi stessi, facciamo attribuzioni [i]situazionali[/i]: “è un’emergenza”, “ci sono i limiti di velocità”. La nostra tendenza ad attribuire le cause del comportamento altrui, privilegiando i fattori interni alla loro personalità e sottostimando, invece, le condizioni esterne a cui sono sottoposti, è così diffusa che le è anche stato attribuito un nome: [i]errore fondamentale di attribuzione[/i], ed è stata acclamata come la pietra angolare della psicologia scientifica. La storiella del cretino e del folle mostra anche che, quando spieghiamo il nostro comportamento, spesso evidenziamo un pregiudizio a favore di noi stessi ([i]self-serving bias[/i]); quando l’esito delle nostre azioni è [i]positivo[/i], lo attribuiamo alla nostra virtù, intelligenza, capacità; quando l’esito è [i]negativo[/i], facciamo appello alle circostanze. Ho passato l’esame perché son proprio bravo! Sono stato bocciato perché c’era una domanda a tradimento… Un [i]errore[/i] simile, arcinoto, si riscontra nelle spiegazioni morali: quando le cose vanno storte, riteniamo gli altri responsabili, puntando il dito contro la loro inettitudine, ma discolpiamo noi stessi: le mie intenzioni erano buone, ho fatto tutto ciò che potevo! Ulteriori ricerche hanno mostrato come l’età e la cultura in cui viviamo influenzino l’incidenza di queste attribuzioni. Coloro che crescono in una cultura dell’Asia orientali sono meno, o per nulla, soggetti all’[i]errore fondamentale d’attribuzione[/i]. Simili differenze possono esser dovute ad un maggior livello complessivo d’attribuzioni di tipo situazionale, o anche ad un senso dell’identità personale più malleabile, esso stesso più situazionale. Vi sono, poi, individui appartenenti a due culture che passano da uno stile di attribuzione all’altro, a seconda dei contesti. A proposito dei pregiudizi cognitivi, avrei da proporvi un test veloce veloce che, personalmente, trovo fallace nella sua premessa e, di conseguenza, nella sua soluzione, ma la mia idea non è di propinarvi tutti i vari giochini che ho in mente tutti d’un colpo, ma un po’ alla volta. :D [u]Dubbi da Oriente[/u] Lo scetticismo è una posizione filosofico molto antica. In senso (molto ma molto) lato, una qualche forma di scetticismo è all’opera ogni volta che presumiamo vi sia l’incertezza su qualcosa, o solleviamo dubbi circa un principio dato. Lo scetticismo può essere un atteggiamento filosofico interno all’epistemologia, o, addirittura, può mettere in questione l’aspirazione stessa a giungere ad aver conoscenza [i]riguardo alla[/i] conoscenza. Per farla breve, e banalizzando anche grossolanamente l’accezione proprio di una sì radicata (e radicale) istanza filosofica, trattasi d’una filosofia potenzialmente anti-filosofica. Molte delle sue formulazioni storicamente importanti si devono non filosofi di professione, bensì a poeti, mistici, religiosi. La filosofia tutta sarebbe più povera se prescindesse dall’apporto di queste menti. Peraltro, strano a dirsi, ma, spesso, sono proprio i credenti a dimostrare una maggior familiarità col dubbio. L’antica filosofia cinese del taoismo prende le distanze da ogni pretesa assoluta di conoscenza. Il Tao (cioè [i]la via[/i]) è silente e non può essere affermato, né del tutto concettualizzato. La verità che è possibile conoscere, non è la verità eterna. Ecco qui, dunque, due proposizioni che s’avvicinano allo scetticismo e mettono in guardia da ogni ardente ottimismo epistemico. “Colui che sa, non parla. Colui che parla, non sa.” (Lao Tzu, [i]Tao Te Ching[/i], capitolo 79) “Una volta Chuang Chou sognò di essere una farfalla. Gli piaceva essere una farfalla, si divertiva e andava dove gli pareva. Non sapeva di essere Chou. Svegliatosi all’improvviso, sul momento si stupì di essere Chou. Non sapeva più se era Chou ad aver sognato di essere una farfalla, o se era una farfalla a sognare di essere Chou. Tra Chou e la farfalla ci deve ben essere una differenza!” (Chuang Tzu, [i]Capitoli interni (Nei pian)[/i]) “Chi lo sa per certo? Chi lo proclamerà qui e ora? Questa creazione dove è nata, e da dove viene? Gli dei sono nati dopo la creazione di questo mondo: chi dunque potrà mai sapere da dove esso è sorto?” (Da [i]L’inno della creazione[/i], nei [i]Rig-Veda[/i]) Esistono molti miti della creazione nei testi indù, i quali richiamano spesso a questioni filosofiche. Gli dei – le innumerevoli divinità – nascono dopo la creazione e, quindi, non sono da ritenersi i creatori del mondo; tutt’al più, essi conferiscono uan forma ed un ordine. L’inno pone domande che trascendono la realtà che ci è manifesta e, saggiamente, ci lascia con una serie di punti interrogativi. L’induismo, in generale, non è una tradizione scettica. Nella forma classica dei [i]Vedanta[/i], l’induismo proclama non solo le leggi del karma e della reincarnazione, ma afferma anche l’esistenza d’un Io unitario, che è l’identità ultima di tutte le cose. Questo Io, o Atman, è divino. Non sembrerebbe esserci molto spazio per lo scetticismo, tuttavia, rendersi conto della nostra identità trascendente è come (ri)svegliarsi da un sogno. Il problema è che questo mondo è proprio il sogno dal quale ci si (ri)sveglia. Dire che il cosmo fisico è un’illusione ([i]maya[/i]), non significa, però, negare la sua esistenza; i sogni esistono: è solo che non sono quello che sembrano essere. “Non ho detto che il mondo è eterno o che il mondo non è eterno. Non ho detto che il mondo è finito o che il mondo è infinito. Non ho detto che l’anima e il corpo sono identici o che non lo sono. Non ho detto che il saggio illuminato esisto dopo la morte o che il saggio illuminato non esiste dopo la morte. E perché non ho detto niente di tutto ciò? Perché non è utile e non serve alla saggezza suprema, né al Nirvana” ([i]Majjhima-Nikaya[/i], Sutra 63) Siddharta Gautama, il Buddha, credeva in una vita passata, e si dice abbia avuto una visione completa di tutto il suo Io; ma rifiutava molte questioni metafisiche, in quanto esempi di filosofia che non contribuisce alla liberazione. Tuttavia, il Buddha teneva a dubitare dell’esistenza dell’Io o dell’Anima. La rinascita può avvenire a prescindere dal passaggio dell’anima da una vita ad un’altra. La rinascita è la conseguenza dell’ultimo pensiero prima della morte, non la continuità dell’Io dopo la morte. Per la precisione, la concezione buddhista è una dottrina della rinascita, non una teoria della reincarnazione o della trasmigrazione delle anime, come la si può trovare nell’induismo o in Platone. Rimane, però, il fatto che l’illuminazione è in grado di portarci al di là del ciclo di morte e rinascita: questo è ottimismo, non scetticismo. Ho più volte citato Platone, il cui pensiero è stato, perlomeno agli esordi, influenzato dal maestro Socrate e, da par suo, ha condizionato le generazioni successive di filosofi, dall’Occidente all’Oriente. Nato da un’illustre famiglia ateniese, Platone era ancora giovane quando venne attratto da Socrate, e ne divenne allievo. Dopo la morte del maestro e mèntore, Platone lasciò Atene per alcuni anni, per poi tornarvi e ivi fondare un’istituto formale di istruzione, l’Accademia, precursore delle moderne università. Il processo e la morte di Socrate colpirono profondamente Platone, il quale fornì intensi resoconti scritti degli eventi. Molto di ciò che sappiamo in merito a Socrate è stato “filtrato” attraverso la mente e le mani sapienti di Platone, la cui filosofia propria, poi, emerse gradualmente, e la si può vedere, per molte ragioni, quale una difesa della vita e della missione del maestro. Platone era deluso dal mondo in cui viveva: gli ideali di Socrate non aveva avuto realizzazione nel sistema democratico, né nella condotta dei potenti. Socrate aveva dimostrato che l’integrità è possibile, ma deve [i]venire dall’interno di noi[/i], piuttosto che dal sapere dominante, o dall’ordine sociale esistente. Socrate pareva incorruttibile, quali che fossero le corruzioni, tant’è che evitò la fuga dal carcere, laddove gli si profilò l’occasione d’evitare la condanna. Quale conoscenza invisibile possedeva, tale da permettergli di vincere i motivi più meschini e porsi al di sopra delle politiche basate sulla ricchezza e sul potere? Socrate sapeva qualcosa che lo rendeva virtuoso anche difronte alla morte, ma cosa? La mente dell’infatuato Platone s’arrovellava e delle questioni simili si poneva, e non trovò pace fino a che non formulò un’ipotesi che gli parve credibile: il mondo non è come appare. La questione della conoscenza divenne centrale in Platone. La sorgente della conoscenza non può essere il mondo visibile, con le sue ingiustizie ed i suoi vizi. Gli occhi ci mostrano la luce e i colori, ma occorre qualcosa in più delle cinque capacità sensoriali per riconoscere gli oggetti. Prendiamo, a titolo esplicativo, un semplice giudizio osservativo del tipo: “questo è un uomo”; persino per formulare questo giudizio è necessario il pensiero, un’intelligenza interna ([i]nous[/i], in greco). In un dialogo, Platone descrive Socrate mentre questi guida un ragazzo ignorante in matematica alla dimostrazione d’un certo teorema geometrico, il tutto ponendo al giovane soltanto delle domande. Nessuno ha mai insegnato il teorema al ragazzo, e Socrate si limita, come detto, semplicemente a formulare domande. Dunque, [i]la conoscenza del teorema dev’essere esistita in forma latente nel ragazzo[/i], benché lui non ne fosse consapevole. Platone conclude anche che il ragazzo deve aver conosciuto il teorema in una vita precedente. La teoria platonica della conoscenza e la sua concezione metafisica sono presentate nella famosa allegoria della caverna. Noi viviamo come prigionieri, incatenati in una caverna, e vediamo solo ombre proiettate, da un fuoco alle nostre spalle, su un muro davanti a noi. Una volta liberati e portati fuori dalla caverna, vediamo gli oggetti stessi, vale a dire quelli di cui prima scorgevamo le sole ombre. Vediamo, così, gli originali, mentre prima ne conoscevamo le sole copie. A poco a poco, impariamo a distinguere i corpi celesti, apprendiamo la matematica e la musica delle sfere del cielo; ciò ci darà l’accesso alle verità eterne, che stanno oltre il mondo fisico. L’allegoria riporta, nella forma d’un racconto, gli aspetti teorici dell’epistemologia e della metafisica di Platone. Entrambe sono rappresentate da una linea divisoria. Metafisicamente, Platone divide la realtà in due: da una parte sta il mondo fisico, in perenne flusso, come secondo Eraclito, rivelato dai sensi; dall’altra c’è il mondo ideale (il cosiddetto “Paradiso di Platone”), stabile e comprensibile solo per mezzo dell’intelletto. Per Platone, il mondo naturale e sociale, l’unico che la maggior parte di noi potrà mai conoscere, non è altro che un’illusione, simile ad un sogno. Al di là del nostro cielo fisico, v’è un altro mondo, nel quale risiedono le forme ideali della Giustizia, della Verità, della Bellezza. La nostra mente può giungere al mondo delle idee e sentire, così, un legame di familiarità ed appartenenza ad esso. Solo il filosofo che si libera delle catene, divincolandosi dalle convenzioni sociali e dai comuni atteggiamenti di “bassezza intellettiva”, può emergere al di fuori della caverna, che simboleggia il mondo delle copie. La mente, funzione superiore dell’anima, potrà anche sentirsi a proprio agio tra le forme ideali che risiedono nella realtà superiore, ma il filosofo liberato è vincolato all’obbligo di tornare nella società e darsi da fare per realizzare, qui, la visione del bene che ha avuto: il filosofo ha, dunque, il dovere di offrire il suo servizio al mondo. Come Socrate, così il vero filosofo non è colui che se ne starà isolato, perso nel suo atteggiamento di meditabonda perditudine spirituale, ma, contrariamente, cercherà di riportare [i]con sé[/i], nel mondo [i]inferiore[/i], quei valori che ha conosciuto, in virtù della sua capacità “sovrasensoriale”. Per questo, dalla saggezza deriva la responsabilità di governare. Dunque, secondo Platone, come l’essere si caratterizza per due diversi gradi, dagli oggetti fisici alla metafisica delle forme etiche e di quelle matematiche, così anche la conoscenza è bigraduata, e si distingue tra opinione, mutevole ed effimera, e conoscenza vera e propria, immutabile ed eterna. [u]Dubbi da Occidente[/u] Il dubbio è stato, fin dagli albori della filosofia, suo compagno di viaggio. I primi grandi scettici occidentali sono avvolti dalla leggenda, per quanto loro stessi attaccassero le leggende. Allo stesso modo, attaccavano la possibilità stessa della conoscenza. Sebbene tutto ciò appaia come un punto di vista dettato dalla disperazione epistemica, in realtà è così che si mantiene vivo lo spirito critico. Lo scetticismo è morto e, dalle sue ceneri, più volte risorto, e, quando l’ha fatto, ha portato nuova linfa allo spirito stesso della filosofia. [u]Senofane[/u] Conosciamo Senofane, poeta-filosofo (poeta filosofeggiante o filosofo poetanto? Bah, non ricordo!) del secolo VI a.C., solo attraverso frammenti letterari e resoconti di altri. Era [i]credente[/i] (riferitamente, ovvio, non a Cristo; “Dio è uno, ed è supremo tra gli dei e tra gli uomini”), ma non era disposto ad ammettere alcuna certezza completa (“Queste cose mi sono sembrate essere somiglianti alla verità”). Inoltre, prese una posizione fortemente scettica nei confronti delle storie narrate da poeti famosi, quali Omero e Esiodo, ed in particolare quelle in cui gli dei erano rappresentati a mo’ d’esseri dotati delle umane debolezze (gelosia, ira, impulsi sessuali). Senofane disprezzava la credulità del popolo. “I mortali ritengono che gli dei siano nati così come loro, che indossino vestiti umani, e abbiano una voce ed un corpo umani. Ma se i buoi o i leoni avessero le mani per dipingere […] e producessero opere d’arte come fanno gli uomini, di certo dipingerebbero i loro dei dando loro un corpo simile in forma al loro – i cavalli simili ai cavalli, i buoi simili ai buoi” (T. V. Smith [riprendendo un tema già trattato, in filosofia, svariati secoli a.C., intorno all’epoca dei già citati “naturalisti”], 1956) [u]Pirrone di Elide[/u] Pirrone è, tra i Greci, il primo scettico [i]estremo[/i] che si conosca. La leggenda narra che il suo nichilismo epistemico fu ispirato dall’episodio del saggio indiano che si diede fuoco, uno dei “saggi nudi”, o yogi, che accompagnarono Alessandro Magno durante la ritirata dall’India. Pirrone era presente quando Kalanos, un venerabile indiano ammalatosi nel corso del viaggio ed era, con tutta evidenza, già [i]pronto[/i] alla morte, chiese che fosse allestita una pira, in cima alla quale salì. Al suo segnale, la pira, e lui con essa, furono ben presto avvolti dalle fiamme. La manifesta tranquillità e l’estremo autocontrollo (atarassia) con cui l’indiano si diede alla morte, impressionarono Pirrone. Quest’immagine d’imperturbabilità, in netto contrasto con la certezza di [i]possedere la verità[/i], venne a caratterizzare il filosofo ideale, impassibile al dolore, padrone di sé e privo d’ogni credenza. In risposta a questa terrificante dimostrazione di atarassia, Pirrone architettò la sua devastante filosofia scettica, sostanzialmente in tre punti: – Niente esiste – Laddove qualcosa esistesse, non potremmo conoscerlo – Se lo conoscessimo, non potremmo comunicarlo Inoltre, Pirrone presentò il dilemma seguente: il criterio di verità, col quale distinguiamo il vero dal falso, e viceversa, deve passare la prova di sé stesso; se non la passa, è un falso; se la passa, l’argomento sarà logicamente circolare (e tautologico): il criterio è vero perché è vero. Dunque, non si può mostrare che sia vero alcun criterio di verità. La filosofia scettica, nei suoi tratti caratteristici e caratterizzanti, ha trovato, nel corso dei secoli, maggior impeto laddove è stata ripresa, fatta propria e riproposta in chiave personalizzata, con l’ostentata intenzione di conferire sistematicità ed organicità al sistema dubitativo. Tra quanti si sono cimentati nell’impresa, val la pena citare quel René Descartes, italianizzato in Cartesio, al quale riconduciamo il [i]metodo del dubbio[/i]. Sia come ricerca della verità, che come critica polemica, lo scetticismo, nelle sua varie versione, ebbe un certo successo nell’antichità. Come molta parte della cultura antica, così anche la corrente scettica pian piano scomparve, cadde nel dimenticatoio, per poi venir riscoperta, nel corso del secolo XV, quando andò ad alimentare l’incendio provocato dal conflitto tra autorità religiosa e ricerca scientifica, campo già ampiamente minato e, non foss’altro che per ciò, del tutto instabile. Il succitato [i]metodo del dubbio[/i] cartesiano mirava, in realtà, a stabilire certezze e, quindi, a refutare lo scetticismo assoluto ed il pirronismo, i quali conoscevano allora un momento di “rinascita”. Cartesio non era uno scettico: utilizzava sì i metodi dello scetticismo, ma col preciso fine di giungere ad una verità indubitabile. Iniziava, così, a dubitare di tutto, ipotizzando come fallaci anche ciò che vedeva come ovvietà. Ma la sua opera di “demolizione generale dell’opinione comune” non era totale: proprio utilizzando questo metodo, egli scopriva un insieme ordinato di proposizioni di cui non poteva non garantire l’assoluta certezza. Queste proposizioni erano qualcosa di cui era, dunque, impossibile dubitare. Cartesio notò che i sensi, a volte, ci ingannano; il mondo fisico, così come ci è dato, sembra davvero reale: ma i sogni possono sembrare ugualmente reali, finché durano. Basta una semplice conta per verificare l’addizione di piccole somme (come 2+3); ma è anche possibile che un genio maligno onnipotente introduca una risposta falsa nella nostra mente: [i]crediamo[/i] solamente che la vera somma sia 5. Cartesio provava un senso di vertigine nel dubitare di tutto questo, ma, per così dire, riuscì a raddrizzarsi trovando un punto fisso al quale potersi saldamente ancorare. Scoprì, infatti, una verità incrollabile, che nessun dubbio poteva attaccare: [i]Io esisto[/i], perché sono io che dubito. Lasciamo pure che il demone maligno faccia del suo peggio: se è me che inganna, se io vengo veramente ingannato, allora io devo essere reale. La mia esperienza che io esisto. L’esistenza dell’Io (chiamato anche Mente, Spirito, Anima) divenne il fondamento primario dell’intera filosofia cartesiana, il principio fisso, invulnerabile ad ogni eventuale attacco scettico. [u]I problemi di Gettier[/u] Cos’è, allora, la conoscenza? Quali sono le sue proprieta? Per più di duemila anni, i filosofi hanno grossomodo accettato la definizione di Platone, secondo cui la conoscenza – nel senso di certezza riguardo a determinate proposizioni – è credenza vera giustificata. In tal senso, sapere qualcosa equivale, di fatto, a credere con buone ragioni che quel qualcosa sia vero. Negli anni Sessanta, Edmund Gettier suggerì che vi possono essere situazioni in cui una credenza vera giustificata non costituisce conoscenza. Come esempi, usò scenari che sono, da allora, noti come i [i]Problemi di Gettier[/i]. Il più noto di questi inerisce ai signori Smith e Jones, in competizione per lo stesso lavoro. [u]Primo problema[/u] Dopo averne avuto notizia da una fonte affidabile, Smith crede che Jones abbia ottenuto il lavoro. Inoltre, sa che Jones ha dieci monete in tasca. Smith inferisce, validamente, che il lavoro è andato ad un uomo che ha dieci monete in tasca. A sua insaputa, però, è proprio Smith ad aver ottenuto il lavoro; e, per puro caso, gli capita d’avere dieci monete in tasca, pur non essendone a conoscenza. La conclusione di Smith, quindi, è corretta: il lavoro è, a tutti gli effetti, andato ad un uomo con dieci monete in tasca. La sua inferenza è valida, la conclusione è vera e la sua fonte risulta autorevole, pur se in errore. Tuttavia, nonostante Smith abbia una credenza vera giustificata, possiamo davvero chiamarla conoscenza? [u]Secondo problema[/u] In un altro controesempio, Gettier presenta una situazione in cui Smith ha la credenza giustificata che Jones possieda una Ford. Consideriamo, ora, la proposizione “o P, o Q”. Se P è vero, allora la proposizione sarà ancora vera, sia che Q sia vero, sia che sia falso. Allo stesso modo, se Q è vero, allora la proposizione sarà ancora vera, sia che P sia vero, sia che sia falso. Quindi, fiducioso del fatto che Jones possiede una Ford, Smith conclude, giustificatamente, che “Jones possiede una Ford, o Brown è a Barcellona”, anche se non sa nulla di dove si trovi Brown. In realtà, Jones possiede una Chevrolet, ma Brown si trova effettivamente a Barcellona. Ergo: Smith ha una credenza che è vera e giustificata, ma – sostiene Gettier – non è conoscenza. [u](Presunte) Soluzioni[/u] Una soluzione al problema è affermare che non si tratti affatto d’un problema. “Credenza vera giustificata” (CVG) è una buona definizione di conoscenza, e, quindi, Smith ha conoscenza. Ma, d’altro canto, se ritenete che i casi di Gettier rivelino l’inadeguatezza della definizione classica, cos’è che potrebbe esser cambiato, o aggiunto, per migliorarla quale teoria della conoscenza? Diversi filosofi hanno suggerito che una quarta condizione dev’esser soddisfatta affinché ci sia ([i]legittima[/i]) conoscenza. In ciascuno dei due problemi, la CVG di Smith è fondata su una premessa falsa. Nel primo caso, Jones non ottiene il lavoro; nel secondo, Jones non possiede una Ford. Dunque, in entrambi i casi, Smith deriva una credenza vera giustificata da una credenza sì giustificata, ma falsa. Perciò, un modo di evitare i problemi posti dai suddetti esempi, consisterebbe nel dire che una CVG derivata da una premessa falsa non costituisce conoscenza. Tuttavia, è possibile fornire esempi, egualmente problematici, nei quali sembra non ci siano premesse false. Se credete che qualcuno è in una stanza perché pensate d’averlo visto, mentre in realtà avete visto un fantoccio, la vostra non è un’inferenza, bensì un giudizio basato sull’osservazione. Dunque, se una persona, effettivamente, è nella stanza, anche se non è lei che avete visto, la vostra credenza vera giustificata costituisce forse conoscenza? Un altro approccio, proposto da Alvin Goldman, richiede che vi debba essere una relazione causale “appropriata” tra la verità della proposizione e la credenza del soggetto. Perché una CVG costituisca conocenza, la verità stessa deve originare la credenza, ed il soggetto che intrattiene la credenza dev’esser capace di ricostruire la catena causale tra le due. Se ciò è vero, è la mancanza di questa condizione che spiega perché, negli esempi di Gettier, non v’è conoscenza. Rimane, però, un problema: definire cosa renda una catena causale “appropriata”, affidabile, validante. Alla fine degli anni Sessanta, Thomas Paxson e Keith Lehrer sostennero che una CVG costituisce conoscenza solo se non c’è alcuna informazione tale che, se il soggetto ne fosse al corrente, cancellerebbe, o renderebbe nulla, la credenza. Una credenza è invincibile se nessuna informazione potrebbe annullarla. Nel primo tra i due scenari di Gettier sopra proposti, se Smith fosse al corrente del fatto che Jones, in effetti, non ha ottenuto il lavoro, quest’informazione renderebbe nulla, e cancellerebbe, la credenza che il lavoro sia andato ad un uomo con dieci monete in tasca (giacché Smith, ricordo, non è consapevole di avercele). La CVG di Smith, dunque, non è conoscenza, secondo Paxson e Lehrer. Purtroppo, però, imporre alla conoscenza un requisito del genere, ci costringerebbe a buttar via il bambino con l’acqua sporca. Del resto, però, la validazione e legittimazione d’una conoscenza non si esaurisce qui, tant’è che non sono state lesinate argomentazioni rivolgentisi verso altre direzioni, altri fattori chiamati in causa, altri dubbi da (tentar di) dissipare, in maniera quanto più convincente possibile. Andando al dunque: cosa sapevamo quando siamo nati? Ovvero: un netto distinguo tra conoscenza innata e conoscenza acquisita. “Innata” significa, letteralmente, “esistente prima della nascita”, “congenita”. Se la conoscenza è credenza vera giustificata, allora quella innata è, per certo, uguale a zero. Quali credenze ha una mente prima di fare esperienze? Quale evidenza possiede il neonato prima di avere coscienza? Se non è nato con una predisposizione ad avere esperienze, come farà ad acquisire conoscenza altrimenti? Ma può, una semplice predisposizione, esser conoscenza? Ciò che è innato è una predisposizione, una potenzialità ad avere esperienze e ad acquisire conoscenza. La predisposizione dev’esser specifica: esser predisposti a tutto equivale, di fatto, ad esser predisposti a niente. Ma, d’altro canto, neppure dev’esser troppo specifica: il neonato umano non è predisposto ad imparare l’inglese piuttosto che l’italiano, ma qualsiasi linguaggio umano. Alcuni esperimenti hanno mostrato che i neonati ricordano le canzoni udite mentre erano ancora nel grembo materno. I bebè evidenziano la preferenza per una certa musica, dando una poppata più vigorosa alla mammella. Possiamo dire che i bebè conoscevano quelle canzoni già alla nascita? Una distinzione, a questo punto, è d’obbligo, dato che una cosa è la familiarità, anche quando sia un fondamento per la conoscenza, un altro paio di maniche è una credenza vera giustificata. Quello che lo psicologo chiama apprendimento, non è conoscenza per il filosofo; o, perlomeno, non lo è per il filosofo che aderisce alla definizione platonica di conoscenza. Il neonato batte le palpebre per un soffio d’aria; afferra, con la sua manina, il dito d’un adulto quando questi gli sfuora il palmo; gira la testa quando gli si carezza la guancia. Queste sequenze [i]fisse[/i] di azioni avvengono a livello puramente comportamentale? Il comportamento può evidenziare un saper-fare: ma è conoscenza? È qualcosa che può esser vero o falso? Può, la mera azione, esser la base della conoscenza? Prima d’inoltrare la quesione ad un livello storico-filosofico, credo occorra distinguere, anche qui, ciò che si presume possa costituire conoscenza innata, da ciò che, oggi come oggi, un po’ tutte le parti chiamate in cause nell’argomentazione sono concordi nel porre [i]esternamente[/i] alla conoscenza: i meccanismi innati; ovvero: istinti e pulsioni. In breve, gli istinti sono sequenze di risposta, tipiche e non apprese, a specifici stimoli nella realtà. Esempi ne sono la nidificazione degli uccelli, che – secondo mirati studi comportamentali – non viene loro insegnata, ed una varietà di comportamenti animali relativi alla caccia e all’accoppiamento. In sé stesso, l’istinto è una spiegazione insufficiente delle azioni umane. Le pulsioni sono stati psicologici che nascono in risposta a bisogni fisiologici, come la fama e la sessualità. Esigono d’esser soddisfatte, ma il comportamento per raggiunger tal fine non è specificato in alcun modo, ed è assai flessibile, tant’è che, nel caso della sessualità, ad esempio, talune persone riescono a vivere un’esistenza che dichiarano felice senza soddisfarne la pulsione. A grandi linee, secondo un’analisi delle varie correnti filosofiche che, nell’epoca moderna, si sono cimentate nella definizione della capacità conoscitiva dell’uomo, possiamo ricondurre il tutto – senz’altro un po’ grossolanamente – ad empirismo (tutta la conoscenza deriva dai sensi e dalle esperienze sensoriali), innatismo (siamo nati con delle predisposizioni che permettono alla conoscenza e ai comportamenti complessi di scaturire in risposta all’esperienza), razionalismo (la ragione è una fonte della conoscenza, indipendentemente dai sensi). I filosofi, pertanto, sono divisi circa l’importanza della conoscenza innata. Alcuni negano la sua esistenza, battendo chiodo sull’asserzione secondo la quale, prescindendo dall’esperienza, la mente del neonato è vuota, come una lavagna bianca (Aristotele), o come una [i]tabula rasa[/i] (Locke), in attesa che l’esperienza vi intinga le proprie impronte. Queste concezioni sono dette, per l’appunto, empiriste, dal termine greco [i]empeiria[/i] (esperienza): i sensi sono la prima, se non l’unica, fonte di conoscenza. Tra gli esponenti d’eccellenza dell’empirismo classico, cito, fra tutti, Hobbes e Hume. Grazie a Darwin, comunque, gli empiristi dovettere riconoscere che un ruolo importante era rivestito dall’ereditarietà e dalle tendenza congenite; ma questa forma d’innatismo si limita agli istinti, ai sentimenti, all’azione. La mente del bambino appena nato è ancora una lavagna vuota, priva delle idee che l’esperienza poi giunge a fornirle. Tuttavia, anche se il feto che ste per esser messo al mondo non ha credenze, idee o conoscenza, i filosofi empiristi hanno spesso ammesso che nasciamo con certe predisposizioni innate alla conoscenza, con un potenziale specifico per l’esperienza, come la visione dei colori. Siamo già pronti per raggiungere particolari obiettivi epistemici, come l’acquisizione della lingua madre. Gli empiristi che accettano l’idea della predisposizioni innate a conoscere, possono risultare praticamente indistinguibili dai razionalisti, loro “avversari” storici. I razionalisti pongono l’accento sull’importanza della conoscenza innata e, più in generale, di tutte le [i]verità[/i] che la ragione può scoprire indipendentemente dai sensi. Essi, però, spesso si fermano all’affermare che la cosiddetta conoscenza innata esiste solo a livello potenziale. Di Cartesio, ad esempio, è ben nota anche la sua insistenza circa le idee innate, ma chiarisce che trattasi, di tendenze specifiche, piuttosto che di contenuti preconfezionati. Cartesio, addirittura, paragona le idee innate alla gotta, malattia infiammatoria invalidante a carattere familiare: il bambino, alla nascita, non ha la malattia, ma solo la predisposizione ereditaria a svilupparla. Leibniz, altro grande tra i razionalisti, usa un’immagine più “poetica”: le idee innate sono come venature nel blocco di marmo d’uno scultore, le quali predispongono la pietra a produrre una certa statua piuttosto che un’altra. Il razionalismo è tornato prepotentemente in auge proprio nel corrente secolo, o, per meglio dire, a cavallo tra il XX ed il XXI, conseguentemente alla formulazione, da parte di Noam Chomsky, della [i]teoria della grammatica universale[/i]: vi è un meccanismo innato che alla nascita è in uno stadio iniziale, ma che, in effetti, è in grado d’esser programmato dall’esperienza in modo tale da acquisire la conoscenza della grammatica. L’esperienza, sostiene Chomsky da sola non è sufficiente a fornire una conoscenza grammaticale complessa, senza presupporre l’esistenza d’un dispositivo d’acquisizione linguistica, di cui il cervello del neonato è già biologicamente dotato. Il problema scientifico, semmai, è come descriver correttamente tale dispositivo. Chomsky paragona il compito del bambino alle prese coll’apprendimento d’una lingua, al problema del giovane nel [i]Menone[/i] di Platone. Come ho scritto prima, il ragazzo, all’oscuro della geometria, è comunque condotto, per mezzo di sole domande, alla dimostrazione d’un particolare teorema geometrico. Le domande, di per sé stesse, non contengono informazioni [i]sufficienti[/i] alla dimostrazione del teorema, dunque, il ragazzo deve, giocoforza, aver apportato una conoscenza che possedeva anzitempo, inconsapevolmente. Questa conoscenza viene [i]estratta[/i] da lui, non [i]inserita[/i] in lui tramite ll’insegnamento. Platone conclude – ripeto quanto precedentemente scritto – che il ragazzo deve aver avuto [i]in sé[/i] questa conoscenza, acquisendola in un’esistenza precedente. “Il problema di Platone, dunque, è spiegare come facciamo a conoscere quel tanto dato che l’evidenza che ci è disponibile è così scarsa” (Noam Chomsky, 1986) Chomsky argomento che, nel corso dell’acquisizione kinguistica, il bambino non riceve nozioni di grammatica, ma è condotto, per mezzo dell’interazione con altri esseri umani, a manifestare la propria conosceza grammaticale di una lingua particolare. I bambino giungono a conoscere la grammatica della loro lingua nativa, non come fa un insegnante, il quale è in grado di spiegarla, ma dimostrando la loro conoscenza nella pratica di seguire determinate regole nella produzione e nell’interpretazione di frasi in quella lingua. Per Chomsky, l’input di esperienza di cui gode il bambino – l’insieme di tutte le frasi che ha avuto modo di ascoltare – è assai povero (proprio come lo sono le domande di Socrate), perlomeno in rapporto alla quantità di frasi che si dimostra in grado di riconoscere come grammaticalmente corrette o meno. Lo stimolo rappresentato dall’interazione sociale non riesce a spiegare la competenza linguistica ch’emerge. Un bambino che apprende l’inglese non ha già [i]in sé[/i] la grammatica dell’inglese, ma deve avere una qualche capacità, o predisposizione innata, che, insieme, all’input (più o meno scarso) dell’esperienza, gli fornisce questa notevole competenza. Chomsky, in un certo senso, è concorde con Platone circa l’assunto che questa capacità innata – che definisce [i]grammatica universale[/i] – sia acquisita in una [i]vita precedente[/i]. Tuttavia, occorre specificare che Chomsky fa riferimento alla storia evolutiva dell’uomo, piuttosto che ad una qualche pre-esistenza dell’anima, od alla reincarnazione. La biologia ha dotato il cervello del bambino appena nato d’un dispositivo specializzato all’acquisizione di qualsiasi linguaggio umano, dati gli input appropriati. Lo studio della capacità umana di possedere un linguaggio diventa, così, lo studio della nostra dotazione genetica. “La grammatica universale può essere considerata una caratterizzazione della facoltà linguistica, geneticamente determinata. Si può pensare a questa facoltà come a un dispositivo di acquisizione linguistica, una componente innata della mente umana che produce una lingua particolare grazie all’interazione con l’esperienza che ci è data, un dispositivo che converte l’esperienza in un sistema di conoscenze acquisite: la conoscenza di questa o quella lingua” (Noam Chomsky, 1986) Chomsky ritiene che il dispositivo di acquisizione linguistica sia un organo del linguaggio all’interno del cervello. Coltiviamo una lingua, piuttosto che impararla. Il dispositivo è concepito come una macchina biologica con un numero finito di interruttori, fissati dall’esperienza linguistica alla quale siamo sottoposti. Premendo un interruttore, la macchina conosce la grammatica inglese, premendone un altro, conosce quella swahili o quella giapponese. Tutte le possibile lingue umane sono rappresentate nelle varie impostazioni di questi interruttori. L’ordine delle parole, inoltre, è importante per il significato. C’è una bella differenzase il cane morde l’uomo, o l’uomo morde il cane. Ma l’ordine superficiale delle parole non basta a determinare il significato; le parole devono anche ricoprire ruoli grammaticali ben definiti, e qusto si può fare in modi diversi, mantendendo inalterato l’ordine delle parole. Quale valido esempio, prendiamo in considerazione queste due frasi, che suonano simili: – Fino a dove verso l’acqua? – Vai dove ti pare, ma non verso il vino! Nella prima, “verso” è un verbo (prima persona singolare dell’indicativo presente di “versare”), mentre nella seconda è una preposizione. Ma questa è solo la lettura più [i]naturale[/i], più immediata, credo. “Verso” può essere anche letto come una preposizione nella prima frase, e come verbo nella seconda. Frasi di questo tipo vengono chiamate anfibolie: ciascuna, cioè, ha due significati. Quella che definiamo “percezione”, quindi, riveste un ruolo molto importante [i]internamente[/i] alla conoscenza, oppure, per certi versi, [i]preliminarmente[/i]. La [i]percezione[/i], infatti, differisce dalla [i]sensazione[/i] in quanto, mentre quest’ultima si limita all’informazione sensoriale, la prima ne fornise un’interpretazione. È un’idea piuttosto influente, sia in filosofia che in psicologia, che nella perceziane siamo sempre e solo consapevoli dei contenuti della nostra mente. La cosapevolezza e, dunque, la conoscenza del mondo esterno, è indiretta, mediata dalle nostre rappresentazioni mentali. In prima istanza, le nostre percezioni, di fatto, vanno a formare il [i]nostro mondo[/i]. Ci è preclusa la possibilità di [i]vedere[/i] quello che c’è [i]dietro[/i] una rappresentazione, ergo: la realtà esterna è sempre filtrata attraverso i sensi. Provate, ad esempio, a dilettarvi in quest’esperimento del tutto accessibile: prendete tre secchi, pieni d’acqua a diverse temperature: uno con acqua fredda, uno a temperatura ambiente e l’altro con acqua calda. Disponeteli in ordine davanti a voi, dopodiché immergete le mani nell’acqua: chessò, la mano destra nell’acqua fredda e la sinistra in quella calda. Attendete mezzo minuto, poi estraete le mani e inseritele nell’acqua a temperatura ambiente. Come percepite, ora, quell’acqua? Con la mano destra, fredda, dovreste sentire l’acqua piuttosto calda, e viceversa. Dunque: com’è l’acqua, calda o fredda? Questo enigma, se così vogliamo chiamarlo, si deve al celebre filosofo John Locke, ed è paragonabile a quell’altro famoso vecchio enigma dell’albero che cade nella foresta dove non v’è alcun orecchio che possa udirlo: farà rumore l’albero? La soluzione, in enrambi i casi, sta nel compiere una distinzione tanto plausibile quanto sorprendenti sono le sue conseguenze. I termini per le qualità percettive, come [i]suono[/i], [i]caldo[/i], [i]freddo[/i], sono ambigui. Se, per [i]suono[/i], s’intende una serie d’oscillazioni della pressioni locale dell’aria, allora non v’è dubbio che i suoni, in quanto onde, vengono emanati dall’albero che cade, pur se nessuno v’è a percepirli. Ma, se per [i]suono[/i] intendiamo, invece, l’oggetto immediato delle nostre esperienze uditive, allora, nel caso dell’albero, non vi è alcun suono. Il suono fisico esiste anche senza la presenza d’un ascoltatore, ma niente può esser sentito senza qualcuno che ascolti. Non vi è suono [i]soggettivo[/i] senza [i]soggetto[/i]. Una cosa è sapere come suona una nota alta, ma un’altra è sapere che le note alte sono associate ad oscillazioni rapide della pressione dell’aria. I musicisti sono venuti prima dei fisici del uono. L’esperienza soggettiva degli alti e dei bassi può esser provocata da oscillazioni più o meno rapide, ma la realtà soggettiva, il suono, non è identica alla realtà misurabile. L’esperienza non è completamente spiegabile in termini fisici. Il filosofo irlandese George Berkeley arrivò a negare la realtà della materia e d’ogni cosa al di fuori della mente. Il suo celebre motto è “essere è esser percepito”: l’esistenza di qualcosa non è altro che il suo verificarsi all’interno d’una qualche mente. Berkeley, pertanto, considerava la gravitazione di Newton alla stregua d’una forza occulta: trattasi, dopotutto, di azione a distanza. Come può, la Terra, attrarre la Luna, o anche solo una mela [i]senza toccarle[/i]? Si narra che Samuel Johnson, famoso lessicografo e spirito arguto, abbia dato un calcio ad una pietra per dimostrare la falsità dell’immaterialismo di Berkeley: “Lo confuto così!”. Naturalmente, Berkeley mai s’era sognato di dire che non fosse possibile dare un calcio ad una pietra. Avrebbe, invece, asserito che l’idea del piede, l’idea della pietra e quella di prenderla a calci, devono per forza esistere tutte in una stessa mente. Il [i]calore[/i], come s’è visto, è altrettanto ambiguo. Se, per [i]calore[/i], intendiamo energia cinetica media, o velocità molecolare media, allora esso esiste indipendentemente da qualcuno che lo percepisca. La velocità media delle molecole dell’acqua nel secchio a temperatura ambiente, sebbene venga alterata dall’immersione delle nostre mani, non è diversa a seconda delle mani. Se, invece, per [i]calore[/i] s’intende l’esperienza di caldo intenso, allora il calore è diverso da mano a mano. In realtà, ovviamente, c’è una ragione fisica per questo fenomeno: i nervi implicati non stanno affatto registrando la temperatura dell’acqua, ma solo il cambiamento di temperatura delle mani stesse. Questo varia a seconda della mano, ma la temperatura di entrambe tende a fissarsi sulla base della temperatura dell’acqua del secchio. La vista, per certi aspetti, è soggetta ad un dualismo ancor più profondo. I colori non sono comparabili intersoggettivamente. Voi ed io possiamo facilmente esser concordi che quest banana e quell’ananas sono entrambi gialli, ma non possiamo determinare se le nostre esperienze del giallo sono simili. Potrà mai la fisiologia superare questa incommensurabilità?


Abajia - 22/11/2009 alle 01:56

Il filosofo ingelse G. E. Moore cercò di provare [i]la realtà del mondo esterno alla mente[/i], affermando, senza troppi indugi, “questa è una mano!”, mentre la sollevava. Voleva esser la rivincita del senso comune in filosofia. Siete persuasi dall’esempio di Moore? Se lo siete, cosa potrebbe farvene dubitare anche solo un poco? Se non siete persuasi, quale altro tipo di evidenza vi potrebbe concincere della realtà del mondo esterno? Lasciando da parte l’esperienza sensoriale, e rivolgendo un attimo lo sguardo alla percezione [i]del tutto mentale[/i], magari legata sì alla vista – in quato state leggendo –, ma prescindente dal tatto, dal gusto, dall’olfatto e dall’udito, qui calza a pennello un bel paradosso, che, però, così come il succitato test in merito ai pregiudizi cognitivi, vi lascio desiderare ancora un po’ (cosicché, laddove qualche d’uno ne facesse richiesta, saprei che qualcuno che ha avuto la premura di leggere almeno fin qui c’è!). :P [u]Tre teorie della verità[/u] Esistono tre teorie tradizionali della verità. Una afferma che la verità è corrispondenza: ad esempio, tra una credenza ed un fatto, tra asserzione e realtà, come abbiamo visto. La seconda sostiene che la verità consiste in una qualche relazione logica esibita da una credenza o da una programmazione con altre credenze o proposizioni; di nuovo, quindi, la verità è una specie di relazione, ma di coerenza, piuttosto che di corrispondenza. La terza teoria collega la verità con un qualche valore pratica, ed è, perciò, detta teoria pragmatica della verità. In genere, razionalisti ed idealisti vedono la verità come coerenza, mentre gli empiristi preferiscono la teoria della corrispondenza o quella pragmatica. [u]Verità come corrispondenza[/u] La prima teoria considera la verità come corrispondenza tra credenze e realtà. Una credenza (un enunciato, una proposizione) è vero sole se corrisponde alla realtà che rappresenta. Un’affermazione è vera solo se quello che afferma è ciò che si verifica, se rappresenta, cioè, le cose nel modo in cui stanno; se le cose stanno come la proposizione afferma, allora la proposizione è vera, altrimenti è falsa. La falsità è mancanza di corrispondenza, dunque. V’è un dibattito continuo circa la natura di codesta corrispondenza. Secondo una certa concezione, la corrispondenza è come una copia che rappresenta tutti gli elementi d’uno stato di cose e le loro interrelazioni (l’originale). La realtà è [i]come[/i] la nostra credenza vera intorno ad essa: proprio nel modo in cui pensiamo che sia. Il modo in cui ci appare il giallo, ovvero la credenza che il giallo ci appaia come tale e non [i]copia[/i], è ragion [i] sufficiente[/i] a validare una concezione assoluta di giallo. Ma un’immagine digitalizzata esiste come informazione contenuta nell’hard disk di un computer, anche quando questa non viene visualizzata. La rappresentazione elettronica è un modello di corrispondenza diverso dalla semplice copia. Alla stessa maniera, le rappresentazioni mentali e gli enunciati linguistici possono mappare la realtà astrattamente: la corrispondenza diventa isomorfismo. L’enunciato “questo-è-così” ha la struttura grammaticale [i]soggetto-copula-predicato[/i], la quale riproduce una presunta struttura della realtà come [i]entità-avente-una qualità[/i]. A mio modesto avviso, già solo il fatto che le percezioni, che nei [i]dettagli[/i] differiscono da persona a persona, siano condizionanti ai fini dell’esperienza, scredita l’assunto secondo cui si possa parlare, per ogni cosa, di [i]verità[/i] al singolare. Voglio dire: A e B possono esser concordi nell’affermare che “questo è giallo”, e sono concordi anche nel definire C quale acianobleptico, laddove questi dicesse “no, questo è grigio”, ma se A percepisse un giallo di Napoli (40% giallo; grazie Zanichelli :D ), e B un giallo chiaro (60% giallo)? Sarebbe, pertanto, lecito parlare di “più di una verità circa una stessa corrispondenza”. [u]Verita come coerenza[/u] La seconda teoria parte dall’idea che la verità è qualcosa che [i]ha senso[/i] – la verità dev’essere, per l’appunto, coerente. Preferita dai razionalisti, grandi costruttori di sistemi filosofici, questa concezione deriva dalla convinzione che la verità è una, che la verità intera è [i]più vera[/i] d’ogni singola verità, e che tutte le verità si connettono intrecciandosi in un unico ordine. Questo sistema ha senso, è coerente, si tiene in piede da solo. Nelle scienze, scopo della ricerca è trovare leggi generali a partire dalle quali, con l’ausilio di condizioni iniziali, siamo in grado di prevedere logicamente un certo evento. Le dimostrazioni scientifiche utilizzano una forma di deduzione ipotetica per giustificare l’aspettativa di certe osservazioni future, a partire da osservazioni attuali e regolarità passate. In matematica, seguendo rigorosamente le regole di inferenza, si possono dedurre risultati nuovi ed inattesi da assiomi o verità già stabilite. Le interconnessioni logiche derivano da interconnessioni ontologiche. La ragioneè il filo d’Arianna della verità, quell’unità che ci conduce al di fuori del labirinto dell’ignoranza. Anche l’etica si tiene in piedi da sola: i principi etici sono coesi tra loro. Anzi, la coerenza della verità scientifica e matematica da’ forza alla speranza che non sia un’illusione quel senso d’unione che lega tutti gli uomini sulla zattera di salvataggio che è il mondo. Il mondo, a volte, ci può apparire irrazionale, indifferente, o anche benignamente neutrale, ma questo è perché non siamo ancora penetrati nel suo cuore morale, o non abbiamo ancora colto lo sguardo dell’occhio divino, il quale darebbe al mondo un senso morale, solido quanto una dimsotrazione matematica (si coglie l’ironia?). Bah, si potrebbe desumere una sorta di pretesa imperialistica dall’ingiunzione d’un sistema etico validamente esteso a miliardi di persone, ma, filosoficamente parlando, non è un motivo valido per deferirlo. Direi, piuttosto, che, se le verità sono dedotte da altre verità, da dove vengone le [i]prime[/i] verità? Per evitare il regresso all’infinito ci devono essere alcune verità che non sono dedotte, ma le cosiddette proposizioni auto-evidenti (evidenti di per sé stesse) sono, molto spesso (vi risparmio il sempre) vuote tautologie. Una concezione “marxista” della conoscenza (in senso lato, ovvero intesa come: è vero ciò che è vero per la maggioranza) non so quale gran senso possa avere; un conto è quando parlasi di una comune utilità pratica, ma qui la partita si gioca su un campo differente. [u]Verità come valore pratico[/u] La teoria pragmatica identifica la verità d’una credenza con l’apporto che essa conferisce alla nostra esperienza. In termini spicci, la verità è ciò che [i]funziona[/i]. Più precisamente, la verità è sia un processo di corroborazione e di verifica, sia il risultato parziale e costantemente aggiornato di tale processo. Il pragmatista mira a trarre la verità come fa uno sperimentatore. Costui accorda il suo assenso ad una proposizione, solo se questa è validata dalla prova scientifica. In altre parole, bisogna compiere specifiche previsioni, basate rigorosamente su un’ipotesi precisa, e poi verificare che le previsioni risultino corrette. In breve, un’ipotesi deve dare il proprio contributo al [i]modo[/i] in cui [i]va[/i] un esperimento; tale contributo per l’esperienza possibile è il significato, il valore della proposizione ipotizzata. Poiché verità e significato vanno a braccetto, la verità della proposizione consiste proprio nel significato che emerge, nelle esperienze possibili che effettivamente si verificano. La concezione pragmatica sostiene che il significato d’una proposizione scientifica si mostri tramite i suoi stessi metodi di verifica, necessariamente basati sull’esperienza. Una verità scientifica è conosciuta come tale, se tutte le procedure sperimentali che, in linea di principio, potrebbero invalidarla, non riescono a farlo. Se una proposizione non apporta un contributo possibile all’esperienza, allora è semplice non-senso, né vera, né falsa. In contesti quotidiani, il test dell’esperienza pratica sostituisce il test dell’esperimento scientifico. Il significato d’una credenza equivale alle conseguenze d’un’azione. La credenza che sta per piovere è futile, se non conduce a prendere l’ombrello e a proteggersi. Cos’è la credenza in Dio, se non un impegno a vivere secondo i Suoi princìpi? Una credenza che non apporta alcuna differenza pratica nelle nostre vite, è mera apparenza. La verità d’una credenza consiste nella sua [i]utilità[/i]. La teoria pragmatica giustifica, in casi limitati, la volontà di credere, basata su sentimenti di speranza, fiducia, o amore. I fatti verificabili della scienza sono ivi fuor di questione. La teoria pragmatica ci libera sia dal bisogno di dimostrare l’esistenza d’un universo morale corrispondente alle nostre credenze, sia dall’aspettativa d’una dimostrazione completa e rigorosa da parte della sola ragione. La fede può andar bene da un punto di vista epistemico, se il suo frutto è un’esistenza più ricca. Inoltre, [i]alcune cose sono vere solo se ci crediamo[/i]. Se ognuno si fida del prossimo, possiamo tutti vivere pacificamente. La mia credenza che ognuno si fidi del prossimo, rende [i]più vero[/i] che, in effetti, così possa accadere, e rende, a sua volta, più ragionevole la credenza per gli altri. Ad alcune cose dobbiam tutti credere assieme, affinché siano vere: e non possiam credere tutti quanti se non si da’ il caso che ognuno creda. Per tutti questi aspetti, la teoria pragmatica risulta come un qualcosa che, di fatto, mira a ridurre la verità a mera [i]convenienza[/i]: se credere che fra poco pioverà mi convince del fatto che sia meglio munirsi d’ombrello, allora ben venga questa credenza. E… porca miseria quanto sta bene, quest’assunto, ampliato alla sfera religiosa! Voglio chiudere questa prima parte di simil dissertazione (come l’ho definita parecchie righe più sopra) con un filosofo “dubitativo”, nella speranza che qualche enunciato possa far breccia in quelle menti che ri reputano sorrette da chissà quali immani convincimenti di fondo. :P [u]Davide Hume[/u] distingue i tipi di verità e i modi relativi di conoscerle. Egli distingue le “relazioni di idee”, che possiamo conoscere a priori (ad esempio, ogni proposizione la cui negazione è una contraddizione) dai “dati di fatto”, che possiamo determinare solo e soltanto empiricamente. Tra le prime, vi sono le proposizioni matematiche e le tautologie; esse possono esser conosciute a priori, indipendentemente dalla testimonianza fornita dai sensi. I dati di fatto, invece, implicano affermazioni empiriche, di esistenza, piuttosto che la sola consistenza logica. [u]Il problema dell’induzione[/u] Il Sole è sorto ogni giorno della storia della Terra. Penserete che questa è una ragion sufficiente per concludere che domani sorgerà di nuovo. Le probabilità sono senz’altro a favore d’una tale ipotesi. Ma è anche possibile che non sorga. Non vi sarebbe auto-contraddizione se, per qualche motivo, il Sole si spegnesse prima che venga domani. Non possiamo sapere a priori che sorgerà. Resta logicamente possibile che non lo faccia, checché se ne discuta, persino se è vero che, nel passato, il Sole è sorto un numero di volte che sfido a quantificare. Ciò che è stato, mai può legittimamente [i]dimostrare[/i] ciò che sarà. L’induzione non conferisce certezza alcuna. Un insieme di fatti successi ieri non dimostra alcunché circa il futuro: solo che, per l’appunto, sono successi. Il ragionamento induttivo assume che ciò che [i]di solito[/i] s’è verificato, continuerà [i]di solito[/i] a verificarsi. Hume applica la sua critica scettica anche al ragionamento causale. Si pensa che le cause rendano necessario il loro effetto, piuttosto ch’essere solo regolarmente congiunte ad esso. Ma i sensi ci informano dei dati di fatto, e, tra questi, non vi sono congiunzioni necessarie. Nonostante le nostre aspettative, non v’è auto-contraddizione se la causa occorre, ma l’effetto non segue. [u]Il contro-problema della contro-induzione[/u] L’induzione ha sempre funzionato nel passato, quindi, dovrebbe funzionare anche ora. Il problema è che anche questo ragionamento è induttivo. Saremmo in un circolo vizioso, se usassimo l’induzione per giustificare l’induzione. Per meglio inquadrare il problema, considerate il principio di contro-induzione. La contro-induzione è una forma di ragionamento, opposta all’induzione, ch’è evidenziata dalla fallacia del giocatore: dopo una lunga serie sfortunata, un giocatore perdente può aver la sensazione che il suo momento fortunato sia arrivato, e che la fortuna, finalmente, passerà dalla sua parte al prossimo lancio di dadi, o, comunque, di lì a poco. La lunga serie di perdite che ha subito è così [i]improbabile[/i] che, molto presto, non potrà che iniziare a vincere. Il principio generale, qui, è contro-induttivo: se una cosa non ha funzionato nel passato, dovrà improvvisamente cominciare a funzionare. Osserverete che questa è pura follia: questo tipo di ragionamento mai è stato valido. Ma, risponde il giocatore, forse proprio per questo oggi inizierà a funzionare! Del resto, se l’induzione dimostra l’induzione, perché la contro-induzione non può dimostrare la contro-induzione? [u]La ragione: niente più che un utensile[/u] Hume riduce la ragione a quella che è nota come [i]ragione strumentale[/i]. Egli capovolge la metafora (etica e politica) di Platone, secondo cui la ragione deve governare desideri e passioni. Tale era l’immagine platonica d’un’anima giusta, bene ordinata. Hume, al contrario, disse che “la ragione è, e dev’essere, schiava delle passioni”, per sua stessa natura. La ragione non ha potere motivante. La funzione e lo scopo della ragione è di decidere tra mezzi alternativi per un certo fine, mostrando quale di questi realizzi con più efficacia l’obiettivo. Di per sé, la ragione non determina i nostri fini, solo la passione può farlo per noi. La ragione può anche aiutarci a calcolare, tra diversi obiettivi in competizione tra loro, quali sono i costi e quali i vantaggi di ciascuno, ma è impotente a decretare quale sia il [i]migliore[/i], a meno che i nostri sentimenti non l’informino circa le conseguenze che preferiamo. La ragione non fa da peso, né da contrappeso, alle nostre passioni, e non comanda i desideri: è solo uno strumento per la nostra soddisfazione. [u]È illegittimo derivare un “deve” da un “è”[/u] A Hume s’è spesso attribuita la scoperta del [i]paralogismo naturalistico[/i], o [i]fallacia naturalistica[/i], un’inferenza logicamente [i]non-corretta[/i] che compiamo nel ragionamento morale. Il punto, in breve, è che nessun insieme di fatti può bastare a provare un principio morale. Da una semplice descrizione, non segue alcuna prescrizione. La necessità etica non può esser derivata da fatti conosciuti empiricamente; ciò non significa che i fatti siano irrilevanti per l’etica, ma ciò che è non ha alcuna autorità per stabilire quello che dev’essere. Per Hume, trattasi d’un principio logico: “da quello che è, è stato, o sarà, non segue quello che [i]deve essere[/i]”. Chiudo qui, per ora, dunque. E pazienza se l’accezione di [i]passione[/i], in Hume, non s’approssima ai canoni “mocciani” :D : preferisco non svelare l’”inganno” e lasciare che l’immagine poetica faccia sì, che, dopotutto… “massì, la filosofia è pure piacevole, allora!”. Ve l’avevo annunciato che avrei adoperato un tono libresco, quanto più comprensibile possibile; magari non terra terra, ma mi sono “esimato” (come dite? Participio pass… cosa? Cosa? Non esiste… cosa? Com’è che dite? Bah! :D ) dal lanciarmi in arzigogolati periodi di stampo boccaccesco. Anche le nozioni, sonstanzialmente, sono libresche; non di seconda o terza mano, ma sta di fatto che le mie personali idee circa tutto l’ambaradan (a proposito, ho scoperto solo qualche giorno fa, grazie ad una via di Roma, l’esistenza del rilievo montuoso etiope denominato Amba Aradam, dal quale “ambaradan” tra evidentemente significato; toh!) filosofico e, di conseguenza, socio-culturale, non sono filtrate. Approssimativamente, potrei dire che, fra tutte le nozioni sopraesposte, sono pochi, se non pochissimi, i tratti coi quali sentirei d’aderire; e anche in quei casi, mai a piene mani. Non è che non abbia opinioni proprie a riguardo, ma, del resto, se anche così fosse, diceva Pirandello che “rifiutare di avere delle opinioni, è il modo di averle”. Dunque, perché indugiare? Beh, perché siamo ancora all’inizio: vi spiattellerò noiosità a non finire, nella speranza che, quando dirò la mia su [i]tutto[/i], sarete già ben stufi di frequentare questo thread: potrei trovarmi attaccato da ogni dove! … ... mmmmm… il che, a pensarci, in fin dei conti mi stuzzica parecchio! :Od: PS: Qualcuno nutre ancora dei dubbi in merito al fatto ch’io sia completamente pazzo? [i](continua…)[/i]


Subsonico - 22/11/2009 alle 11:20

...ma tu ci vuoi morti!!


Laura Idril - 22/11/2009 alle 11:37

Abi, cucciolo, dobbiamo fare una chiacchierata noi due... '^^


UribeZubia - 22/11/2009 alle 11:47

[b]Ma gavte la nata ![/b] :D Quella volta Belbo aveva perso il controllo. Almeno, come poteva perdere il controllo lui. Aveva atteso che Agliè fosse uscito e aveva detto tra i denti: “Ma gavte la nata.” Lorenza, che stava ancora facendo gesti complici di allegrezza, gli aveva chiesto che cosa volesse dire. “È torinese. Significa levati il tappo, ovvero, se preferisci, voglia ella levarsi il tappo. In presenza di persona altezzosa e impettita, la si suppone enfiata dalla propria immodestia, e parimenti si suppone che tale smodata autoconsiderazione tenga in vita il corpo dilatato solo in virtù di un tappo che, infilato nello sfintere, impedisca che tutta quella aerostatica dignità si dissolva, talché, invitando il soggetto a togliersi esso turacciolo, lo si condanna a perseguire il proprio irreversibile afflosciamento, non di rado accompagnato da sibilo acutissimo e riduzione del superstite involucro esterno a povera cosa, scarna immagine ed esangue fantasma della prisca maestà.” da Il pendolo di Foucault di Umberto Eco :bla:


pedalando - 22/11/2009 alle 11:59

[quote][i]Originariamente inviato da Laura Idril [/i] Abi, cucciolo, dobbiamo fare una chiacchierata noi due... '^^ [/quote] si' bisogna assolutamente trovare chi gli rimette a posto il ginocchio :D


forzainter - 22/11/2009 alle 12:04

Ma le partite del campionato spagnolo non le guardi piu'?


uffa - 22/11/2009 alle 14:08

C'è poco da scherzare: è grave...


Abajia - 22/11/2009 alle 14:10

[quote][i]Originariamente inviato da Subsonico [/i] ...ma tu ci vuoi morti!![/quote] La mia è, a tutti gli effetti, un'indelicatezza, sì. :Od: :hippy:


Abajia - 22/11/2009 alle 14:20

[quote][i]Originariamente inviato da Laura Idril [/i] Abi, cucciolo, dobbiamo fare una chiacchierata noi due... '^^[/quote] Penso di capire il tenore delle tue preoccupazioni, e... beh, mi sentirei di smentirle a priori, ma vabbè, ben venga la chiacchierata! :D [quote][i]Originariamente inviato da pedalando [/i] bisogna assolutamente trovare chi gli rimette a posto il ginocchio :D[/quote] Trovato, forse, ma forse! A dicembre inizio le terapie, 15 sedute di laser e 15 di ultrasioni, oltreché un po' di posturale. A quanto pare, siamo in tanti a sperare che la cura dia quanto prima i suoi frutti. :D


Abajia - 22/11/2009 alle 14:37

[quote][i]Originariamente inviato da uffa [/i] C'è poco da scherzare: è grave...[/quote] Dopo due anni trascorsi dovendo, mio malgrado, rinunciare alla bici, la logica conseguenza era che sfociassi nella pazzia. Così è stato. :cool: [quote][i]Originariamente inviato da forzainter [/i] Ma le partite del campionato spagnolo non le guardi piu'?[/quote] Ora sto a Roma e non ho Sky. Però dovrei provvedere entro un paio di settimane: pacchetti 'calcio' e 'sport' insieme a 'mondo'. Quanto a Uribe, gli mando una bella pernacchia! :bll: [quote][i]Originariamente inviato da Abajia [/i] se A percepisse un giallo di Napoli (40% giallo; grazie [b]Zanichelli[/b] :D ), e B un giallo chiaro (60% giallo)?[/quote] È indubbio che anche la casa editrice abbia i suoi meriti, ma forse sarebbe più adeguato rivolgere i ringraziamenti maggiori a Nicola Zingarelli. :D Mi sono accorto stanotte, in sogno, di questo qui pro quo. Non chiedetemi come. :Od:


Donchisciotte - 22/11/2009 alle 19:32

Saremo pazzi in due ma il tuo thread mi piace moltissimo, soprattutto mi piace l'idea e il tempo e l'impegno che ci hai messo. Ovviamente la filosofia non è morta e tanti mali del mondo nascono dalla sufficienza con cui si guarda al ragionare filosofico. Per cui, caro Abaija, per quanto non sia abituata a leggere cose troppo lunghe su uno schemo del computer, ti leggo con grande piacere. Nell'epoca della scienza che si traveste da onniscienza, questo thread è un'aria pura, da respirare con calma.


Abajia - 22/11/2009 alle 23:50

Ti ringrazio, Maria Rita. Apprezzo la tua volontà di lanciarti nella lettura, cosa che mi fa piacere già solo a prescindere dall'effettiva realizzazione del proposito: molti non la prenderebbero neppur minimamente in considerazione come ipotesi. :D Del resto, ho già avuto modo di dire che l'altrui reazione non è un deterrente valido a frenare i miei propositi; in sostanza: chissene! :Od: A parte tutto, comunque, ti metto in guardia: come ho anticipato, ti sembrerà di leggere nulla di "nuovo", nel senso che riservo le idee personali ad una fase successiva dello sviluppo del topic (nella speranza che...), dunque molto di ciò che leggerai magari farà già parte delle tue competenze culturali. Delle tue come di molti altri, proprio perché, ripeto, sono concetti espressi, a tutti gli effetti, con quel che di libresco che li fa passare per noiosi, ed il sottoscritto quale un altezzoso e saccente. Pazienza. L'idea è quella di promuovere argomenti che verranno man mano personalizzati, da tutti, e, quindi, resi del tutto personali, e questo proprio partendo da basi e temi sostanzialmente "classici". Io le cose da dire ce l'ho sulla lingua, ma aspetto la (eventuale) controparte... :D (Ah, ne approfitto per anticiparti che domani ti contatterò in privato perché sono diversi giorni che mi s'inceppa il "meccanismo" per l'acquisto del libro su Pantani :xxo )


Donchisciotte - 23/11/2009 alle 00:25

Allora aspetto le considerazioni più personali. E' un thread che leggerò volentierissimo, te l'ho detto. La filosofia e la letteratura sono la mia vera passione e se ho del tempo libero è a queste passioni che mi dedico. Sul libro va bene, contattami pure ma quello che posso fare è parlare con Tonina del tuo problema tecnico e chiederle in che modo puoi fare a ordinarlo non dal sito del Museo Pantani.


Abajia - 23/11/2009 alle 01:03

Beh, in realtà, visto che la tua intenzione è comunque di leggere il topic, se mi permetti un consiglio, è di farlo prima (anche perché mi sentirei a disagio nel "tirare innanzi la carretta" in perfetta solitudine :D ). Il linguaggio adoperato è volutamente "leggero", immediato, e gli stessi argomenti sono trattati in maniera "soft" e direi anche piacevole. Magari fino a quella sorta d'abbozzo di aneddoti riguardanti a Socrate ti verrà voglia di chiudere la pagina, ma non demordere! Continua, continua... ;)


Bartoli - 23/11/2009 alle 01:59

Mi sono fermato a "Elisa"


desmoblu - 23/11/2009 alle 17:36

"Leggero" e "Immediato" e "soft"? Visto che si parla di filosofia, Aba, ti ricordo che il fine principale non è solo la conoscenza (l'amore per il sapere) ma la divulgazione e l'invito al pensare. Guarda Socrate, Kant, addirittura quel pagliaccio coronato di Hegel (che al suo codice tripartito di buffonate ha comunque provato a dare un aspetto divulgativo). Gorgia invece era un sofista, usava la parola per ottenere tutto e il contrario di tutto, ma in ogni caso ne aveva una padronanza estrema. Piccolo parzialissimo excursus solo per suggerire che non sempre a modi e ragionamenti sofisticati corrisponde poi una reale sostanza.. anzi, a volte si esagera, come insegnano il Polonio dell'Amleto e certi divertentissimi racconti di Mark Twain.


elisamorbidona - 23/11/2009 alle 17:49

ho scoperto solo ora questa discussione e apprezzo di cuore la lettura di questa opera (che ha rischiato di andare persa per sempre e meno male che l'autore è giovane e deve avere buona memoria) che, mi pare, alla fine si aggiri sulle 100 pagine... appena riesco a leggere mi riservo di tentare un dialogo ;)


Abajia - 23/11/2009 alle 18:01

Per dare una smossa al thread-delirio (copyright Monsieur 40% :D ). Nel post-fiume, ho trattato, tra le altre cose, il tema della percezione, estendendo l'argomento a diversi [i]gradi[/i] percettivi, da quelli più "immediati" (sensoriali) ad altri che, per non fuorviar troppo, definirei [i]mentali[/i]. Alla prima "categoria" ho ricondotto, ad esempio, l'esperimento dei tre secchi pieni d'acqua a differenti temperature, di Locke, mentre ho solo fatto accenno alla [i]distorsione[/i] percettiva derivante, questa volta, dalle nostre attitudini cognitive e razionali. Mi riferisco, in sostanza, a quelli che, comunemente, vengono chiamati "problemi di auto-riferimento". Leggete questa frase: [i]In questa frase ci ci sono due errori[/i] Quali sono i due errori? La frase contiene la stessa parola ripetuta due volte, ma, siccome le due occorrenze stanno su linee separate, il nostro cervello tende a non accorgersene. Qual è, quindi, l'altro errore? Non sembra proprio essercene un altro. C'è un solo errore, dunque la frase non è corretta. Uhmmmm... ecco il secondo errore! Se la frase non è corretta, in quanto dice che ci sono due errori, mentre ce n'è uno solo, allora, in effetti, un altro errore c'è. Dunque, la frase è corretta... e quindi un secondo errore non c'è! :o :xxo Ecco un giochino (magari conosciuto dai più, e, forse, pure diffuso sul web - non ho controllato - quindi oh, fate come volete, ma se vi va di azzardare una risposta, che gusto c'è a sbirciare? :P ): Immaginate di camminare in un labirinto. Arrivate ad un bivio in cui entrambe le strade sono chiuse da una porta. Una delle due vi condurrà al vostro obiettivo, l'altra a morte certa. Ciascuna porta è sorvegliata da una sentinella che sa cosa vi è dall'altra parte, e vi è concesso di fare una sola domanda per cercar di capire qual è la porta che vi condurrà all'obiettivo. Una delle sentinelle, manco a dirlo, mente sempre, mentre l'altra dice sempre la verità, però non siete al corrente di chi sia il mentitore e viceversa. Dunque: che domanda fareste?


Abajia - 23/11/2009 alle 18:11

[quote][i]Originariamente inviato da desmoblu [/i] "Leggero" e "Immediato" e "soft"? Visto che si parla di filosofia, Aba, ti ricordo che il fine principale non è solo la conoscenza (l'amore per il sapere) ma la divulgazione e l'invito al pensare. Guarda Socrate, Kant, addirittura quel pagliaccio coronato di Hegel (che al suo codice tripartito di buffonate ha comunque provato a dare un aspetto divulgativo). Gorgia invece era un sofista, usava la parola per ottenere tutto e il contrario di tutto, ma in ogni caso ne aveva una padronanza estrema. Piccolo parzialissimo excursus solo per suggerire che non sempre a modi e ragionamenti sofisticati corrisponde poi una reale sostanza.. anzi, a volte si esagera, come insegnano il Polonio dell'Amleto e certi divertentissimi racconti di Mark Twain.[/quote] Sì, Desmo, ho scritto "leggero", "immediato" e "soft" in riferimento al linguaggio che ho volutamente adoperato, spiegando che non volevo "appesantire" e complicare ulteriormente temi già di per sé estesi, ampi, a volte cervellotici. Ovvio che, al contrario, se mi riferissi alla filosofia stessa spacciandola per "immediata" e "soft", beh, come dire... :O-- (Per inciso, ho sempre ammirato la padronanza locutoria e retorica propria dei sofisti; ritengo alcuni testi in merito dei veri e propri capolavori proprio per il fatto che, di per sé, in sostanza trattano [volutamente; e qui potrei dilungarmi... :D ] di nulla) ("Pagliaccio" e "Hegel" nella stessa frase stanno proprio bene :Od: )


Abajia - 23/11/2009 alle 18:24

[quote][i]Originariamente inviato da elisamorbidona [/i] ho scoperto solo ora questa discussione e apprezzo di cuore la lettura di questa opera (che ha rischiato di andare persa per sempre e meno male che l'autore è giovane e deve avere buona memoria) che, mi pare, alla fine si aggiri sulle 100 pagine... appena riesco a leggere mi riservo di tentare un dialogo ;)[/quote] Ecco, ragazzi, prendetevela con lei, è la sua richiesta la pietra dello scandalo! :Od: Eli, l'altro giorno ti ho scritto in privato dicendoti che avevo buttato nel cesso il file contenente tutto il lavoraccio al quale mi stavo dedicando "anima e corpo" :D , ed è vero. Effettivamente, il file è capitato tra un "cumulo" che ho cancellato e a nulla sono valsi i vari Recuva, Drive Rescue, Smart Data Recovery e un altro paio di programmini di cui non ricordo il nome. Quel file era di circa un centinaio di pagine di Word, yes. Del resto, passato il momento di scoramento ( :doh: ), sono stato io a scrivere il tutto, quindi, bene o male, ricordavo più o meno tutto, e quindi mi sono (ri)messo di buona lena e ho ripreso a (ri)scrivere. In un paio di giorni, credo, ho "riesumato" la prima parte delle originarie 100 (e qualcosa) pagine, cioè 26. Mi sono limitato, per ora, al primo tassello, quello dell'epistemologia, tralasciando l'etica e la moralità, la metafisica e la spiritualità, la logica e l'infinito, ovvero tutto ciò che andava a comporre la restante ottantina di pagine di Word. Per la gioia di tutti: arriverà pure il resto, non disperate! :Od: Oltre alla mia idea in proposito, se non altro perché è quella che credo abbia suscitato la tua curiosità. Un abbraccio. :)

 

[Modificato il 23/11/2009 alle 19:02 by Abajia]


nino58 - 23/11/2009 alle 18:34

Credo proprio di non farcela. Non per limiti intellettivi, spero, ma per limiti fisiologici, certamente. Anche per me la lettura a computer di testi lunghi è ormai quasi impossibile. E' un sintomo grave ?


nino58 - 23/11/2009 alle 18:37

[quote][i]Originariamente inviato da UribeZubia [/i] [b]Ma gavte la nata ![/b] :D Quella volta Belbo aveva perso il controllo. Almeno, come poteva perdere il controllo lui. Aveva atteso che Agliè fosse uscito e aveva detto tra i denti: “Ma gavte la nata.” Lorenza, che stava ancora facendo gesti complici di allegrezza, gli aveva chiesto che cosa volesse dire. “È torinese. Significa levati il tappo, ovvero, se preferisci, voglia ella levarsi il tappo. In presenza di persona altezzosa e impettita, la si suppone enfiata dalla propria immodestia, e parimenti si suppone che tale smodata autoconsiderazione tenga in vita il corpo dilatato solo in virtù di un tappo che, infilato nello sfintere, impedisca che tutta quella aerostatica dignità si dissolva, talché, invitando il soggetto a togliersi esso turacciolo, lo si condanna a perseguire il proprio irreversibile afflosciamento, non di rado accompagnato da sibilo acutissimo e riduzione del superstite involucro esterno a povera cosa, scarna immagine ed esangue fantasma della prisca maestà.” da Il pendolo di Foucault di Umberto Eco :bla: [/quote] Altro che sibilo !!!!


Donchisciotte - 23/11/2009 alle 18:41

ma come? Io leggo tutto e tu mi freghi con i paradossi logici che proprio mi ci vuole tempo a risolverli, quando, raramente, ci riesco?:OIO:OIO:OIO


Abajia - 23/11/2009 alle 19:18

[quote][i]Originariamente inviato da nino58 [/i] [quote][i]Originariamente inviato da UribeZubia [/i] [b]Ma gavte la nata ![/b] :D [...] :bla: [/quote] Altro che sibilo !!!![/quote] Siccome ho la coda di paglia, una bella pernacchia anche a te, tiè! :bll: [quote][i]Originariamente inviato da nino58 [/i] Credo proprio di non farcela. Non per limiti intellettivi, spero, ma per limiti fisiologici, certamente. Anche per me la lettura a computer di testi lunghi è ormai quasi impossibile. E' un sintomo grave ?[/quote] Grave no, dài. Ci passano tutti, prima o poi. Si chiama vecchiaia. :Od:


Abajia - 23/11/2009 alle 19:20

[quote][i]Originariamente inviato da Donchisciotte [/i] ma come? Io leggo tutto e tu mi freghi con i paradossi logici che proprio mi ci vuole tempo a risolverli, quando, raramente, ci riesco?:OIO:OIO:OIO:[/quote] Non crucciarti subito. Avrai modo di farlo più avanti, vedrai. :D


Monsieur 40% - 23/11/2009 alle 20:28

[quote][i]Originariamente inviato da nino58 [/i] Anche per me la lettura a computer di testi lunghi è ormai quasi impossibile.[/quote] Nino, nella parte alta di ogni thread c'è l'opzione per leggere il thread nella "Versione stampabile". http://www.cicloweb.it/forum/viewthread.php?fid=9&tid=8911&action=printable Si perdono alcuni passaggi di formattazione, ma può essere un buon metodo per stampare il tutto senza spendere una fortuna di cartuccia... ;)


elisamorbidona - 23/11/2009 alle 21:01

[quote][i]Originariamente inviato da Abajia [/i] [quote][i]Originariamente inviato da elisamorbidona [/i] ho scoperto solo ora questa discussione e apprezzo di cuore la lettura di questa opera (che ha rischiato di andare persa per sempre e meno male che l'autore è giovane e deve avere buona memoria) che, mi pare, alla fine si aggiri sulle 100 pagine... appena riesco a leggere mi riservo di tentare un dialogo ;)[/quote] Ecco, ragazzi, prendetevela con lei, è la sua richiesta la pietra dello scandalo! :Od: Eli, l'altro giorno ti ho scritto in privato dicendoti che avevo buttato nel cesso il file contenente tutto il lavoraccio al quale mi stavo dedicando "anima e corpo" :D , ed è vero. Effettivamente, il file è capitato tra un "cumulo" che ho cancellato e a nulla sono valsi i vari Recuva, Drive Rescue, Smart Data Recovery e un altro paio di programmini di cui non ricordo il nome. Quel file era di circa un centinaio di pagine di Word, yes. Del resto, passato il momento di scoramento ( :doh: ), sono stato io a scrivere il tutto, quindi, bene o male, ricordavo più o meno tutto, e quindi mi sono (ri)messo di buona lena e ho ripreso a (ri)scrivere. In un paio di giorni, credo, ho "riesumato" la prima parte delle originarie 100 (e qualcosa) pagine, cioè 26. Mi sono limitato, per ora, al primo tassello, quello dell'epistemologia, tralasciando l'etica e la moralità, la metafisica e la spiritualità, la logica e l'infinito, ovvero tutto ciò che andava a comporre la restante ottantina di pagine di Word. Per la gioia di tutti: arriverà pure il resto, non disperate! :Od: Oltre alla mia idea in proposito, se non altro perché è quella che credo abbia suscitato la tua curiosità. Un abbraccio. :) [/quote] mi pare che il tuo stesso programma se lo pose un certo Kant, partendo esattamente dalla questione della conoscenza nell'ambito della querelle tra empirismo e razionalismo, che tocchi in queste prime pagine...da dove viene la pretesa che tutti ci diano ragione quando diciamo ciò che riteniamo vero? più in generale da dove viene la "scientificità" della scienza? la sua soluzione fondamentale del problema (anche se "soluzione" non è che renda bene l'idea) prende il nome di "deduzione trascendentale", adesso aspetto l'esito della critica della ragion pura secondo Andrea da Tortoreto...:help:


pacho - 23/11/2009 alle 21:02

' La verita' e' che sono cattivo. Ma questo cambiera', io cambiero'. E' l'ultima volta che faccio cose come questa. Metto la testa a posto, vado avanti, rigo dritto. Scelgo la vita. Gia' adesso non vedo l'ora. Diventero' esattamente come voi: il lavoro, la famiglia, il maxitelevisore del ca.zzo, la lavatrice, la macchina, il cd e l'apriscatole elettrico. Buona salute, colesterolo basso, polizza vita, mutuo, prima casa, moda casual, valigie, salotto di tre pezzi, fai-da-te, telequiz, schifezze nella pancia, figli, a spasso nel parco, orario di ufficio, bravo a golf, l'auto lavata, tanti maglioni, natali in famiglia, pensione privata, esenzione fiscale, tirando avanti lontano dai guai, in attesa del giorno in cui morirai.' Mark Renton.Un saggio di materialismo storico.


nino58 - 23/11/2009 alle 21:39

[quote][i]Originariamente inviato da pacho [/i] ' La verita' e' che sono cattivo. Ma questo cambiera', io cambiero'. E' l'ultima volta che faccio cose come questa. Metto la testa a posto, vado avanti, rigo dritto. Scelgo la vita. Gia' adesso non vedo l'ora. Diventero' esattamente come voi: il lavoro, la famiglia, il maxitelevisore del ca.zzo, la lavatrice, la macchina, il cd e l'apriscatole elettrico. Buona salute, colesterolo basso, polizza vita, mutuo, prima casa, moda casual, valigie, salotto di tre pezzi, fai-da-te, telequiz, schifezze nella pancia, figli, a spasso nel parco, orario di ufficio, bravo a golf, l'auto lavata, tanti maglioni, natali in famiglia, pensione privata, esenzione fiscale, tirando avanti lontano dai guai, in attesa del giorno in cui morirai.' Mark Renton.Un saggio di materialismo storico. [/quote] Miii, pacho. Mi son perso l'apriscatole elettrico. E poi la vedo comunque grigia sul capitolo pensione: pubblica o privata che sia. L'unica cosa certa è l'ultima. :(


Bitossi - 23/11/2009 alle 22:45

[quote][i]Originariamente inviato da Abajia [/i] Immaginate di camminare in un labirinto. Arrivate ad un bivio in cui entrambe le strade sono chiuse da una porta. Una delle due vi condurrà al vostro obiettivo, l'altra a morte certa. Ciascuna porta è sorvegliata da una sentinella che sa cosa vi è dall'altra parte, e vi è concesso di fare una sola domanda per cercar di capire qual è la porta che vi condurrà all'obiettivo. Una delle sentinelle, manco a dirlo, mente sempre, mentre l'altra dice sempre la verità, però non siete al corrente di chi sia il mentitore e viceversa. Dunque: che domanda fareste? [/quote] Eh, Abi... spero tanto che la risposta che ti aspetti da noi non sia quella sempliciotta del "Se tu fossi l'altro, dove mi diresti di entrare per non morire?" (e fare il contrario di quanto viene risposto) In effetti noi forumisti, abituati a ben altri enigmi, ad esempio "Come può Bulbarelli essere riuscito a diventare telecronista?", oppure "Ma Abajia ci sta pigliando tutti per i fondelli?", sappiamo che per paradossi di quel tipo ci possono essere molteplici soluzioni. Ad esempio si può costringere l'eventuale mentitore a fare i conti solo con se stesso, e a dire la verità senza tirare in ballo estranei... (ogni riferimento al pentitismo è assolutamente voluto :D) Basta porre la domanda in maniera corretta in termini di logica delle proposizioni: nel caso in questione per esempio "[i]Se io ti chiedessi[/i] qual è la porta della salvezza, quale mi indicheresti?" (già... se te lo chiedessi... :Od: ) Un mio amico filosofo, purtroppo recentemente impazzito nel vano tentativo di dare risposta ad una domanda molto più semplice (la domanda era "Per tentare di vincere il Mondiale, è più redditizio per il ciclista XY terminare la Vuelta o ritirarsi a poche tappe dal termine?"), mi aveva a suo tempo segnalato un'altra possibile soluzione, in verità molto più "Abajiana": "Tra le due asserzioni 'questa porta va verso la salvezza' e 'tu sei un mentitore' ce ne è [b]una e una sola[/b] vera?" Naturalmente, per la gioia del forum, lascio a te lo sviluppo della soluzione... :Od::Od::Od::Od::Od: Però, cerchiamo sempre di ricordare che la realtà non è logica, e forse la citazione Trainspottinghiesca di Pacho al riguardo è particolarmente azzeccata... ;)


pedalando - 23/11/2009 alle 22:55

[quote][i]Originariamente inviato da Abajia [/i] Ecco un giochino (magari conosciuto dai più, e, forse, pure diffuso sul web - non ho controllato - quindi oh, fate come volete, ma se vi va di azzardare una risposta, che gusto c'è a sbirciare? :P ): Immaginate di camminare in un labirinto. Arrivate ad un bivio in cui entrambe le strade sono chiuse da una porta. Una delle due vi condurrà al vostro obiettivo, l'altra a morte certa. Ciascuna porta è sorvegliata da una sentinella che sa cosa vi è dall'altra parte, e vi è concesso di fare una sola domanda per cercar di capire qual è la porta che vi condurrà all'obiettivo. Una delle sentinelle, manco a dirlo, mente sempre, mentre l'altra dice sempre la verità, però non siete al corrente di chi sia il mentitore e viceversa. Dunque: che domanda fareste? [/quote] Sicuramente c'è anche su web. Ma e' un classico, ci fu addirittura in una puntata di Doctor Who. Non rispondo per lasciare la possibilita' di fondersi le meningi a chi non lo conosce ancora. Ma visto che ti piacciono i paradossi eccoti quello della biblioteca (se non sbaglio fu inventato da Bertrand Russel per addomesticare la versione ufficiale contenuta nella sua 2filosofia matematica") : il direttore di una biblioteca pretende che tutti i libri presenti siano catalogati nel seguente modo: 1- quelli che non contengono citazioni al proprio titolo 2- quelli che invece contengono il loro titolo. Di ogni categoria viene ovviamente redatto un registro nella forma di libro che necessita quindi di essere catalogato a sua volta. In quale categoria metteresti il registro della categoria 1 ?


Carrefour de l arbre - 23/11/2009 alle 23:56

Ah beh, se iniziamo con i paradossi di Russell mi prendo una settimana di ferie! :D


Abajia - 24/11/2009 alle 00:00

[quote][i]Originariamente inviato da Bitossi [/i] Eh, Abi... spero tanto che la risposta che ti aspetti da noi non sia quella sempliciotta del "Se tu fossi l'altro, dove mi diresti di entrare per non morire?" (e fare il contrario di quanto viene risposto)[/quote] Beh, qualunque sia la risposta che t'aspett(erest)i da Abajia, alla fin fine che senso ha, se hai la certezza che quella da te proposta è comprovata nella sua correttezza? [quote]In effetti noi forumisti, abituati a ben altri enigmi, ad esempio "Come può Bulbarelli essere riuscito a diventare telecronista?", oppure "Ma Abajia ci sta pigliando tutti per i fondelli?", sappiamo che per paradossi di quel tipo ci possono essere molteplici soluzioni.[/quote] Il secondo sarebbe, dunque, un paradosso? A ben pensarci, quale ampio ventaglio di significati può assumere il "prendere per i fondelli"? Non è, forse, un [i]altro[/i] modo di essere semplicemente sé stessi? E poi - mannaggia a me! - cosa significa "a [i]ben[/i] pensarci"? C'è un modo di pensare che è più legittimo d'un altro? O è qualitativamente [i]migliore[/i]? Sono stati stabiliti dei criteri in proposito? Se sì, fate un fischio, ché io son rimasto indietro! Se no, allora, in sostanza, parlare di legittimità non è illegittimo solo in ragione della non-esistenza di quei criteri di legittimità. E, quindi, interloquire intorno alla stessa (il)legittimità è legittimo. In ogni caso, un comune denominatore: sto sparando un sacco di fregnacce! :D Ma vogliamo parlare del primo dei due paradossi, o presunti tali, sopracitati? Se un paradosso è tale laddove si caratterizza per la sua estrema logicità del suo sviluppo, per poi giungere a conclusioni contraddittorie e sostanzialmente illogiche, posto che Bulbarelli è, a tutti gli effetti, divenuto telecronista Rai, può, dunque, esser così contraddittorio il fatto che lo sia stato addirittura per svariati anni d'attività(!?)? Sì, lo è, passiamo avanti. :Od: [quote]Un mio amico filosofo, purtroppo recentemente impazzito nel vano tentativo di dare risposta ad una domanda molto più semplice (la domanda era "Per tentare di vincere il Mondiale, è più redditizio per il ciclista XY terminare la Vuelta o ritirarsi a poche tappe dal termine?"), mi aveva a suo tempo segnalato un'altra possibile soluzione, in verità molto più "Abajiana": "Tra le due asserzioni 'questa porta va verso la salvezza' e 'tu sei un mentitore' ce ne è [b]una e una sola[/b] vera?" Naturalmente, per la gioia del forum, lascio a te lo sviluppo della soluzione... :Od::Od::Od::Od::Od:[/quote] Buon per lui: io sono diventato pazzo per molto meno. :D Quanto alla soluzione, ho ragione di credere che mi occorra preliminarmente sapere a chi sia rivolta la seconda asserzione. (toh, l'ho presa come una cosa seria! :Od: ... o lo è? :o ) [quote]Però, cerchiamo sempre di ricordare che la realtà non è logica, e forse la citazione Trainspottinghiesca di Pacho al riguardo è particolarmente azzeccata... ;)[/quote] Già, quella citazione è molto bella, m'ha stimolato ad alcune considerazioni (che vi risparmio; in fin dei conti, ho un cuore [metonimia] anch'io!). Oh, checcazzo, pisendlove! :hippy:


Abajia - 24/11/2009 alle 00:18

[quote][i]Originariamente inviato da pedalando [/i] Ma visto che ti piacciono i paradossi eccoti quello della biblioteca (se non sbaglio fu inventato da Bertrand Russel per addomesticare la versione ufficiale contenuta nella sua 2filosofia matematica") : il direttore di una biblioteca pretende che tutti i libri presenti siano catalogati nel seguente modo: 1- quelli che non contengono citazioni al proprio titolo 2- quelli che invece contengono il loro titolo. Di ogni categoria viene ovviamente redatto un registro nella forma di libro che necessita quindi di essere catalogato a sua volta. In quale categoria metteresti il registro della categoria 1?[/quote] In realtà, l'ora è piuttosto tarda se si considera che vengo da una notte con meno di quattro ore di sonno, ma vabbè, la tentazione è troppa e quindi... vada come vada. :D Venendo alla risposta, penso sia utile sapere se il registro abbia un titolo. PS: In caso contrario, dimmi acqua, acquazzone, fuoco o fuochino, ché mi ci impegno! :D Edit: Aspè, ora che ci penso - un flashback! - credo di ricordare, a grandi linee, il paradosso che citi... Se la memoria non mi gioca un tiro mancino, però, non è proprio così l'arzigogolato giochino in questione, ma piuttosto un qualcosa del tipo... uhmmm... si iniziava a catalogare gli stessi cataloghi, così poi restavano fuori i cataloghi dei cataloghi, e si provvedeva a catalogare pure quelli, e così via. Un circolo vizioso, penso. Ma attendo comunque la tua risposta. ;)

 

[Modificato il 24/11/2009 alle 00:29 by Abajia]


Abajia - 24/11/2009 alle 00:31

[quote][i]Originariamente inviato da Carrefour de l arbre [/i] Ah beh, se iniziamo con i paradossi di Russell mi prendo una settimana di ferie! :D[/quote] Capito ora come e perché son diventato pazzo? :Od: E con questo, auguro a tutti i "superstiti" (controllatina... c'è il solo Admin :D ) la buonanotte!


pedalando - 24/11/2009 alle 01:05

A quest'ora non c'e' neanche pu' Admin dato che non c'ha piu' il fisico e va a dormire presto :Od: resiste solo Monsieur ma solo perche' lui non ha neanche piu' la testa che consiglierebbe il sonno ad ogni persona normale :Od::Od: (ehmm ci sono anche io qui.... :o ) ma passiamo al quesito: sì anche i registri hanno un titolo. Banalmente puo' essere "categoria 1" e "categoria 2". E' ininfluente. Inoltre credo che tu ricordi male infatti per questo quesito la ricorsività non è necessaria. In realtà non è necessaria neanche nel paradosso "originale" sugli insiemi anche se in quel caso la definizione non l'escludeva.


Bitossi - 24/11/2009 alle 09:22

[quote][i]Originariamente inviato da Abajia [/i] [quote] "Tra le due asserzioni 'questa porta va verso la salvezza' e 'tu sei un mentitore' ce ne è [b]una e una sola[/b] vera?" Naturalmente, per la gioia del forum, lascio a te lo sviluppo della soluzione... :Od::Od::Od::Od::Od:[/quote] Quanto alla soluzione, ho ragione di credere che mi occorra preliminarmente sapere a chi sia rivolta la seconda asserzione. (toh, l'ho presa come una cosa seria! :Od: ... o lo è? :o ) [/quote] Ohibò, non mi prendi sul serio? :D Guarda che invece è proprio una delle soluzioni possibili, indipendentemente da a chi viene rivolta la domanda... è un modo per "costringere" i mentitori a dare risposte uguali rispetto a chi dice la verità, un po' come nella domanda con la premessa "Se io ti chiedessi..." (se te lo chiedessi, tu mi daresti una risposta menzognera, e quindi, per non dire "una" verità, ti costringo a dire "la" verità, mentre il problema non si pone ovviamente per chi dice sempre la verità...). Sono soluzioni più raffinate di quella che ho definito "sempliciotta" (che non so se è quella che si può trovare anche in rete), la quale implicherebbe che le due sentinelle conoscano i reciproci "usi e costumi", e quindi la cosa andrebbe dichiarata nelle premesse. Quindi questi, più che paradossi, li definirei enigmi con una o più soluzioni (come i casi Bulbarelli e Abajia... :Od: ). Diverso è il caso dei paradossi alla Russell (un altro è quello del barbiere), in cui di solito la risposta non c'è, o meglio è "aperta", e servono da una parte a mettere in crisi il concetto di logica, e dall'altra a svilupparla su piani diversi e più dialettici...


Abajia - 24/11/2009 alle 11:05

[quote][i]Originariamente inviato da pedalando [/i] Ma visto che ti piacciono i paradossi eccoti quello della biblioteca (se non sbaglio fu inventato da Bertrand Russel per addomesticare la versione ufficiale contenuta nella sua 2filosofia matematica") : il direttore di una biblioteca pretende che tutti i libri presenti siano catalogati nel seguente modo: 1- quelli che non contengono citazioni al proprio titolo 2- quelli che invece contengono il loro titolo. Di ogni categoria viene ovviamente redatto un registro nella forma di libro che necessita quindi di essere catalogato a sua volta. In quale categoria metteresti il registro della categoria 1 ?[/quote] [quote][i]Originariamente inviato da pedalando [/i] sì anche i registri hanno un titolo. Banalmente puo' essere "categoria 1" e "categoria 2". E' ininfluente.[/quote] Delle due, l'una: o il paradosso necessita di qualche altro dettaglio, e quindi, così posto, fa acqua, oppure è la mia testa a fare acqua, e quindi necessita di qualche altro neurone. :D In ogni caso, ammesso che non vi sia altro da aggiungere, avrei delle considerazioni. I registri, posto che sono titolati "categoria 1" e "categoria 2" (quel "banalmente" sta forse per "è ininfluente"?), non dovrebbero contenere citazioni al proprio titolo (a meno che si passi a classificare pure i registri, ma quella è, a quanto pare, un'altra storia, e dunque non mi fossilizzo :D ). Ora, però, mi sorge un dubbio: com'è che, nei registri, vengono classificati i libri? Riportando i titoli? Se sì, dovrei prendere in considerazione il fatto che, in tal modo, vengono "create" delle citazioni ai vari titoli, oppure la classificazione è valida soltanto laddove vi siano citazioni [i]all'interno[/i] dei libri stessi? Poi oh, magari la soluzione è una cacchiata e sto solo sparlando, ma vabbè. :Od:


Abajia - 24/11/2009 alle 11:31

[quote][i]Originariamente inviato da pedalando [/i] Inoltre credo che tu ricordi male infatti per questo quesito la ricorsività non è necessaria. In realtà non è necessaria neanche nel paradosso "originale" sugli insiemi anche se in quel caso la definizione non l'escludeva.[/quote] Hai ragione! Sono andato a controllare, ed il paradosso che mi "diceva qualcosa" è evidentemente quello conosciuto come "paradosso del bibliotecario", il cui "esito" è senz'altro molto più raffinato di quello da me ipotizzato (ma va?! :D ). Riporto da Wikipedia: [i]Al responsabile di una grande biblioteca viene affidato il compito di produrre gli opportuni cataloghi. Egli compie una prima catalogazione per titoli, poi per autori, poi per argomenti, poi per numero di pagine e così via. Poiché i cataloghi si moltiplicano, il nostro bibliotecario provvede a stendere il catalogo di tutti i cataloghi. A questo punto nasce una constatazione. La maggior parte dei cataloghi non riportano sé stessi, ma ve ne sono alcuni (quali il catalogo di tutti i volumi con meno di 5000 pagine, il catalogo di tutti i cataloghi, ecc.) che riportano sé stessi. Per eccesso di zelo, lo scrupoloso bibliotecario decide, a questo punto, di costruire il [u]catalogo di tutti cataloghi che non includono sé stessi[/u]. Il giorno seguente, dopo una notte insonne passata nel dubbio se tale nuovo catalogo dovesse o non dovesse includere sé stesso, il nostro bibliotecario chiede di essere dispensato dall'incarico[/i] ( :D ). Da tutti gli assunti paradossali di Russell (tra i quali, Bitossi ha citato l'antinomia di Russell, altrimenti nota come "paradosso del barbiere"; questo sì lo ricordo bene :D ) derivò tutto l'ambaradan della contraddittorietà degli insiemi, la crisi della Matematica (e della Logica in particolare, nel senso che il gallese mise in evidenza le incongruenze nel progetto di Gottlob Frege di "logicizzare" l'intera Matematica), eccetera.


Abajia - 24/11/2009 alle 11:45

[quote][i]Originariamente inviato da Bitossi [/i] Ohibò, non mi prendi sul serio? :D[/quote] :bll: [quote]Guarda che invece è proprio una delle soluzioni possibili, indipendentemente da a chi viene rivolta la domanda... è un modo per "costringere" i mentitori a dare risposte uguali rispetto a chi dice la verità, un po' come nella domanda con la premessa "Se io ti chiedessi..." (se te lo chiedessi, tu mi daresti una risposta menzognera, e quindi, per non dire "una" verità, ti costringo a dire "la" verità, mentre il problema non si pone ovviamente per chi dice sempre la verità...). Sono soluzioni più raffinate di quella che ho definito "sempliciotta" (che non so se è quella che si può trovare anche in rete), la quale implicherebbe che le due sentinelle conoscano i reciproci "usi e costumi", e quindi la cosa andrebbe dichiarata nelle premesse.[/quote] Ora ho ben afferrato, sì. In effetti, in considerazione del fatto che non ho dichiarato nelle premesse che le sentinelle "si conoscono" reciprocamente (mancanza mia!), la soluzione che proponi è [i]più corretta[/i]. Anzi, direi proprio che, se non è esplicitato il fatto che le sentinelle sappiano se l'altra dica la verità o meno, la soluzione che riporta la domanda "se tu fossi l'altro..." (non ho controllato, ma penso sia questa quella più diffusa nel web, sì), decade. Non avevo pensato a questa possibile sfumatura, bella... ;) Vabbè, sai che c'è? Il tempo di mettere un attimo in ordine idee e memorie e... chiedo altre illuminazioni. :D


uffa - 24/11/2009 alle 11:53

Occhio che le antinomie "alla Russell" sono tali solo nella teoria 'intuitiva' degli insiemi. Le moderne teorie assiomatiche degli insiemi risolvono quel genere di problemi, ad esempio con il non permettere la costruzione degli insiemi incriminati... Aby, non farti trascinare in discussioni infinite e riprendi a pedalare. Io sono preoccupato. Molto. :D

 

[Modificato il 24/11/2009 alle 12:14 by uffa]


Abajia - 24/11/2009 alle 12:01

Immaginate che quelle che seguono siano quattro carte: --- E --- J --- 7 --- 6 --- Su queste carte, sono stampati numeri da un lato, lettere dall'altro. Dovete decidere se la seguente regola descrive accuratamente le carte, o no, le quattro carte: [i]se c'è una vocale su un lato, c'è un numero pari sull'altro[/i] Quale carta, o quali carte, dovete girare affinché possiate verificare che queste carte seguono la regola? -------------------------------------------------------------------------------------------------------- Sembra un test banale (e lo è :D ), ma... son curioso... ;) (chiamasi "test di Wason", e anche questo, manco a dirlo, è facilmente rintracciabile nel web, ragion per cui confido nella vostra voglia di dilettarvi un po' :P )


Abajia - 24/11/2009 alle 12:03

[quote][i]Originariamente inviato da uffa [/i] Aby, non farti trascinare in discussioni infinite e riprendi a pedalare. Io sono preoccupato. Molto. :D[/quote] :cincin: Non dirlo a me! Faccio 'ste sedute di fisioterapia e un po' di palestra mirata, e poi, appena posso ... :yoga: ... e chissenefrega se abito a Roma! Faccio Roma - L'Aquila - Roma come allenamento. :Od:


lemond - 24/11/2009 alle 12:07

[quote][i]Originariamente inviato da Abajia [/i] Non per chissà quale oscuro sotterfugio retorico, ma semplicemente perché spinti dalla piena volontà di dire la vostra; sia pure un millesimo di quello che avreste [b]in seno[/b] di scrivere, ma sentirete, forse, il desiderio d’intervenire. [b]O questa espressione dove l'ài trovata? :) [/b] Non a caso, riprendendo una citazione di Oscar Wilde, “tutte le volte che gli altri sono d’accordo con me, ho come la sensazione d’aver torto”. [b]Ne aggiungo una di Giorgio Gaber "Quando un mio pensiero trova compagnia ... forse è venuto il momento di cambiare idea. :D [/b] Nel ringraziare chi ha avuto la premura di leggere anche solo fin qui, do l’avvio. [b]Non riesco a leggere al computer, senza perdere la concentrazione, più di ... e quindi, intanto, scrivo la prima puntata di risposta, se avrò altro ... alla prossima :D :cincin: [/b] [/quote]


pedalando - 24/11/2009 alle 12:15

[quote][i]Originariamente inviato da Abajia [/i] Per eccesso di zelo, lo scrupoloso bibliotecario decide, a questo punto, di costruire il [u]catalogo di tutti cataloghi che non includono sé stessi[/u]. Il giorno seguente, dopo una notte insonne passata nel dubbio se tale nuovo catalogo dovesse o non dovesse includere sé stesso, il nostro bibliotecario chiede di essere dispensato dall'incarico[/i] ( :D ). [/quote] Direi che hai trovato il succo del paradosso. Non capisco tutto l'ambaradan sui registri per data,autore ecc. Mi pare servano solo a confondere. Nota: La logica matematica fu messa ancor piu' in crisi da Godel con il suo "simpatico" teorema dell'incompletezza.


dietzen - 24/11/2009 alle 12:56

[quote][i]Originariamente inviato da Abajia [/i] Immaginate che quelle che seguono siano quattro carte: --- E --- J --- 7 --- 6 --- Su queste carte, sono stampati numeri da un lato, lettere dall'altro. Dovete decidere se la seguente regola descrive accuratamente le carte, o no, le quattro carte: [i]se c'è una vocale su un lato, c'è un numero pari sull'altro[/i] Quale carta, o quali carte, dovete girare affinché possiate verificare che queste carte seguono la regola? -------------------------------------------------------------------------------------------------------- Sembra un test banale (e lo è :D ), ma... son curioso... ;) (chiamasi "test di Wason", e anche questo, manco a dirlo, è facilmente rintracciabile nel web, ragion per cui confido nella vostra voglia di dilettarvi un po' :P ) [/quote] questa è facile ma non ho capito com'è che si è partiti dalla filosofia e si è arrivati a test di logica. :P


Bitossi - 24/11/2009 alle 13:33

[quote][i]Originariamente inviato da dietzen [/i] questa è facile ma non ho capito com'è che si è partiti dalla filosofia e si è arrivati a test di logica. :P [/quote] Ha fatto tutto Abajia... :Od: Confermando che effettivamente l'ultima è un po' facile, confesso che mi piacciono più gli enigmi dei paradossi... trovare una soluzione folgorante dà sempre soddisfazione e rinforza l'autostima! Il collegamento comunque è abbastanza semplice: mi sembra che il succo del discorso sia comprendere il limite al quale può arrivare la logica formale matematica nel dare risposte "sicure", e dove invece si passa a piani diversi... Se vogliamo proporne un altro facile (l'ultimo), e visto che si parlava di carte da gioco... Supponiamo di avere un mazzetto di 10 carte, che sappiamo essere 5 di picche e 5 di cuori. Come fa un non vedente (oppure chiunque bendato) ad allinearle in maniera tale che tutte le carte di picche siano a sinistra e tutte quelle di cuori a destra? Regole: si prende una carta per volta dal mazzo e la si inserisce nella fila che man mano si viene formando. DOPO che si è inserita una carta, una persona esterna (vedente... :Od: ) ci comunica il seme della carta estratta. Ovviamente è vietato cambiare l’ordine delle carte della fila...


nino58 - 24/11/2009 alle 13:37

[quote][i]Originariamente inviato da Monsieur 40% [/i] [quote][i]Originariamente inviato da nino58 [/i] Anche per me la lettura a computer di testi lunghi è ormai quasi impossibile.[/quote] Nino, nella parte alta di ogni thread c'è l'opzione per leggere il thread nella "Versione stampabile". http://www.cicloweb.it/forum/viewthread.php?fid=9&tid=8911&action=printable Si perdono alcuni passaggi di formattazione, ma può essere un buon metodo per stampare il tutto senza spendere una fortuna di cartuccia... ;) [/quote] Grazie Mario, nipotino mio.


pedalando - 24/11/2009 alle 14:30

[quote][i]Originariamente inviato da Bitossi [/i] Se vogliamo proporne un altro facile (l'ultimo), e visto che si parlava di carte da gioco... Supponiamo di avere un mazzetto di 10 carte, che sappiamo essere 5 di picche e 5 di cuori. Come fa un non vedente (oppure chiunque bendato) ad allinearle in maniera tale che tutte le carte di picche siano a sinistra e tutte quelle di cuori a destra? Regole: si prende una carta per volta dal mazzo e la si inserisce nella fila che man mano si viene formando. DOPO che si è inserita una carta, una persona esterna (vedente... :Od: ) ci comunica il seme della carta estratta. Ovviamente è vietato cambiare l’ordine delle carte della fila... [/quote] questo è da informatici, ma ci vorrebbe un disegnino..... comunque si accodano carte fino a quando l'ultima inserita e' di segno opposto alle precedenti. a quel punto si tiene a mente il punto in cui c'e' il cambio di segno e si inserisce li' la successiva carta. dopo che il vedente ci dice il segno si stabilisce il nuovo punto di cambio di segno e si ripete il processo. Funziana anche con 100 o mille carte....basta un dito per tenere il segno.


Bitossi - 24/11/2009 alle 16:10

[quote][i]Originariamente inviato da pedalando [/i] Funziana anche con 100 o mille carte....basta un dito per tenere il segno. [/quote] Ok Albert... l'avevo detto che era facile. C'è solo da ricordare, per completezza di risposta, che le picche devono stare a sinistra e i cuori a destra; pertanto bisogna avere cura di mettere la seconda carta sulla destra se la prima era picche, o sulla sinistra se la prima era cuori; quando il seme cambia si comincia a tenere il segno (oppure si possono tenere le carte "larghe", compattando poi le precedenti per seme quando si ha la ripetizione, lasciando un buco in mezzo). Quindi, assodato che chi pedala ragiona mediamente bene, possiamo tornare a parlare di filosofia... ;)


pedalando - 24/11/2009 alle 16:50

[quote][i]Originariamente inviato da Bitossi [/i] C'è solo da ricordare, per completezza di risposta, che le picche devono stare a sinistra e i cuori a destra; pertanto bisogna avere cura di mettere la seconda carta sulla destra se la prima era picche, o sulla sinistra se la prima era cuori. [/quote] verissimo, mi era rimasto nella tastiera. [quote] Quindi, assodato che chi pedala ragiona mediamente bene, possiamo tornare a parlare di filosofia... ;) [/quote] okkio che con questa asserzione finisci nel 3D di quelli che non si allenano :Od:


Abajia - 24/11/2009 alle 18:04

[quote][i]Originariamente inviato da lemond [/i] [quote][i]Originariamente inviato da Abajia [/i] Non per chissà quale oscuro sotterfugio retorico, ma semplicemente perché spinti dalla piena volontà di dire la vostra; sia pure un millesimo di quello che avreste [b]in seno[/b] di scrivere, ma sentirete, forse, il desiderio d’intervenire.[/quote] O questa espressione dove l'ài trovata? :)[/quote] Carlo, così mi costringi ad essere antipatico e pedante! :Od: "Avere in seno" è un'espressione che assume accezioni traslate, ché ho motivo di credere che non sia usata in senso letterale. :D Quanto al significato attraverso il quale l'espressione potrebbe essere resa, si va dal 'serbare' al 'desiderare', ed è una sorta di "sfumatura" tra le due forme verbali, una via di mezzo che sta ad indicare che trattasi di un qualcosa di evidentemente "raggiungibile" (e 'desiderare' è, a dirla tutta, più appropriato quando il riferimento è a cose che, in sostanza, sono "difficilmente raggiungibili"), ma che non è nei "programmi" di coloro ai quali l'espressione è rivolta (e quindi giustifico il non utilizzo di 'serbare', che è un qualcosa che esprime, con tutta evidenza, un proposito che si ha in prima persona, a prescindere da eventuali ingerenze/inviti/consigli esterni/e). Ma vabbè, sono sottigliezze di significato a cui, oramai, si bada relativamente poco, ma tant'è. Del resto, io stesso, ad esempio, utilizzo 'codesto' in luogo di 'questo', quindi quando intendo riferirmi ad un qualcosa che è [i]vicino a chi parla[/i], mentre, a rigor di significato letterale (e di discendenza latina :D ), 'codesto' è da riferirsi a ciò che è [i]vicino a chi ascolta[/i] (HIC > questo ; ILLE > quello ; ISTE > codesto). Se, invece, m'hai quotato coll'implicito intento di farmi intendere un qualcosa del tipo "ehm, Andrè, ma che caspio stai dicendo?!" ( :D ), beh, t'assicuro che l'espressione esiste. ;) PS: Sono OT? :D PPS: La citazione di Gaber che riporti è bellissima, non la conoscevo. :)


Abajia - 24/11/2009 alle 18:08

[quote][i]Originariamente inviato da pedalando [/i] Non capisco tutto l'ambaradan sui registri per data,autore ecc. Mi pare servano solo a confondere.[/quote] Sì, effettivamente penso che le classificazioni iniziali servano solo ad "introdurre" il discorso (e, in un certo senso, a far sì che la mente entri nel giusto ordine di ragionamento), ché il paradosso "starebbe in piedi" anche senza quel "preludio".


Abajia - 24/11/2009 alle 18:25

[quote][i]Originariamente inviato da Bitossi [/i] Confermando che effettivamente l'ultima è un po' facile, confesso che mi piacciono più gli enigmi dei paradossi... trovare una soluzione folgorante dà sempre soddisfazione e rinforza l'autostima![/quote] Concordo! [quote]Il collegamento comunque è abbastanza semplice: mi sembra che il succo del discorso sia comprendere il limite al quale può arrivare la logica formale matematica nel dare risposte "sicure", e dove invece si passa a piani diversi...[/quote] Anche questo, sì, ma non soltanto. Del resto, il ragionamento filosofico mette radici un po' dappertutto, e talvolta l'espediente logico è un "passaggio obbligato". La Logica, non a caso, è stata tema di studio di praticamente tutti i filosofi [i]degni di tale nome[/i], e non è un caso che, laddove si parli di Epistemologia, la si tiri in ballo spesso e volentieri. Poi oh, magari affrontare l'argomento così come stiamo facendo noi è da caz.zari :Od: , ma questo è un altro discorso! E, comunque, non mancherò di smuovere e aizzare la vis polemica che è in voi :Od: , datemi ancora qualche giorno di tempo. [quote]Se vogliamo proporne un altro facile (l'ultimo) [i]eccetera[/i][/quote] L'ultimo paradosso o l'ultimo paradosso facile? :P [quote][i]Originariamente inviato da dietzen [/i] questa è facile ma non ho capito com'è che si è partiti dalla filosofia e si è arrivati a test di logica. :P [/quote] Mi fai tornare in mente alcune mie interrogazioni: alla domanda del professore, ecco la mia risposta: "Sì prof, la so!", e poi al vicino di banco: "Che è 'sta roba?!". :Od: Dài, so che non è questo il caso, però rispondi lo stesso, essù! Dammi 'sta soddisfazione!


uffa - 24/11/2009 alle 23:27

[quote][i]Originariamente inviato da Abajia [/i] ... Mi fai tornare in mente alcune mie interrogazioni: alla domanda del professore, ecco la mia risposta: "Sì prof, la so!", e poi al vicino di banco: "Che è 'sta roba?!". :Od: [/quote] Aneddoto Interrogazione di letteratura inglese, su Joyce. Tocca ad un mio caro amico, che ovviamente non ha toccato libro. Argomento: il racconto 'Clay'. -"Che cacchio vor dì?" mi fa. -"Argilla" -"OK, non serve altro!" E ha cominciato a snocciolare un discorso sulla poca e nessuna importanza della trama e dei personaggi, ché tutto il significato del racconto era nel titolo (l'unica, e dico l'unica cosa che sapesse non solo del racconto ma di tutto Joyce). Insomma, ha infinocchiato alla grande la prof, che non era diciamo brillante, ma riuscire a basare un'interrogazione su niente mi è parso comunque un capolavoro. Dopo venticinque anni ancora ridiamo. No è che questo thread farà la stessa fine? :D


Abajia - 25/11/2009 alle 00:55

VOGLIO CONOSCERLO! :cool: [quote][i]Originariamente inviato da uffa [/i] No è che questo thread farà la stessa fine? :D[/quote] Tanto fumo e ben poco arrosto? Sarebbe bellissimo! :Od: A parte tutto, l'argomentazione filosofica va dallo sproloquio alla dissertazione, da scopi pressoché fini a sé stessi a finalità ben più strutturate. Con ciò, beninteso, non intendo porre delle discriminanti, perché a volte è proprio dall'inaspettato che vengono fuori le fonti di maggior soddisfazione. Quindi che altro dire, se non che, nel caso, pure il kattseggio sarebbe un fine del tutto rispettabile. :Od: Marlon Brando, parlando del suo lavoro, lo etichettava, fra tutti, come "il più inutile". Mi chiedi cosa c'entri questo?! C'entra, c'entra. Forse. Il tuo amico troverebbe facilmente un modo di farcelo entrare. :D (Ma no, fidatevi: se sarà un fuoco di paglia [probabile], qualche traccia la lascerà pure; nel peggiore dei casi, rimarrebbero almeno le bruciacchiature, no? :D ) (Avremo modo di [i]conoscerci[/i] tutti [quelli che "parteciperanno"] un po' meglio, e di lanciarci in considerazioni estremamente personali, vedrete ;) )


lemond - 25/11/2009 alle 14:14

[quote][i]Originariamente inviato da Abajia [/i] ... Tra questi, novero quel Protagora, figura complessa ed intricata, la cui importanza è stata oscurata anche e soprattutto per tutti questi motivi, e del quale ci è pervenuta la famosa citazione, forse più conosciuta addirittura dello stesso autore, “l’uomo è misura di tutte le cose”. [/quote] Per oggi sono arrivato a leggere fin qui e non ho nulla da eccepire, solo da imparare e stupito di come a vent'anni ... Ciao, e a domani, carissimo Andrea.


Abajia - 25/11/2009 alle 23:47

Apprezzo molto il tuo impegno, Carlo, nonostante le da te citate difficoltà di concentrazione, quindi tutto ciò mi fa doppiamente piacere. :) Se fin lì non hai alcunché da eccepire, noterai come molto di quello che leggerai successivamente ti sembrerà che, tra le righe, stia a voler dipingere delle idee antitetiche a quelle che personalmente ho (che, ad esempio, sono, a grandi linee, assimilabili allo scetticismo). O magari non ci hai mai fatto granché caso, e quindi niente, avrai modo di accorgertene tra qualche giorno. ;)


lemond - 26/11/2009 alle 13:08

[quote][Originariamente inviato da Abajia Ma, d’altronde, la scoperta stava nella ricerca stessa, vale a dire nell’attività di pensare per conto proprio, di ragionare a fondo su problemi morali ed epistemologici, senza dare per scontate le idee ricevute, o prender per buone risposte appena plausibili. [b]Infatti, secondo me il lascito maggiore di Socrate è il suo metodo maieutico. [/b] Per Socrate, verità e virtù sono la medesima cosa. Nessuno fa il male intenzionalmente, sosteneva, ma solo perché non comprende ciò che è buono e giusto. È solo pensando per conto proprio, vale a dire aspirando all’autonomia morale, che siamo in grado di ridurre il male fatto non intenzionalmente, e, quindi, rendere la nostra anima quanto più virtuosa possibile. Ma non è possibile pensare da sé senza giungere a conoscersi; la conoscenza di sé stessi non può essere insegnata, ma è l’unica garanzia di virtù. Dunque: la virtù è conoscenza, il vizio è ignoranza. Un giovane ed appassionato seguace di Socrate consultò l’antico Oracolo di Delfi, sacerdotessa e portavoce di Apollo, dio della ragione e della misura. Il giovane chiese se vi fosse qualcuno, ad Atene, più saggio di Socrate; la risposta fu no. Al che, Socrate, venutolo a sapere, rimase pressoché sconcertato da questo fatto, dal momento che era persuaso di non possedere la saggezza. Per nulla incline ad accettarla solo perché gli faceva comodo (immune, quindi, al bias di conferma), il filosofo si dedicò a testare l’affermazione del dio, per mezzo dell’oracolo, scoprendo, infine, che non v’era alcun saggio tra loro che avevano la pretesa di esserlo. L’obiettivo di Socrate era l’educazione dei giovani nobili, ma ciò implicava la denuncia degli impostori della conoscenza, quale che fosse il loro status: si faceva, così, non pochi nemici. Nel corso del dialogo, Socrate esigeva dalla controparte una coscienza attiva nella ricerca della verità; per questo, afferma Conford, “Socrate scoprì l’anima”. Taylor, sulla scorta di Burnet, sostiene che Socrate “creò la concezione dell’anima” che fin d’allora ha dominato la filosofia occidentale. Giustino il Martire (secolo II d.C.) lo considerava un cristiano vissuto prima di Cristo, [b]Il vezzo (vizio) di arruolare chiunque nella loro truppa è sempre stato presente in tutti i "pensatori" cristiani, così come quello di autodefinirsi martiri :Od: [/b] e molti altri filosofi occidentali (Platone, gli stoici, gli scettici) hanno identificato in Socrate il loro precursore. [b]A proposito di Platone, mi sono sempre chiesto, come si fa a distinguere il di lui pensiero da quello del suo maestro, dato che Socrate non ci ha lasciato niente di scritto? [/b] Cicerone disse che “tutti i filosofi pensano a sé stessi come seguaci di Socrate, e vogliono che anche gli altri lo pensino”. Socrate era esperto di matematica ed aveva studiato i primi filosofi greci, e giunse a ritenere che le loro tesi metafisiche non fossero superiori ai miti: trattàvasi di speculazioni oltre la portata della conoscenza umana, perfino al di là di nostri legittimi interessi. All’inizio, Socrate nutrì molte aspettative per la filosofia di Anassagora, il quale sosteneva che l’origine del cosmo non fosse l’acqua, né l’aria o il fuoco, ma la Mente. Socrate era sicuro che questa concezione fosse corretta, giacché solo la Mente avrebbe potuto ordinare tutto per il meglio, e far sì ch’ogni cosa seguisse le proprie funzioni. Ma il libro di Anassagora (andato perduto) deluse Socrate, poiché, in esso, la Mente si limitava a dare origine al mondo: erano i ben noti princìpi fisici ad ordinare le cose nel modo in cui ora le vediamo. La sua delusione, implicitamente, rivela una convinzione, di fondo, teleologica: non si può comprendere il mondo, se non se ne conoscono i fini. Così come ho fatto per Socrate, laddove ritenessi propedeutico un quadro introduttivo d’un tratto caratteristico del pensiero filosofico di una particolare personalità, per scopi grossomodo introduttivi ad un segmento tematico, farò altrettanto anche in seguito. Pregiudizi cognitivi Il cretino ed il folle Ci siamo passati tutti. State facendo tardi al lavoro, andate di fretta, quando rimanete bloccati per strada, per colpa d’uno stupido lumacone che non si toglie di mezzo. Oppure: state guidando rispettosi del codice della strada, quand’ecco che un folle vi si fionda dietro, impaziente di passare, ma praticamente impossibilitato a farlo. Si incolla al paraurti. Ecco un altro pericolo pubblico! L’autista lento che ci sta davanti è un cretino: noi non siamo mai i folli. Quello che ci sta dietro dietro è un folle: noi non siamo mai i cretini. Noi sì che andiamo sempre alla velocità giusta! Se andiamo a curiosare nel chiacchierio continuo della nostra mente, impegnata nella sua quotidiana routine, vi troveremo le spiegazioni (provvisorie) che diamo a ciò che ci accade intorno. Ad esempio, spieghiamo il comportamento delle persone attribuendogli delle cause – come quando biasimiamo o scusiamo qualcuno per quello che ha fatto – pur rimanendo nel silenzio privato dei nostri pensieri. Gli psicologi hanno studiato quello che è, da tempo, oggetto di rimprovero da parte dei filosofi: la tendenza a prendere decisioni nel modo sbagliato, a giudicare con approssimazione, ad attribuire cause che non esistono. La mente non è uno strumento di misurazione oggettivo, coloro che lo usano senza prendere precauzioni necessarie a controbilanciare il peso a proprio favore, si troveranno in un condizione di svantaggio. Ma, d’altro canto, è solo grazie a questo strumento difettoso che possiamo sperare di correggere i suoi stessi difetti: impresa dall’esito alquanto incerto. Come illustra l’esempio del cretino e del folle, tendiamo a proporre attribuzioni personali quando dobbiamo spiegare il comportamento altrui, ma, quando trattasi di noi stessi, facciamo attribuzioni situazionali: “è un’emergenza”, “ci sono i limiti di velocità”. La nostra tendenza ad attribuire le cause del comportamento altrui, privilegiando i fattori interni alla loro personalità e sottostimando, invece, le condizioni esterne a cui sono sottoposti, è così diffusa che le è anche stato attribuito un nome: errore fondamentale di attribuzione, ed è stata acclamata come la pietra angolare della psicologia scientifica. La storiella del cretino e del folle mostra anche che, quando spieghiamo il nostro comportamento, spesso evidenziamo un pregiudizio a favore di noi stessi (self-serving bias); quando l’esito delle nostre azioni è positivo, lo attribuiamo alla nostra virtù, intelligenza, capacità; quando l’esito è negativo, facciamo appello alle circostanze. Ho passato l’esame perché son proprio bravo! Sono stato bocciato perché c’era una domanda a tradimento… Un errore simile, arcinoto, si riscontra nelle spiegazioni morali: quando le cose vanno storte, riteniamo gli altri responsabili, puntando il dito contro la loro inettitudine, ma discolpiamo noi stessi: le mie intenzioni erano buone, ho fatto tutto ciò che potevo! Ulteriori ricerche hanno mostrato come l’età e la cultura in cui viviamo influenzino l’incidenza di queste attribuzioni. Coloro che crescono in una cultura dell’Asia orientali sono meno, o per nulla, soggetti all’errore fondamentale d’attribuzione. Simili differenze possono esser dovute ad un maggior livello complessivo d’attribuzioni di tipo situazionale, o anche ad un senso dell’identità personale più malleabile, esso stesso più situazionale. Vi sono, poi, individui appartenenti a due culture che passano da uno stile di attribuzione all’altro, a seconda dei contesti. A proposito dei pregiudizi cognitivi, avrei da proporvi un test veloce veloce che, personalmente, trovo fallace nella sua premessa e, di conseguenza, nella sua soluzione, ma la mia idea non è di propinarvi tutti i vari giochini che ho in mente tutti d’un colpo, ma un po’ alla volta. [b]Non ho trovato il giochino e, preso dalla rabbia, :D ho deciso di finire qui la terza puntata della mia lettura, non prima di aver preso come esempio del "folle e il cretino" un certo Phil Hellmuth , giocatore di Texas Holden, uno fra gli uomini più antipatici che conosco :OIO [/b] [/quote] [b] [/b] [b] [/b]


lemond - 27/11/2009 alle 14:23

Originariamente inviato da Abajia Dubbi da Oriente Lo scetticismo è una posizione filosofica molto antica. In senso (molto ma molto) lato, una qualche forma di scetticismo è all’opera ogni volta che presumiamo vi sia l’incertezza su qualcosa, o solleviamo dubbi circa un principio dato. Lo scetticismo può essere un atteggiamento filosofico interno all’epistemologia, o, addirittura, può mettere in questione l’aspirazione stessa a giungere ad aver conoscenza riguardo alla conoscenza. Per farla breve, e banalizzando anche grossolanamente l’accezione proprio di una sì radicata (e radicale) istanza filosofica, trattasi d’una filosofia potenzialmente anti-filosofica. [b]E quando Socrate sosteneva che l'unica cosa che sapeva era ... ? [/b] Molte delle sue formulazioni storicamente importanti si devono non filosofi di professione, bensì a poeti, mistici, religiosi. La filosofia tutta sarebbe più povera se prescindesse dall’apporto di queste menti. Peraltro, strano a dirsi, ma, spesso, sono proprio i credenti a dimostrare una maggior familiarità col dubbio. [b]Dipende a quali credenti ti riferisci, per me quelli che più sono congruenti con una tale definizione sono i c.d. fondamentalisti, per i quali non si può mettere in discussione la parola di dio, del libro, del vangelo, per i quali certi princìpi sono non negoziabili, etc. [/b] L’antica filosofia cinese del taoismo prende le distanze da ogni pretesa assoluta di conoscenza. Il Tao (cioè la via) è silente e non può essere affermato, né del tutto concettualizzato. La verità che è possibile conoscere, non è la verità eterna. Ecco qui, dunque, due proposizioni che s’avvicinano allo scetticismo e mettono in guardia da ogni ardente ottimismo epistemico. “Colui che sa, non parla. Colui che parla, non sa.” (Lao Tzu, Tao Te Ching, capitolo 79) “Una volta Chuang Chou sognò di essere una farfalla. Gli piaceva essere una farfalla, si divertiva e andava dove gli pareva. Non sapeva di essere Chou. Svegliatosi all’improvviso, sul momento si stupì di essere Chou. Non sapeva più se era Chou ad aver sognato di essere una farfalla, o se era una farfalla a sognare di essere Chou. Tra Chou e la farfalla ci deve ben essere una differenza!” (Chuang Tzu, Capitoli interni (Nei pian)) “Chi lo sa per certo? Chi lo proclamerà qui e ora? Questa creazione dove è nata, e da dove viene? Gli dei sono nati dopo la creazione di questo mondo: chi dunque potrà mai sapere da dove esso è sorto?” (Da L’inno della creazione, nei Rig-Veda) Esistono molti miti della creazione nei testi indù, i quali richiamano spesso a questioni filosofiche. Gli dei – le innumerevoli divinità – nascono dopo la creazione e, quindi, non sono da ritenersi i creatori del mondo; tutt’al più, essi conferiscono uan forma ed un ordine. L’inno pone domande che trascendono la realtà che ci è manifesta e, saggiamente, ci lascia con una serie di punti interrogativi. [b]"Vere dignum et iustum est" [/b] L’induismo, in generale, non è una tradizione scettica. Nella forma classica dei Vedanta, l’induismo proclama non solo le leggi del karma e della reincarnazione, ma afferma anche l’esistenza d’un Io unitario, che è l’identità ultima di tutte le cose. Questo Io, o Atman, è divino. Non sembrerebbe esserci molto spazio per lo scetticismo, tuttavia, rendersi conto della nostra identità trascendente è come (ri)svegliarsi da un sogno. Il problema è che questo mondo è proprio il sogno dal quale ci si (ri)sveglia. Dire che il cosmo fisico è un’illusione (maya), non significa, però, negare la sua esistenza; i sogni esistono: è solo che non sono quello che sembrano essere. “Non ho detto che il mondo è eterno o che il mondo non è eterno. Non ho detto che il mondo è finito o che il mondo è infinito. Non ho detto che l’anima e il corpo sono identici o che non lo sono. Non ho detto che il saggio illuminato esisto dopo la morte o che il saggio illuminato non esiste dopo la morte. E perché non ho detto niente di tutto ciò? Perché non è utile e non serve alla saggezza suprema, né al Nirvana” (Majjhima-Nikaya, Sutra 63) Siddharta Gautama, il Buddha, credeva in una vita passata, e si dice abbia avuto una visione completa di tutto il suo Io; ma rifiutava molte questioni metafisiche, in quanto esempi di filosofia che non contribuisce alla liberazione. Tuttavia, il Buddha teneva a dubitare dell’esistenza dell’Io o dell’Anima. La rinascita può avvenire a prescindere dal passaggio dell’anima da una vita ad un’altra. La rinascita è la conseguenza dell’ultimo pensiero prima della morte, non la continuità dell’Io dopo la morte. Per la precisione, la concezione buddhista è una dottrina della rinascita, non una teoria della reincarnazione o della trasmigrazione delle anime, come la si può trovare nell’induismo o in Platone. Rimane, però, il fatto che l’illuminazione è in grado di portarci al di là del ciclo di morte e rinascita: questo è ottimismo, non scetticismo. [b]E mi sembra, più che altro, un atto di fede non troppo corroborato dalla realtà, ma che cosa è la realtà? La realtà è un uccello che non ha memoria devi immaginare da che parte va. È un uccello strano che mi gira intorno è da tanto tempo che gli do la caccia ma non ha abitudini questa bestiaccia non conosce regole, né fedeltà. [/b] Ho più volte citato Platone, il cui pensiero è stato, perlomeno agli esordi, influenzato dal maestro Socrate e, da par suo, ha condizionato le generazioni successive di filosofi, dall’Occidente all’Oriente. Nato da un’illustre famiglia ateniese, Platone era ancora giovane quando venne attratto da Socrate, e ne divenne allievo. Dopo la morte del maestro e mèntore, Platone lasciò Atene per alcuni anni, per poi tornarvi e ivi fondare un’istituto formale di istruzione, l’Accademia, precursore delle moderne università. Il processo e la morte di Socrate colpirono profondamente Platone, il quale fornì intensi resoconti scritti degli eventi. Molto di ciò che sappiamo in merito a Socrate è stato “filtrato” attraverso la mente e le mani sapienti di Platone, la cui filosofia propria, poi, emerse gradualmente, e la si può vedere, per molte ragioni, quale una difesa della vita e della missione del maestro. Platone era deluso dal mondo in cui viveva: gli ideali di Socrate non aveva avuto realizzazione nel sistema democratico, né nella condotta dei potenti. Socrate aveva dimostrato che l’integrità è possibile, ma deve venire dall’interno di noi, piuttosto che dal sapere dominante, o dall’ordine sociale esistente. Socrate pareva incorruttibile, quali che fossero le corruzioni, tant’è che evitò la fuga dal carcere, laddove gli si profilò l’occasione d’evitare la condanna. Quale conoscenza invisibile possedeva, tale da permettergli di vincere i motivi più meschini e porsi al di sopra delle politiche basate sulla ricchezza e sul potere? Socrate sapeva qualcosa che lo rendeva virtuoso anche di fronte alla morte, ma cosa? La mente dell’infatuato Platone s’arrovellava e delle questioni simili si poneva, e non trovò pace fino a che non formulò un’ipotesi che gli parve credibile: il mondo non è come appare. La questione della conoscenza divenne centrale in Platone. La sorgente della conoscenza non può essere il mondo visibile, con le sue ingiustizie ed i suoi vizi. Gli occhi ci mostrano la luce e i colori, ma occorre qualcosa in più delle cinque capacità sensoriali per riconoscere gli oggetti. Prendiamo, a titolo esplicativo, un semplice giudizio osservativo del tipo: “questo è un uomo”; persino per formulare questo giudizio è necessario il pensiero, un’intelligenza interna (nous, in greco). In un dialogo, Platone descrive Socrate mentre questi guida un ragazzo ignorante in matematica alla dimostrazione d’un certo teorema geometrico, il tutto ponendo al giovane soltanto delle domande. Nessuno ha mai insegnato il teorema al ragazzo, e Socrate si limita, come detto, semplicemente a formulare domande. Dunque, la conoscenza del teorema dev’essere esistita in forma latente nel ragazzo, benché lui non ne fosse consapevole. Platone conclude anche che il ragazzo deve aver conosciuto il teorema in una vita precedente. [b]Beh :? Sarei un po' scettico ;)[/b] La teoria platonica della conoscenza e la sua concezione metafisica sono presentate nella famosa allegoria della caverna. Noi viviamo come prigionieri, incatenati in una caverna, e vediamo solo ombre proiettate, da un fuoco alle nostre spalle, su un muro davanti a noi. Una volta liberati e portati fuori dalla caverna, vediamo gli oggetti stessi, vale a dire quelli di cui prima scorgevamo le sole ombre. Vediamo, così, gli originali, mentre prima ne conoscevamo le sole copie. A poco a poco, impariamo a distinguere i corpi celesti, apprendiamo la matematica e la musica delle sfere del cielo; ciò ci darà l’accesso alle verità eterne, che stanno oltre il mondo fisico. L’allegoria riporta, nella forma d’un racconto, gli aspetti teorici dell’epistemologia e della metafisica di Platone. Entrambe sono rappresentate da una linea divisoria. Metafisicamente, Platone divide la realtà in due: da una parte sta il mondo fisico, in perenne flusso, come secondo Eraclito, rivelato dai sensi; dall’altra c’è il mondo ideale (il cosiddetto “Paradiso di Platone”), stabile e comprensibile solo per mezzo dell’intelletto. Per Platone, il mondo naturale e sociale, l’unico che la maggior parte di noi potrà mai conoscere, non è altro che un’illusione, simile ad un sogno. Al di là del nostro cielo fisico, v’è un altro mondo, nel quale risiedono le forme ideali della Giustizia, della Verità, della Bellezza. La nostra mente può giungere al mondo delle idee e sentire, così, un legame di familiarità ed appartenenza ad esso. Solo il filosofo che si libera delle catene, divincolandosi dalle convenzioni sociali e dai comuni atteggiamenti di “bassezza intellettiva”, può emergere al di fuori della caverna, che simboleggia il mondo delle copie. La mente, funzione superiore dell’anima, potrà anche sentirsi a proprio agio tra le forme ideali che risiedono nella realtà superiore, ma il filosofo liberato è vincolato all’obbligo di tornare nella società e darsi da fare per realizzare, qui, la visione del bene che ha avuto: il filosofo ha, dunque, il dovere di offrire il suo servizio al mondo. Come Socrate, così il vero filosofo non è colui che se ne starà isolato, perso nel suo atteggiamento di meditabonda perditudine spirituale, ma, contrariamente, cercherà di riportare con sé, nel mondo inferiore, quei valori che ha conosciuto, in virtù della sua capacità “sovrasensoriale”. Per questo, dalla saggezza deriva la responsabilità di governare. Dunque, secondo Platone, come l’essere si caratterizza per due diversi gradi, dagli oggetti fisici alla metafisica delle forme etiche e di quelle matematiche, così anche la conoscenza è bigraduata, e si distingue tra opinione, mutevole ed effimera, e conoscenza vera e propria, immutabile ed eterna. [b]Alla prossima [/b]


Abajia - 28/11/2009 alle 20:25

(per il fine settimana sono tornato in terra d'Abruzzi; appena tornerò a Roma avrò l'occasione di risponderti ;) )


lemond - 29/11/2009 alle 12:00

Originariamente inviato da Abajia Dubbi da Occidente Il dubbio è stato, fin dagli albori della filosofia, suo compagno di viaggio. I primi grandi scettici occidentali sono avvolti dalla leggenda, per quanto loro stessi attaccassero le leggende. Allo stesso modo, attaccavano la possibilità stessa della conoscenza. Sebbene tutto ciò appaia come un punto di vista dettato dalla disperazione epistemica, in realtà è così che si mantiene vivo lo spirito critico. Lo scetticismo è morto e, dalle sue ceneri, più volte risorto, e, quando l’ha fatto, ha portato nuova linfa allo spirito stesso della filosofia. Senofane Conosciamo Senofane, poeta-filosofo (poeta filosofeggiante o filosofo poetanto? Bah, non ricordo!) del secolo VI a.C., solo attraverso frammenti letterari e resoconti di altri. Era credente (riferitamente, ovvio, non a Cristo; “Dio è uno, ed è supremo tra gli dei e tra gli uomini”), ma non era disposto ad ammettere alcuna certezza completa (“Queste cose mi sono sembrate essere somiglianti alla verità”). [b]La parola *credente* è una delle più ambigue che conosca, perchè è più che ovvio che ciascun essere in qualcosa crede, anche colui che pensa che la realtà non esiste, o anche chi vede soprattutto "Nera luce" ;) [/b] Inoltre, prese una posizione fortemente scettica nei confronti delle storie narrate da poeti famosi, quali Omero e Esiodo, ed in particolare quelle in cui gli dei erano rappresentati a mo’ d’esseri dotati delle umane debolezze (gelosia, ira, impulsi sessuali). Senofane disprezzava la credulità del popolo. [b]Invece altri hanno accumulato patrimonio e potere, tenendo l'atteggiamento opposto :D [/b] “I mortali ritengono che gli dei siano nati così come loro, che indossino vestiti umani, e abbiano una voce ed un corpo umani. Ma se i buoi o i leoni avessero le mani per dipingere […] e producessero opere d’arte come fanno gli uomini, di certo dipingerebbero i loro dei dando loro un corpo simile in forma al loro – i cavalli simili ai cavalli, i buoi simili ai buoi” (T. V. Smith [riprendendo un tema già trattato, in filosofia, svariati secoli a.C., intorno all’epoca dei già citati “naturalisti”], 1956) Pirrone di Elide Pirrone è, tra i Greci, il primo scettico estremo che si conosca. La leggenda narra che il suo nichilismo epistemico fu ispirato dall’episodio del saggio indiano che si diede fuoco, uno dei “saggi nudi”, o yogi, che accompagnarono Alessandro Magno durante la ritirata dall’India. Pirrone era presente quando Kalanos, un venerabile indiano ammalatosi nel corso del viaggio ed era, con tutta evidenza, già pronto alla morte, chiese che fosse allestita una pira, in cima alla quale salì. Al suo segnale, la pira, e lui con essa, furono ben presto avvolti dalle fiamme. La manifesta tranquillità e l’estremo autocontrollo (atarassia) con cui l’indiano si diede alla morte, impressionarono Pirrone. Quest’immagine d’imperturbabilità, in netto contrasto con la certezza di possedere la verità, venne a caratterizzare il filosofo ideale, impassibile al dolore, padrone di sé e privo d’ogni credenza. [b]Un episodio simile, accadde nel febbraio del 1600 a Roma, in Campo dei fiori: atarassia dovuta, ma sempre tale :mad: [/b] In risposta a questa terrificante dimostrazione di atarassia, Pirrone architettò la sua devastante filosofia scettica, sostanzialmente in tre punti: – Niente esiste – Laddove qualcosa esistesse, non potremmo conoscerlo – Se lo conoscessimo, non potremmo comunicarlo Inoltre, Pirrone presentò il dilemma seguente: il criterio di verità, col quale distinguiamo il vero dal falso, e viceversa, deve passare la prova di sé stesso; se non la passa, è un falso; se la passa, l’argomento sarà logicamente circolare (e tautologico): il criterio è vero perché è vero. Dunque, non si può mostrare che sia vero alcun criterio di verità. La filosofia scettica, nei suoi tratti caratteristici e caratterizzanti, ha trovato, nel corso dei secoli, maggior impeto laddove è stata ripresa, fatta propria e riproposta in chiave personalizzata, con l’ostentata intenzione di conferire sistematicità ed organicità al sistema dubitativo. Tra quanti si sono cimentati nell’impresa, val la pena citare quel René Descartes, italianizzato in Cartesio, al quale riconduciamo il metodo del dubbio. Sia come ricerca della verità, che come critica polemica, lo scetticismo, nelle sua varie versione, ebbe un certo successo nell’antichità. Come molta parte della cultura antica, così anche la corrente scettica pian piano scomparve, cadde nel dimenticatoio, per poi venir riscoperta, nel corso del secolo XV, quando andò ad alimentare l’incendio provocato dal conflitto tra autorità religiosa e ricerca scientifica, campo già ampiamente minato e, non foss’altro che per ciò, del tutto instabile. Il succitato metodo del dubbio cartesiano mirava, in realtà, a stabilire certezze e, quindi, a refutare lo scetticismo assoluto ed il pirronismo, i quali conoscevano allora un momento di “rinascita”. Cartesio non era uno scettico: utilizzava sì i metodi dello scetticismo, ma col preciso fine di giungere ad una verità indubitabile. Iniziava, così, a dubitare di tutto, ipotizzando come fallaci anche ciò che vedeva come ovvietà. Ma la sua opera di “demolizione generale dell’opinione comune” non era totale: proprio utilizzando questo metodo, egli scopriva un insieme ordinato di proposizioni di cui non poteva non garantire l’assoluta certezza. Queste proposizioni erano qualcosa di cui era, dunque, impossibile dubitare. Cartesio notò che i sensi, a volte, ci ingannano; il mondo fisico, così come ci è dato, sembra davvero reale: ma i sogni possono sembrare ugualmente reali, finché durano. Basta una semplice conta per verificare l’addizione di piccole somme (come 2+3); ma è anche possibile che un genio maligno onnipotente introduca una risposta falsa nella nostra mente: crediamo solamente che la vera somma sia 5. Cartesio provava un senso di vertigine nel dubitare di tutto questo, ma, per così dire, riuscì a raddrizzarsi trovando un punto fisso al quale potersi saldamente ancorare. Scoprì, infatti, una verità incrollabile, che nessun dubbio poteva attaccare: Io esisto, perché sono io che dubito. Lasciamo pure che il demone maligno faccia del suo peggio: se è me che inganna, se io vengo veramente ingannato, allora io devo essere reale. La mia esperienza che io esisto. L’esistenza dell’Io (chiamato anche Mente, Spirito, Anima) divenne il fondamento primario dell’intera filosofia cartesiana, il principio fisso, invulnerabile ad ogni eventuale attacco scettico. [b]Il metodo del dubbio è quello della scienza e se di questo dobbiamo ringraziare Descartes, lo faccio volentieri [/b]:clap:


lemond - 30/11/2009 alle 10:16

originariamenti inviato da Abajia I problemi di Gettier Cos’è, allora, la conoscenza? Quali sono le sue proprieta? Per più di duemila anni, i filosofi hanno grossomodo accettato la definizione di Platone, secondo cui la conoscenza – nel senso di certezza riguardo a determinate proposizioni – è credenza vera giustificata. In tal senso, sapere qualcosa equivale, di fatto, a credere con buone ragioni che quel qualcosa sia vero. Negli anni Sessanta, Edmund Gettier suggerì che vi possono essere situazioni in cui una credenza vera giustificata non costituisce conoscenza. Come esempi, usò scenari che sono, da allora, noti come i Problemi di Gettier. Il più noto di questi inerisce ai signori Smith e Jones, in competizione per lo stesso lavoro. Primo problema Dopo averne avuto notizia da una fonte affidabile, Smith crede che Jones abbia ottenuto il lavoro. Inoltre, sa che Jones ha dieci monete in tasca. Smith inferisce, validamente, che il lavoro è andato ad un uomo che ha dieci monete in tasca. A sua insaputa, però, è proprio Smith ad aver ottenuto il lavoro; e, per puro caso, gli capita d’avere dieci monete in tasca, pur non essendone a conoscenza. La conclusione di Smith, quindi, è corretta: il lavoro è, a tutti gli effetti, andato ad un uomo con dieci monete in tasca. La sua inferenza è valida, la conclusione è vera e la sua fonte risulta autorevole, pur se in errore. Tuttavia, nonostante Smith abbia una credenza vera giustificata, possiamo davvero chiamarla conoscenza? [b]Secondo me, sì: si tratta naturalmente, come mella scienza, di una conoscenza soggetta a smentite. Come dice Bruto nel "Giulio Cesare" di Sk. "Un buon consiglio cede ad uno migliore" ;) [/b] Alla fine degli anni Sessanta, Thomas Paxson e Keith Lehrer sostennero che una CVG costituisce conoscenza solo se non c’è alcuna informazione tale che, se il soggetto ne fosse al corrente, cancellerebbe, o renderebbe nulla, la credenza. Una credenza è invincibile se nessuna informazione potrebbe annullarla. [b]Ad es. il principio di non contraddizione? [/b] Del resto, però, la validazione e legittimazione d’una conoscenza non si esaurisce qui, tant’è che non sono state lesinate argomentazioni rivolgentisi verso altre direzioni, altri fattori chiamati in causa, altri dubbi da (tentar di) dissipare, in maniera quanto più convincente possibile. Andando al dunque: cosa sapevamo quando siamo nati? Ovvero: un netto distinguo tra conoscenza innata e conoscenza acquisita. “Innata” significa, letteralmente, “esistente prima della nascita”, “congenita”. Se la conoscenza è credenza vera giustificata, allora quella innata è, per certo, uguale a zero. Quali credenze ha una mente prima di fare esperienze? Quale evidenza possiede il neonato prima di avere coscienza? Se non è nato con una predisposizione ad avere esperienze, come farà ad acquisire conoscenza altrimenti? Ma può, una semplice predisposizione, esser conoscenza? Ciò che è innato è una predisposizione, una potenzialità ad avere esperienze e ad acquisire conoscenza. La predisposizione dev’esser specifica: esser predisposti a tutto equivale, di fatto, ad esser predisposti a niente. [b]Non credo, vedi ad es. le "staminali embrionali" che sembrano molto più promettenti di quelle adulte, in quanto sono "totipotenti". [/b] Ma, d’altro canto, neppure dev’esser troppo specifica: il neonato umano non è predisposto ad imparare l’inglese piuttosto che l’italiano, ma qualsiasi linguaggio umano. Alcuni esperimenti hanno mostrato che i neonati ricordano le canzoni udite mentre erano ancora nel grembo materno. I bebè evidenziano la preferenza per una certa musica, dando una poppata più vigorosa alla mammella. Possiamo dire che i bebè conoscevano quelle canzoni già alla nascita? Una distinzione, a questo punto, è d’obbligo, dato che una cosa è la familiarità, anche quando sia un fondamento per la conoscenza, un altro paio di maniche è una credenza vera giustificata. Quello che lo psicologo chiama apprendimento, non è conoscenza per il filosofo; o, perlomeno, non lo è per il filosofo che aderisce alla definizione platonica di conoscenza. Il neonato batte le palpebre per un soffio d’aria; afferra, con la sua manina, il dito d’un adulto quando questi gli sfuora il palmo; gira la testa quando gli si carezza la guancia. Queste sequenze fisse di azioni avvengono a livello puramente comportamentale? Il comportamento può evidenziare un saper-fare: ma è conoscenza? È qualcosa che può esser vero o falso? Può, la mera azione, esser la base della conoscenza? [b]Secondo me si può anche chiamare istinto, ma senpre di conoscenza si tratta. [/b] Prima d’inoltrare la quesione ad un livello storico-filosofico, credo occorra distinguere, anche qui, ciò che si presume possa costituire conoscenza innata, da ciò che, oggi come oggi, un po’ tutte le parti chiamate in cause nell’argomentazione sono concordi nel porre esternamente alla conoscenza: i meccanismi innati; ovvero: istinti e pulsioni. [b]Evidentemente io uso conoscenza in senso più lato ;) [/b] In breve, gli istinti sono sequenze di risposta, tipiche e non apprese, a specifici stimoli nella realtà. Esempi ne sono la nidificazione degli uccelli, che – secondo mirati studi comportamentali – non viene loro insegnata, ed una varietà di comportamenti animali relativi alla caccia e all’accoppiamento. In sé stesso, l’istinto è una spiegazione insufficiente delle azioni umane. Le pulsioni sono stati psicologici che nascono in risposta a bisogni fisiologici, come la fame e la sessualità. [b]Non spiegheranno tutto, ma molte cose, credo di sì [/b] Esigono d’esser soddisfatte, ma il comportamento per raggiunger tal fine non è specificato in alcun modo, ed è assai flessibile, tant’è che, nel caso della sessualità, ad esempio, talune persone riescono a vivere un’esistenza che dichiarano felice senza soddisfarne la pulsione. A grandi linee, secondo un’analisi delle varie correnti filosofiche che, nell’epoca moderna, si sono cimentate nella definizione della capacità conoscitiva dell’uomo, possiamo ricondurre il tutto – senz’altro un po’ grossolanamente – ad empirismo (tutta la conoscenza deriva dai sensi e dalle esperienze sensoriali), innatismo (siamo nati con delle predisposizioni che permettono alla conoscenza e ai comportamenti complessi di scaturire in risposta all’esperienza), razionalismo (la ragione è una fonte della conoscenza, indipendentemente dai sensi). [b] [/b]


lemond - 01/12/2009 alle 06:51

1° Dicembre 1935 nasce a Brooklyn l’attore, umorista, regista e ... Woody Allen (Allen Stuart Konigsberg). Ateo di origine ebraica disse : “Dio non esiste. Comunque, noi siamo il Suo popolo eletto.” Per avere un compendio di tante sue battute rivolgetevi al seguente indirizzo: Edoardo Indirizzo/i di posta elettronica: equaqui@libero.it Ce l'avevo anch'io, ma so più dove l'ò messo :OIO 1° Dicembre 346 Oppressione, insulti, confisca e morte per i politeisti editto di Costanzo e Costante Augusti: “ I templi siano chiusi in tutte le città e vietato l’accesso sia negata ai dementi l’occasione di commettere reato. Che tutti si astengano dai sacrifici. Ma se per caso uno commetterà il reato, sia abbattuto da spada vendicatrice. Le proprietà del giustiziato siano confiscate e la stessa pena sia inflitta ai governatori delle provincie se avranno trascurato di punire un simile reato.” Dopo soli 35 anni dalla legalizzazione del cristianesimo (editto di Galerio 30/4/311), questa religione dogmatica ed intollerante ottenne la persecuzione di tutti gli altri culti! Inoltre si capisce da dove Stalin potrebbe aver preso l’idea di trattare i dissidenti come dementi (o pazzi): tradizione millenarista! (Il millenarismo accomuna le religioni dogmatiche monoteiste e le religioni – ideologie dogmatiche storiciste comunismo e nazismo). Dunque le persecuzioni (con pena capitale) dei politeisti sono di almeno 34 anni precedenti l’editto di Tessalonica, data spesso indicata come l’inizio della proibizione del paganesimo. Ed in nessun modo si puo’ considerare la conversione dell’impero romano alla nuova religione un fatto libero e spontaneo. 1° Dicembre 1764 Il governo francese abolisce l’ordine l’Ordine Gesuita in Francia. (La Società di Gesù fu soppressa per i restanti paesi da Clemente XIV in 1767, ma fu restaurata da Pio VII nel 1814.) DICEMBRE (it.) Decembre (fr.) December (latino, ted., ingl.) Diciembre (sp.) Decembrie (romeno). E' detto così in quanto è il decimo mese dell'anno a partire da Marzo (che era il primo mese dell'anno nel primo calendario latino). A Dicembre cade il solstizio d’inverno o Brumalia, l’evento astronomico considerato il piu’ importante dell’anno sin dalla preistoria. Dicembre Per gli antichi Dicembre era il mese dedicato a Vesta, la dea romana del fuoco, del focolare, delle virtù domestiche. Questa antichissima dea, protettrice dello stato romano non fu mai antropomorfizzata. Corrispondeva alla dea Estia dei greci. La servivano sacerdotesse che dovevano tenere sempre acceso il fuoco sacro (nel tempio di Vesta sito nel Foro romano) dall’inizio alla fine dell’anno (quando il fuoco veniva spento e riacceso). Erano le vergini vestali, scelte di solito all’età di 6 anni per 25 - 30 anni di servizio, dopodiché potevano sposarsi. Dicembre corrispondeva grosso modo al quinto mese del Calendario Attico degli Ateniesi detto dagli antichi greci Poseideon. Nel calendario rivoluzionario repubblicano (1793-1805), Dicembre corrispondeva per le prime due decadi (fino al 21/12~) al mese di Frimaio o Frimaire in francese, e per la decade finale a Nevoso / Nivose. Non terminava col Capodanno che era spostato all’equinozio d’Autunno (22 o 23 o 24 Settembre gregoriano). 1 Dicembre Roma antica: Kalendis Decembribus. { 2 ablativi plurali} o Kalendae Decembres {2Nominativi} [ H ] ; Dies Nefastus (N), dies mercatorius [G] 1 Dicembre Roma Antica, Festa di Nettuno dio del mare e delle acque, il cui omologo greco era Poseidone, anch’egli festeggiato in Grecia oggi. Era il fratello di Giove (lat. Juppiter Iovis, gr. Zeus) in quanto figlio di Saturno (gr. Crono) e di Ops (gr.Rhea). Era anche il dio delle tempeste e dei cavalli da guerra. La sposa di Poseidon era Amphitrite (=dalle belle cosce una delle Nereidi (figlie di Nereo, dio marino preolimpoco figlio di Ponto e di Gaia – mare e terra). Poseidone aveva anche 3 figli da Libia, figlia di Epafo. (In quanto al Nettuno romano gli si attribuisce una moglie di nome Salacia). Figli di Poseidon erano Agenor, Belus e Lelex. La figlia di Agenore era Europa, che ha dato il nome al nostro continente. Fra i discendenti di Poseidon più noti: Edipo, Antigone, Cadmo e Pigmalione (il re di Cipro che scolpita una statua in avorio di Afrodite innamorandosene riuscì a darle vita). Questo giorno è anche sacro alla dea Pietas, che rappresenta la personificazione della pietà comprendendo anche altre virtù come il dovere, l’umanita’, il patriottismo, la devozione alle tradizioni patrie. 1 Dicembre 1135 grave lutto per la cultura: muore Henry I Beauclerc primo re d’Inghilterra a saper leggere! 1 Dicembre 1145 Papa Eugenio III manda una bolla papale al re di Francia Luigi VII, bandendo la Seconda Crociata, come reazione alla conquista turca della contea di Edessa nella Piccola Armenia odierna Turchia (1144), e, anche per tentare di riaprire al commercio europeo l’accesso alla via delle spezie. La guerra fu condotta da re Luigi di Francia e dall’Imperatore Corrado III dal 1147 al 1149, ma non ebbe successo. Le crociate appaiono criticabili molto più per il modo con cui furono fatte che non per l’essere state una ingiustificata aggressione dell’Europa contro gli Arabi musulmani. Come la Reconquista Spagnola (711-1492) erano intese più come un necessario contrattacco piuttosto che una invasione ex novo. Erano infatti i musulmani che avevano islamizzato tramite conquiste militari il mediterraneo meridionale, la Spagna, la Sicilia e che avrebbero continuato a premere verso il cuore dell’Europa fino all’assedio di Vienna del 1683. Il concetto di crociata ovvero guerra santa cristiana in grande stile deriva da quello della jihad che per l’islam non è occasionale, bensì uno dei 6 “pilastri” della fede (comandamenti, doveri essenziali, stabiliti dall’inizio da Maometto su indicazione divina, e pertanto comandamento immutabile per chi accetta il dogma islamico del corano). La jihad fu copiata nella proclamazione delle crociate in seguito all’apprezzamento della sua capacità unificatrice, mobilitatrice e fanatizzante. Ma l’Europa si libererà della presenza imperiale islamica solo nel 1918 col crollo dell’impero Turco grazie alla forza della sua industrializzazione, e non grazie ad un maggior fanatismo. 1 Dicembre 1455 muore a 77 anni Lorenzo Ghiberti scultore. 1 Dicembre 1835 Hans Christian Andersen danese, pubblica il suo primo libro di favole. 1 Dicembre 1843 Apre la prima compagnia mutua d’ assicurazioni Vita specificatamente autorizzata a cio’ negli USA. 1 Dicembre 1913 Apre a Pittsburgh il primo distributore di benzina specializzato. 1 Dicembre 1913 Henry Ford crea la prima linea di montaggio continua (produce un’auto ogni 2 minuti e 38”). 1 Dicembre 1918 Romania: RomaniaUnita Assemblea popolare di Alba Iulia: La Transilvania maggioritariamente abitata da neolatini romeni e culla della latinizzazione degli antichi Daci si unisce per volontà popolare al regno di Romania. “Unirea” Festa nazionale della Romania attuale. 1 Dicembre 1929 Edwin S. Lowe riformula in alcuni dettagli il gioco italiano della Tombola e “inventa” il Bingo. 1 Dicembre 1936 I laboratori Bell esperimentano l’uso del cavo coassiale per la TV. 1 Dicembre 1936 EW Brundin & FF Lyon ottengono brevetti per la cultura idroponica (senza terra) di piante. 1 Dicembre 1943 nasce a New York Nicholas Peter Negroponte, fondatore e direttore del Media Lab al MIT (Massachusetts Institute of Technology). 1 Dicembre 1952 Vittorio Emanuele Orlando che fu il presidente del consiglio (1917-19), della Vittoria nella Grande Guerra (1917-19), muore a 92 anni. 1 Dicembre 1959 12 nazioni firmano il trattato per l’uso scientifico e pacifico del continente Antartico. 1 Dicembre 1959 La prima foto a colori della terra viene ricevuta dallo spazio. 1 Dicembre 1972 Antonio Segni che fu presidente del consiglio e Presidente della repubblica (1955-57, 59-60, 62-64), muore a 81 anni. 1 Dicembre 1970 viene approvata la legge Baslini Fortuna sul divorzio (L. 898/70). I cattolici indiranno un referendum per abolirlo il 12 maggio 1974 ma falliranno clamorosamente (saranno solo il 40 % contro un 60% di voto laico). 1 Dicembre 1987 comincia lo scavo del Tunnel sotto il canale della Manica fra Inghilterra e Francia. 1 Dicembre 1988 Benazir Bhutto è la prima donna nominata Primo Ministro di un paese mussulmano (Pakistan). 1 Dicembre è la giornata internazionale per la lotta contro l’Aids.


Bitossi - 01/12/2009 alle 08:55

Qualcosa mi dice che Carlo ha sbagliato discussione... :Od: Eh, sarà per l'orario... diciamo molto mattiniero? :D


lemond - 01/12/2009 alle 12:57

[quote][i]Originariamente inviato da Bitossi [/i] Qualcosa mi dice che Carlo ha sbagliato discussione... :Od: Eh, sarà per l'orario... diciamo molto mattiniero? :D [/quote] :hammer: e l'orario non c'entra, perché quella è l'ora nella quale sono più concentarto. Grazie :cincin:


lemond - 03/12/2009 alle 15:12

Originariamente inviato da Abajia I filosofi, pertanto, sono divisi circa l’importanza della conoscenza innata. Alcuni negano la sua esistenza, battendo chiodo sull’asserzione secondo la quale, prescindendo dall’esperienza, la mente del neonato è vuota, come una lavagna bianca (Aristotele), o come una tabula rasa (Locke), in attesa che l’esperienza vi intinga le proprie impronte. Queste concezioni sono dette, per l’appunto, empiriste, dal termine greco empeiria (esperienza): i sensi sono la prima, se non l’unica, fonte di conoscenza. Tra gli esponenti d’eccellenza dell’empirismo classico, cito, fra tutti, Hobbes e Hume. Grazie a Darwin, comunque, gli empiristi dovettere riconoscere che un ruolo importante era rivestito dall’ereditarietà e dalle tendenza congenite; ma questa forma d’innatismo si limita agli istinti, ai sentimenti, all’azione. La mente del bambino appena nato è ancora una lavagna vuota, priva delle idee che l’esperienza poi giunge a fornirle. [b]L'ò già detto, però, lo ripeto, per me l'istinto è una forma di conoscenza, altrimenti dovremmo tagliare tutti i ponti con i nostri antenati, più o meno prossimi. [/b] Tuttavia, anche se il feto che sta per esser messo al mondo non ha credenze, idee o conoscenza, i filosofi empiristi hanno spesso ammesso che nasciamo con certe predisposizioni innate alla conoscenza, con un potenziale specifico per l’esperienza, come la visione dei colori. Siamo già pronti per raggiungere particolari obiettivi epistemici, come l’acquisizione della lingua madre. Gli empiristi che accettano l’idea della predisposizioni innate a conoscere, possono risultare praticamente indistinguibili dai razionalisti, loro “avversari” storici. I razionalisti pongono l’accento sull’importanza della conoscenza innata e, più in generale, di tutte le verità che la ragione può scoprire indipendentemente dai sensi. Essi, però, spesso si fermano all’affermare che la cosiddetta conoscenza innata esiste solo a livello potenziale. Di Cartesio, ad esempio, è ben nota anche la sua insistenza circa le idee innate, ma chiarisce che trattasi, di tendenze specifiche, piuttosto che di contenuti preconfezionati. Cartesio, addirittura, paragona le idee innate alla gotta, malattia infiammatoria invalidante a carattere familiare: il bambino, alla nascita, non ha la malattia, ma solo la predisposizione ereditaria a svilupparla. Leibniz, altro grande tra i razionalisti, usa un’immagine più “poetica”: le idee innate sono come venature nel blocco di marmo d’uno scultore, le quali predispongono la pietra a produrre una certa statua piuttosto che un’altra. [b]Bella ;) [/b] Il razionalismo è tornato prepotentemente in auge proprio nel corrente secolo, o, per meglio dire, a cavallo tra il XX ed il XXI, conseguentemente alla formulazione, da parte di Noam Chomsky, della teoria della grammatica universale: vi è un meccanismo innato che alla nascita è in uno stadio iniziale, ma che, in effetti, è in grado d’esser programmato dall’esperienza in modo tale da acquisire la conoscenza della grammatica. L’esperienza, sostiene Chomsky da sola non è sufficiente a fornire una conoscenza grammaticale complessa, senza presupporre l’esistenza d’un dispositivo d’acquisizione linguistica, di cui il cervello del neonato è già biologicamente dotato. Il problema scientifico, semmai, è come descrivere correttamente tale dispositivo. Chomsky paragona il compito del bambino alle prese coll’apprendimento d’una lingua, al problema del giovane nel Menone di Platone. Come ho scritto prima, il ragazzo, all’oscuro della geometria, è comunque condotto, per mezzo di sole domande, alla dimostrazione d’un particolare teorema geometrico. Le domande, di per sé stesse, non contengono informazioni sufficienti alla dimostrazione del teorema, dunque, il ragazzo deve, giocoforza, aver apportato una conoscenza che possedeva anzitempo, inconsapevolmente. Questa conoscenza viene estratta da lui, non inserita in lui tramite l’insegnamento. Platone conclude – ripeto quanto precedentemente scritto – che il ragazzo deve aver avuto in sé questa conoscenza, acquisendola in un’esistenza precedente. “Il problema di Platone, dunque, è spiegare come facciamo a conoscere quel tanto dato che l’evidenza che ci è disponibile è così scarsa” (Noam Chomsky, 1986) Chomsky argomenta che, nel corso dell’acquisizione linguistica, il bambino non riceve nozioni di grammatica, ma è condotto, per mezzo dell’interazione con altri esseri umani, a manifestare la propria conosceza grammaticale di una lingua particolare. I bambini giungono a conoscere la grammatica della loro lingua nativa, non come fa un insegnante, il quale è in grado di spiegarla, ma dimostrando la loro conoscenza nella pratica di seguire determinate regole nella produzione e nell’interpretazione di frasi in quella lingua. Per Chomsky, l’input di esperienza di cui gode il bambino – l’insieme di tutte le frasi che ha avuto modo di ascoltare – è assai povero (proprio come lo sono le domande di Socrate), perlomeno in rapporto alla quantità di frasi che si dimostra in grado di riconoscere come grammaticalmente corrette o meno. [b]Quel meno mi lascia perplesso, anche se in questo caso possiede una qualche logica, a differenza di "non so se vengo o meno" :OIO [/b] Lo stimolo rappresentato dall’interazione sociale non riesce a spiegare la competenza linguistica ch’emerge. Un bambino che apprende l’inglese non ha già in sé la grammatica dell’inglese, ma deve avere una qualche capacità, o predisposizione innata, che, insieme, all’input (più o meno scarso) dell’esperienza, gli fornisce questa notevole competenza. Chomsky, in un certo senso, è concorde con Platone circa l’assunto che questa capacità innata – che definisce grammatica universale – sia acquisita in una vita precedente. Tuttavia, occorre specificare che Chomsky fa riferimento alla storia evolutiva dell’uomo, piuttosto che ad una qualche pre-esistenza dell’anima, od alla reincarnazione. [b]Ah, ecco, volevo ben dire :D [/b] La biologia ha dotato il cervello del bambino appena nato d’un dispositivo specializzato all’acquisizione di qualsiasi linguaggio umano, dati gli input appropriati. Lo studio della capacità umana di possedere un linguaggio diventa, così, lo studio della nostra dotazione genetica. “La grammatica universale può essere considerata una caratterizzazione della facoltà linguistica, geneticamente determinata. Si può pensare a questa facoltà come a un dispositivo di acquisizione linguistica, una componente innata della mente umana che produce una lingua particolare grazie all’interazione con l’esperienza che ci è data, un dispositivo che converte l’esperienza in un sistema di conoscenze acquisite: la conoscenza di questa o quella lingua” (Noam Chomsky, 1986) Chomsky ritiene che il dispositivo di acquisizione linguistica sia un organo del linguaggio all’interno del cervello. Coltiviamo una lingua, piuttosto che impararla. Il dispositivo è concepito come una macchina biologica con un numero finito di interruttori, fissati dall’esperienza linguistica alla quale siamo sottoposti. Premendo un interruttore, la macchina conosce la grammatica inglese, premendone un altro, conosce quella swahili o quella giapponese. Tutte le possibile lingue umane sono rappresentate nelle varie impostazioni di questi interruttori. L’ordine delle parole, inoltre, è importante per il significato. C’è una bella differenza se il cane morde l’uomo, o l’uomo morde il cane. Ma l’ordine superficiale delle parole non basta a determinare il significato; le parole devono anche ricoprire ruoli grammaticali ben definiti, e qusto si può fare in modi diversi, mantendendo inalterato l’ordine delle parole. Quale valido esempio, prendiamo in considerazione queste due frasi, che suonano simili: – Fino a dove verso l’acqua? – Vai dove ti pare, ma non verso il vino! Nella prima, “verso” è un verbo (prima persona singolare dell’indicativo presente di “versare”), mentre nella seconda è una preposizione. Ma questa è solo la lettura più naturale, più immediata, credo. “Verso” può essere anche letto come una preposizione nella prima frase, e come verbo nella seconda. Frasi di questo tipo vengono chiamate anfibolie: ciascuna, cioè, ha due significati. [b];) e grazie per avermi fatto leggere la teoria di Noam Chomsky, che finora conoscevo solo di nome: linguista ed anti-...) [b] [/b]


lemond - 04/12/2009 alle 15:49

Originariamente inviato da Abajia Quella che definiamo “percezione”, quindi, riveste un ruolo molto importante internamente alla conoscenza, oppure, per certi versi, preliminarmente. La percezione, infatti, differisce dalla sensazione in quanto, mentre quest’ultima si limita all’informazione sensoriale, la prima ne fornise un’interpretazione. È un’idea piuttosto influente, sia in filosofia che in psicologia, che nella perceziane siamo sempre e solo consapevoli dei contenuti della nostra mente. La cosapevolezza e, dunque, la conoscenza del mondo esterno, è indiretta, mediata dalle nostre rappresentazioni mentali. In prima istanza, le nostre percezioni, di fatto, vanno a formare il nostro mondo. Ci è preclusa la possibilità di vedere quello che c’è dietro una rappresentazione, ergo: la realtà esterna è sempre filtrata attraverso i sensi. Provate, ad esempio, a dilettarvi in quest’esperimento del tutto accessibile: prendete tre secchi, pieni d’acqua a diverse temperature: uno con acqua fredda, uno a temperatura ambiente e l’altro con acqua calda. Disponeteli in ordine davanti a voi, dopodiché immergete le mani nell’acqua: chessò, la mano destra nell’acqua fredda e la sinistra in quella calda. Attendete mezzo minuto, poi estraete le mani e inseritele nell’acqua a temperatura ambiente. Come percepite, ora, quell’acqua? Con la mano destra, fredda, dovreste sentire l’acqua piuttosto calda, e viceversa. Dunque: com’è l’acqua, calda o fredda? Questo enigma, se così vogliamo chiamarlo, si deve al celebre filosofo John Locke, ed è paragonabile a quell’altro famoso vecchio enigma dell’albero che cade nella foresta dove non v’è alcun orecchio che possa udirlo: farà rumore l’albero? La soluzione, in entrambi i casi, sta nel compiere una distinzione tanto plausibile quanto sorprendenti sono le sue conseguenze. I termini per le qualità percettive, come suono, caldo, freddo, sono ambigui. Se, per suono, s’intende una serie d’oscillazioni della pressioni locale dell’aria, allora non v’è dubbio che i suoni, in quanto onde, vengono emanati dall’albero che cade, pur se nessuno v’è a percepirli. Ma, se per suono intendiamo, invece, l’oggetto immediato delle nostre esperienze uditive, allora, nel caso dell’albero, non vi è alcun suono. Il suono fisico esiste anche senza la presenza d’un ascoltatore, ma niente può esser sentito senza qualcuno che ascolti. Non vi è suono soggettivo senza soggetto. Una cosa è sapere come suona una nota alta, ma un’altra è sapere che le note alte sono associate ad oscillazioni rapide della pressione dell’aria. I musicisti sono venuti prima dei fisici del suono. L’esperienza soggettiva degli alti e dei bassi può esser provocata da oscillazioni più o meno rapide, ma la realtà soggettiva, il suono, non è identica alla realtà misurabile. L’esperienza non è completamente spiegabile in termini fisici. Il filosofo irlandese George Berkeley arrivò a negare la realtà della materia e d’ogni cosa al di fuori della mente. Il suo celebre motto è “essere è esser percepito”: l’esistenza di qualcosa non è altro che il suo verificarsi all’interno d’una qualche mente. Berkeley, pertanto, considerava la gravitazione di Newton alla stregua d’una forza occulta: trattasi, dopotutto, di azione a distanza. Come può, la Terra, attrarre la Luna, o anche solo una mela senza toccarle? Si narra che Samuel Johnson, famoso lessicografo e spirito arguto, abbia dato un calcio ad una pietra per dimostrare la falsità dell’immaterialismo di Berkeley: “Lo confuto così!”. Naturalmente, Berkeley mai s’era sognato di dire che non fosse possibile dare un calcio ad una pietra. Avrebbe, invece, asserito che l’idea del piede, l’idea della pietra e quella di prenderla a calci, devono per forza esistere tutte in una stessa mente. Il calore, come s’è visto, è altrettanto ambiguo. Se, per calore, intendiamo energia cinetica media, o velocità molecolare media, allora esso esiste indipendentemente da qualcuno che lo percepisca. La velocità media delle molecole dell’acqua nel secchio a temperatura ambiente, sebbene venga alterata dall’immersione delle nostre mani, non è diversa a seconda delle mani. Se, invece, per calore s’intende l’esperienza di caldo intenso, allora il calore è diverso da mano a mano. In realtà, ovviamente, c’è una ragione fisica per questo fenomeno: i nervi implicati non stanno affatto registrando la temperatura dell’acqua, ma solo il cambiamento di temperatura delle mani stesse. Questo varia a seconda della mano, ma la temperatura di entrambe tende a fissarsi sulla base della temperatura dell’acqua del secchio. La vista, per certi aspetti, è soggetta ad un dualismo ancor più profondo. I colori non sono comparabili intersoggettivamente. Voi ed io possiamo facilmente esser concordi che questa banana e quell’ananas sono entrambi gialli, ma non possiamo determinare se le nostre esperienze del giallo sono simili. Potrà mai la fisiologia superare questa incommensurabilità? [b]Alle prossime puntate la risposta? Ciao, Abajia e :clap: [/b]


herbie - 13/12/2009 alle 12:48

[quote]Dire "nulla" in mezzo a tanto è comunque preferibile a dire "nulla" in mezzo a poco, no?[/quote] leggevo anch'io questo 3d filosofico e mi domandavo: ma perchè un argomento di discussione dedicato in un certo senso alla disciplica che vorrebbe condurre una indagine intorno alla verità deve chiamarsi "inutile"? Forse con il titolo del 3d si voleva in un certo senso fare eco all "otium" romano. In effetti secondo me il problema è proprio se si crede o meno che vi sia qualcosa da-pensare per l'uomo, qualche domanda la cui risposta possa risultare per lui decisiva oppure no. Altrimenti non c'è nulla da-pensare, ma un infinità di cose equi-valenti su cui riflettere, come per un "otium" appunto, un divertimento, una piacevole parentesi rispetto al fluire degli impegni "reali" della vita. In effetti affermare che nulla è a fondamento di ogni possibile discorso (nichilismo) non significa capovolgere la gerarchia dell'essere (e di conseguenza di ciò che ha valore), ma affermare, nella, per così dire, finale equivalenza di ogni asserzione, che, appunto, nulla reclama di per sè l'attenzione del pensiero, ma è l'uomo stesso che di volta in volta decide senza alcun vincolo fondamentale ciò su cui riflettere. Sarebbe la questione stessa della filosofia come indagine sulla natura della verità, o più propriamente, sulla natura dell'essere. Perchè a seconda dell'idea più o meno forte che si ha della natura di quella specie di spettro del pensiero che è l'essere, fino alla sua completa dissoluzione nell'indifferente, si può dire se vi sia qualcosa di primariamente necessario per la riflessione umana oppure no. Molto interessante che nella introduzione di questo 3d "inutile" venga toccato, forse (non ci giurerei che sia così accidentale come la faccina sorridente del sibillino Abajia vorrebbe far credere) accidentalmente, un argomento così fondamentale. Attendo sviluppi altrettanto fondamentali dell'esposizione dell'argomento.


lemond - 14/12/2009 alle 10:40

[quote][i]Originariamente inviato da herbie [/i] leggevo anch'io questo 3d filosofico e mi domandavo: ma perchè un argomento di discussione dedicato in un certo senso alla disciplica che vorrebbe condurre una indagine intorno alla verità deve chiamarsi "inutile"? [/quote] A me sembra ;) che si chiami (in)utile :cincin:


Abajia - 14/12/2009 alle 22:00

Tutto è leggitimo. Nulla è legittimo. È nello spazio che intercorre tra [i]Tutto[/i] e [i]Niente[/i] che s’inserisce il criterio di [i]giustizia[/i]. Criterio che – udite udite! – è, con tutta evidenza, in tutto e per tutto soggettivo. Tizio può essere favorevole ad una qualsivoglia cosa, e state pur certi che per quella stessa cosa c’è almeno un Caio che si dichiara, invece, contrario, così come il Sempronio di turno che sta un po’ di là, un po’ di qua ed il solito Pincopallo che annuncia fieramente il suo totale distacco dall’una e dall’altra parte. Poi arrivano Mevio, Filano e Calpurnio che si accodano a Caio. E questo cosa significa, che Caio ha [i]più ragione[/i] di Tizio, Sempronio e Pincopallo? Direte di no. E invece è sì. O meglio, non lo sarebbe, ma, se si da’ a guardare all’esperienza, tant’è. Vado per sommi capi, badando ad estremizzare subito il ragionamento. La Legge è (più o meno) chiara, l’omicidio è un reato civile e penale, oltreché comunemente esecrato a livello sociale. Ora, però, cerchiamo di elevarci ad un piano più strettamente acritico. Difficile? È costitutivo dell’uomo il lanciarsi in opinioni, più o meno articolate, che trapelano con una certa evidenza il sapore del soggettivo. Non si tratta d’imparzialità; o, perlomeno, non propriamente. L’essere imparziali presuppone una palesamento di giudizi che vengono spacciati per comuni, ma l’episteme del ragionamento che viene espresso è sempre intarsiato di un qual certo “utilitarismo”, di soggettività. Non si ragiona più. In senso generale, non lo si è mai fatto. Già solo il fatto che i così chiamati “pensatori” siano ricordati in saecula saeculorum, accentua e pone in evidenza un fattore fondante: coloro che hanno spremuto le meningi, sono (stati) l’eccezione. In mezzo all’alienata (da chi è stata precedentemente alienata e, di conseguenza, alienante per le “masse” future) massa di benpensanti, la forza di chi ha posto la ricerca dell’oggettività come punto di partenza è sì richiamata e, per certi versi, ammirata dai posteri, ma le eccezioni, in quanto tali, non sono motivo d’esultanza. Per questo, chi si erge a giudice imparziale ed incorrotto delle malefatte(?) altrui, altro non fa che muoversi lungo un solco già scavato, delineato, fattivizzato. Ora: chi è disposto a farsi mettere a giudizio sulla base di una soggettività originaria che l’abitudine ha fatto sì che venisse legittimata come modello oggettivo? E se io non accordassi il mio assenso a ciò che è stato fatto a monte, né tantomeno a chi ha dato successivamente adito e avvio al percorso che adesso tutti siamo praticamente [i]costretti[/i] a seguire? A chi cerca di rintuzzare il mio sproloquio, venendo a ricordarmi che “difronte alla Legge siamo tutti uguali”, rispondo che io sono l’asino che viene detto cornuto dal bue. Uguaglianza? Allora non ho forse lo stesso diritto che ha/hanno avuto [i]colui/coloro[/i] che ha/hanno “originato” il tutto? Dunque: se iniziassi a spacciare le mie idee come una summa d’incorruttibilità e giustizia, potrei decidere di seguire le mie “leggi”? Se no, allora si sta parlando di un’eguaglianza acquisita; ovverosia: è stato posto il calco sul quale forgiare le situazioni future, e da lì in poi c’è stata (in linea molto teorica) una linea comune, ma perché non posso avere, io come tutti, lo stesso diritto “originario”? Dunque, [i]nulla[/i] è verità assoluta, [i]tutto[/i] è verita soggettiva, e l’acriticità viene ad esistere soltanto come un qualcosa d’astruso, astratto, areale, irrealizzabile perché il contrario di un tale intento è connaturato alla persona(lità) umana. La si può soltanto dichiarare verbalmente, quell’acriticità assoluta, e magari riempircisi la bocca per imbellirsi e calamitare le attenzioni e i consensi altrui, ma nulla più. Per quanto gli sforzi possano essere addensati in quel senso, [i]mai[/i] si potrà a ragione parlar d’assolutezza, bensì di una relatività nella pratica imprescindibile, solo idealisticamente sormontabile. Detto ciò, torno all’inizio: Tutto è legittimo. Nulla è legittimo. La legittimità è data, dunque, da ciò che è così etichettato a livello etico, morale, civile e giurisdizionale? In senso stretto, sì; in senso lato, no. Poi oh, magari sono io il primo a considerare l’utilità di una “linea guida” atta ad evitare la completa anarchia, ma qui s’inserisce un apice del discorso: fondamentalmente, “siamo quello che [i]meritiamo[/i] di essere. Significa che, chessò, se il mondo è così, ciò che è [i]giusto[/i] è che è [i]giusto[/i] che sia così. Sembra una banalità. Una tronfia frase ad effetto che sa tanto di vuoto sofismo. Non lo è. Spiego. Nel mondo agiscono liberamente miliardi di persone. Liberamente, sì. Direte (fra i tanti appunti che vi verrebbe di muovermi): e che mi dici dello schiavismo a tutt’oggi esistente? Appunto, lo schiavismo è libertà. È libertà, da parte di chi schiavizza, a schiavizzare coloro che, di conseguenza, sono schiavizzati. Agli schiavizzati è negata forse la possibilità di ribellione alla loro condizione? No, né nella teoria, né nella pratica. Se nella pratica, poi, colui che schiavizza trova il modo di sopprimere il moto di rivolta, difende egli stesso la propria posizione. Anch’egli si muove all’interno dell’assoluta libertà. È libero lui di schiavizzare tanto quanto gli schiavizzati di contrastare il loro disagio, o anche di rimanere più o meno passivi nella loro condizione di svantaggio. Libertà anche quella. È libera Wanna Marchi di fare quello che ha fatto così come coloro che si sono sentiti raggirati sono stati liberi delle loro azioni. E, ovviamente, con altrettanta libertà è stato legalmente deciso di punire penalmente la Marchi. Anche questa, alla fin fine, è anarchia. Chi applica la Legge è libero di farlo; chi accetta la propria condanna lo fa, a tutti gli effetti, liberamente. Si potrebbe notare una sorta di contraddizione tra la parte del mio ragionamento che attacca il criterio di [i]giustizia[/i] applicata a livello penale, e quella che si fonda sulla diffusa libertà, estesa dunque anche alla Legge stessa, libera di vincolare le azioni dell’uomo, me compreso. In realtà, io stesso mi dichiaro libero di esser “schiavizzato” e limitato dalla Legge. Se vogliamo semplificare il discorso, la prima parte è caratterizzata dal pensiero del singolo (che, in questo caso, sono io, ma potrebbe benissimo essere quello di Gino da Verona), mentre nella seconda si procede per estensione, allargando il processo razionale secondo una visione globalizzata, dove io e Gino da Verona possiamo pensarla in un modo e Tizio e Caio all’opposto, e se poi arrivano Sempronio e Gilberto da Foggia che fanno tutti fessi e fanno in modo che sia il loro pensiero quello ritenuto comunemente valido, tanto da essere applicato alla pratica, amen. In fin dei conti, "siamo quello che vogliamo essere". Predico bene e razzolo male? Libero di farlo, no? :D


Abajia - 14/12/2009 alle 22:15

[quote][i]Originariamente inviato da herbie [/i] leggevo anch'io questo 3d filosofico e mi domandavo: ma perchè un argomento di discussione dedicato in un certo senso alla disciplica che vorrebbe condurre una indagine intorno alla verità deve chiamarsi "inutile"?[/quote] Ti ha risposto Carlo. ;) C'è chi preferisce soffermarsi sull'"utilità", chi sull'"inutilità". Come dire: "De gustibus ... ". [quote]In effetti affermare che nulla è a fondamento di ogni possibile discorso (nichilismo) non significa capovolgere la gerarchia dell'essere (e di conseguenza di ciò che ha valore), ma affermare, nella, per così dire, finale equivalenza di ogni asserzione, che, appunto, nulla reclama di per sè l'attenzione del pensiero, ma è l'uomo stesso che di volta in volta decide senza alcun vincolo fondamentale ciò su cui riflettere.[/quote] :clap: [quote]Molto interessante che nella introduzione di questo 3d "inutile" venga toccato, forse (non ci giurerei che sia così accidentale come la faccina sorridente del sibillino Abajia vorrebbe far credere) accidentalmente, un argomento così fondamentale. Attendo sviluppi altrettanto fondamentali dell'esposizione dell'argomento.[/quote] Sono tornato ad intervenire su questo thread (e sul forum in generale) senza aver preliminarmente letto gli (eventuali) sviluppi del topic, quindi mi accorgo solo ora di questo tuo post. Non so, magari indirettamente ti ho risposto. ;)


Abajia - 14/12/2009 alle 22:19

(nel ringraziarti di nuovo, Carlo, torno a prometterti che avrai risposta a tutti gli spunti interessanti che stai animando nella mia testolina matta :D ) ;)


lemond - 15/12/2009 alle 08:45

[quote][i]Originariamente inviato da Abajia [/i] Tutto è leggitimo. Nulla è legittimo. È nello spazio che intercorre tra [i]Tutto[/i] e [i]Niente[/i] che s’inserisce il criterio di [i]giustizia[/i]. ... Predico bene e razzolo male? Libero di farlo, no? :D [/quote] In questo spazio, volutamente di qualcosa mancante cerco di inserirmi, aiutato da un amico "Filosofo ignorante". Se ci fosse un uomo un po' più cosciente e un po' più forte nel guardare sorridente l'oscura realtà della legge presente. Forte di una giustizia senza nome, se non quella di umana elevazione, forte come una vita che è in attesa di una rinascita improvvisa. Se ci fosse un uomo, forte nell'odiare l'arroganza di chi agisce solo con la forza e capace di custodire con impegno la parte più viva del sogno di coloro che sentono di una giustizia *vera* il bisogno. Questo nostro mondo, al di là delle eccezioni del pensiero, è avido e incapace, sempre in corsa e sempre più infelice, popolato da una smania vuota che sarebbe la nostra vita diretta da chi ha il potere, che diventa ogni giorno più volgare e in ogni telegiornale ad es. si pubblicizza (specialmente in questo mese) l'assurdo mito del creatore. Se ci fossse quest'uomo, forse non penseremmo nemmeno più, alla, purtroppo, leggitima libertà della schiavitù :Od:


Abajia - 15/12/2009 alle 12:37

No, Carlo. Non è quello che ho scritto, ma del resto è quasi inevitabile che si venga fraintesi quando si procede per concetti volutamente estremizzati. Sia ben chiaro, lungi da me "legittimare" la schiavitù. Ma io - come te, come tutti, presi uno per uno - sono un singolo, ho le mie idee, ed è pacifico che nel mondo vengano a dover per forza di cose coesistere le opinioni e le azioni di miliardi di singolarità, ed è da questo popò di calderone che vien fuori quella che è la realtà delle cose: io sono libero di dichiararmi contrario alla schiavitù, tu altrettanto, egli altrettanto, ma se poi lo schiavismo è, a tutti gli effetti, a tutt'oggi diffuso, evidentemente ci sono tante altre singolarità che agiscono altrettanto liberamente e fanno sì che le loro idee vengano portate avanti. Per noi sono modi di pensare e di agire meritevoli d'ogni biasimo e spregio, ma tant'è. Ci sono strade in cui, posta una macchina a folle, si nota come il mezzo proceda in salita. Ecco, prendendo quest'esempio, noi magari vorremmo che la macchina procedesse "secondo logica", ma vi è una forza contraria, che agisce altrettanto liberamente, che è capace di opporsi con più efficacia alle nostre idee/azioni, sulle quali viene ad avere il sopravvento.


lemond - 15/12/2009 alle 16:30

[quote][i]Originariamente inviato da Abajia [/i] Sia ben chiaro, lungi da me "legittimare" la schiavitù. [b]Ma infatti io mica ticevo che tu, ma siccome ancora in qualche stato la schiavitù esiste per legge, è evidentemente, ma sarebbe meglio dire tautologicamente, legittima ;) [/b] Ma io - come te, come tutti, presi uno per uno - sono un singolo, ho le mie idee, ed è pacifico che nel mondo vengano a dover per forza di cose coesistere le opinioni e le azioni di miliardi di singolarità, ed è da questo popò di calderone che vien fuori quella che è la realtà delle cose: io sono libero di dichiararmi contrario alla schiavitù, tu altrettanto, egli altrettanto, ma se poi lo schiavismo è, a tutti gli effetti, a tutt'oggi diffuso, evidentemente ci sono tante altre singolarità che agiscono altrettanto liberamente e fanno sì che le loro idee vengano portate avanti. Per noi sono modi di pensare e di agire meritevoli d'ogni biasimo e spregio, ma tant'è. [b]E ancora infatti, io mi rifacevo all'idea di un uomo nuovo il quale non potesse neppure pensare ad un'ipotesi simile, utopia pura ;), ma non vedo disaccordo, né fraintendimento fra noi (poi ci sta che non abbia proprio capito, ma allora il discorso è ... [/b] [/quote][b] [/b]


herbie - 18/12/2009 alle 17:03

il fatto non è che la schiavitù è liberamente accettata dallo schiavo, ma che è forzatamente imposta allo schiavo. Di per sè la schiavitù fa leva sulla forza dell'assoggettamento, altrimenti non sarebbe appunto schiavitù, ma accordo fra le parti...io ti servo, perchè mi piace, perchè ci guadagno, perchè evito qualcos'altro...


elisamorbidona - 29/01/2010 alle 15:19

è per dire, caro Abajia, che personalmente sto aspettando una continuazione (mi andrebbe bene anche in piccole dosi, tipo 10 righe alla settimana...), e forse anche qualcun altro...non vorrei che poi si pensasse ad una iniziativa elettorale...:D tanto per stimolarti provo ad azzardare alcune questioni: il tuo testo mi sembrava che stesse conducendo ad alcune considerazioni di carattere critico-scettico innestate sui concetti cardine della crisi delle scienze (per non parlare dei sistemi filosofici razionali). Forse ci stai lentamente conducendo sui sentieri del teorema di Godel, o ti appresti ad affrontare una critica radicale delle condizioni di possibilità del pensiero razionale e di una stessa conoscenza condivisibile e fondata? Ti avverto che lo stesso Kant entro nella foresta della filosofia attraverso lo stesso sentiero... ammesso e non concesso che ti trovi dibattuto fra questi pensieri ti ripropongo una vexata quaestio della filosofia del '900: postulando il fallimento dei sistemi filosofici tradizionali riguardo ad una etica possibile per non parlare di una metafisica e di una logica razionali, come si spiega che il pensiero umano abbia potuto incamminarvisi fin dall'epoca della grecia classica? Esiste invece la possibilità di un ritorno alle origini del pensiero per imboccare un'altra strada forse obliata dalla filosofia tradizionale, ma urgente oggi più che mai vista la crisi dei sistemi razionalmente fondati? In altre parole: esiste una via di accesso linguistico, comunicabile, dialettico, all'essere, oppure ogni tentativo di accedere all'essenza di quello zoccolo duro di realtà di cui l'uomo fa in ogni momento esperienza e su cui, al di qua del pensiero e della perola, poggia per ogni più semplice azione della sua vita, oppure tale "ritorno all'essere" è uno sprofondare vano in un abisso senza fondo? Perchè ci si può ben incontrare per discutere dell' incoerenza intrinseca di qualsivoglia sistema logico e metafisico come conseguenza, ma il tavolo su cui poggiamo i nostri boccali di birra, di quello non dubitiamo nemmeno per un istante che abbia una consistenza e faccia da solido supporto per le nostre cose... su che cosa si fonda questa sicurezza delle cose del mondo di cui facciamo uso in ogni momento?

 

[Modificato il 29/01/2010 alle 15:29 by elisamorbidona]


lemond - 31/01/2010 alle 09:56

[quote][i]Originariamente inviato da elisamorbidona [/i] Perchè ci si può ben incontrare per discutere dell' incoerenza intrinseca di qualsivoglia sistema logico e metafisico come conseguenza, ma il tavolo su cui poggiamo i nostri boccali di birra, di quello non dubitiamo nemmeno per un istante che abbia una consistenza e faccia da solido supporto per le nostre cose... su che cosa si fonda questa sicurezza delle cose del mondo di cui facciamo uso in ogni momento? [/quote] Direi che è il modello del mondo che tutti abbiamo nel cervello (in parte geneticamente determinato, in parte ricavato dall'esperienza) il luogo in cui le "cose" diventano tali e cessano di essere. Il modello si è dimostrato funzionante, ed efficace per la sopravvivenza e la riproduzione. E’ il mondo intermedio di cui parla Richard Dawkins "L'illusione di dio" quello che i nostri sensi ci permettono di percepire, ciò che è sufficiente a sopravvivere come specie in questa realtà. Dobbiamo sapere che il nostro corpo si è evoluto all'interno della natura, siamo legati all'ambiente, e per quello adatti. Percepiamo la realtà solo come possiamo e ciò ci fa sembrare che il mondo sia soltanto così: però con l'ausilio di strumenti scientifici abbiamo scoperto forze che il nostro corpo non percepisce a differenza di altri animali. Quando si dice che la materia è fatta principalmente di vuoto ci sembra un'assurdità, ma le distanze vuote tra il nucleo e gli elettroni di ogni atomo dimostrano che è così (in proporzione, se il nucleo atomico fosse grande quanto una mela, gli elettroni gli ruoterebbero attorno ad una distanza pari a circa un chilometro. :D L'impenetrabilità dei corpi solidi ci sembra normale, così come, invece, penetrare nell'acqua, mentre per una idrometra è normale che la coesione superficiale delle molecole gli permetta di viverci sopra tutta la vita: quella è la sua realtà. Siamo semplicemente adatti, e non per nostra volontà, a questa determinata situazione materiale e temporale, e di conseguenza, avendo la capacità di elaborare un pensiero, ne abbiamo un corrispettivo modello mentale.


elisamorbidona - 02/02/2010 alle 08:22

grazie della risposta, lemond, in attesa di Abajia provo a continuare il dialogo. Quello che tu chiami "modello del mondo", in cui giustamente percepisci quel fenomeno dei "reificazione" dell'esperienza, quello sguardo immediatamente "tecnico" sul mondo che identifica le cose nella loro utilità ed "utilizzabilità", Kant lo chiamava "forme a priori dell'esperienza, dell'intelletto e della ragione". Strutture della conoscenza comuni a tutti (e quindi su cui ragionevolmente poggiare per giustificare l'universalità delle conoscenze attraverso di esse raggiunte) attraverso cui è formata ed immagazzinata una immagine del mondo. Questo modello del mondo tu lo concepisci, sulla scorta di una tradizione scientifico- naturalistica immagino, come formatosi attraverso una specie di processo evolutivo di adattamento, mentre il filosofo tedesco non si sbilaciava in quella direzione, ma riguardo alla "apriorità" delle sue strutture conoscitive cercava giustificazioni diverse. Entrambe le posizioni però lasciano aperto il problema dell' origine della realtà, se ci sia e cosa sia quello di cui ci facciamo una immagine, percepito attraverso le nostre strutture conoscitive, diverse da quelle dell'idrometra, ma che pure viene percepito dall'idrometra attraverso le sue strutture. In fondo in effetti forse non può interessare molto, visto che con il modo con cui percepiamo ed utilizziamo le cose del mondo stiamo, appunto, al mondo in maniera più che efficace. Però si può considerare il problema anche in un altro modo: queste strutture sensoriali-razionali formatesi con l'evoluzione non ci faranno perdere qualcosa dell'essere reale a cui come uomini potremmo accedere, ma che è soltanto obliato in quanto penalizzato da una evoluzione avvenuta in ambiente particolare, sfavorevole? Come un senso senso magari non sviluppato a causa dell'evoluzione di cui però l'uomo in potenza è portatore? E questo sesto senso dell'essere non può essere forse ri-attivato provando per così dire ad "anticipare" le strutture della razionalità? Lontano da me il voler richiamare un animistico irrazionalismo, ma a mio parere quella che gli artisti chiamano "ispirazione" si avvicina molto a questo sesto senso per e dell'essere. In realtà mi pare che si tratti di un modo di percepire la realtà che il poeta (o il musicista o il pittore....) poi riesce a dire meglio in una modalità più efficace e più diretta di un discorso logicamente connesso e SOPRATTUTTO in un modo che raggiunge immediatamente il fruitore... l'angoscia fulminea e mortale di una terribile sciagura che in attimo fa sparire un mondo non è "descritta" in alcun modo, ma ugualmente raggiunge con la forza di una percezione assolutamente realistica l'osservatore dell'"urlo" di Munch, un osservatore che abbia vissuto qualcosa di simile naturalmente... esiste allora allora un modo per "aggirare" o "anticipare" le strutture della conoscenza e della razionalità, o questo significa avviarsi su una via di perdizione? In fondo è ciò che le religioni tentano di fare con la "scusa" di Dio, che sarebbe poi quella "visione faccia e faccia", beatifica, cui le religioni aspirano? Il discorso che stava intavolando Abajia portando alla messa in discussione dei fondamenti della logica tradizionale, condotta nel secolo scorso da eminenti matematici e logici, in un certo senso rimette in quesione proprio questa idea di un essere pre-logico di cui si è smarrita la via, e mi interessava capire in che porto sarebbe andato a parare il nostro filosofo abruzzese.


lemond - 02/02/2010 alle 09:56

[quote][i]Originariamente inviato da elisamorbidona [/i] Il discorso che stava intavolando Abajia portando alla messa in discussione dei fondamenti della logica tradizionale, condotta nel secolo scorso da eminenti matematici e logici, in un certo senso rimette in quesione proprio questa idea di un essere pre-logico di cui si è smarrita la via, e mi interessava capire in che porto sarebbe andato a parare il nostro filosofo abruzzese. [/quote] Per questo, devi aspettare il nostro amico "filosofo abruzzese", io sono per il mondo che c'è e considero l'ipotesi dio (su suggerimento di Vallauri) come "vuoto" (a perdere :) ) e così pure per un eventuale "sesto senso". Ad es. in un film quello che apprezzo è la sceneggiatura, mentre per me (sempre ad es. Fellini non esiste).


lemond - 28/02/2010 alle 10:39

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" Introduzione (I) [/b] Questo corso è nato dalla convinzione che tuttora (1971) troppo spesso il giurista, nel fare giurisprudenza, non sa quel che fa. :mad: La scelta della facoltà di "Legge" avviene ancora in troppi casi, sulla base di motivazioni che possono ricondursi a 1) Non so quel che voglio, quindi scelgo questa facoltà, che non so che sia :) 2) E' il grande "X" che apre molte porte, ma soprattutto possibilità di varie carriere :) Fin dal momento della scelta, il giurista è colui che non sa (in senso forte) quello che fa, conosce soltanto dove arriverà: a quel grado, a quel trattamento economico e di quiescenza. Le eccezioni ci sono, ma sufficientemente eccezionali per confermare la regola. In 17 anni di studio giuridico, rammento una sola persona che alla domanda: "Cosa stiamo a fare qui?" abbia risposto. "Perché ci sia più giustizia nel mondo." Il diritto però dovrebbe essere scienza, ma quale? In che senso è tale e non arbitrio o "sofistica" a scopo di lucro (magistrati-giudici-studiosi-avvocati)? Vite umane subiscono interventi anche drastici, anche irreparabili, sulla base di metodi lagamente inesplorati-incontrollati che, quanto più si pretendono rigorosi e attendibili, tanto meno si piegano a dare le prove del loro rigore e della loro attendibilità. Ed invece, secondo me, per il giurista dovrebbero proprio valere le parole di Brecht: [b]Voi dunque abbiate cura che lasciando il mondo non solo foste buoni, ma lasciate un mondo buono. :cincin: [/b]


Abajia - 01/03/2010 alle 05:29

Elisa Cara, non è mia intenzione spiattellare a mo' di dogmatica argomentazione l'annosa questione che ho voluto spolverare con questo thread e che, a quanto pare, con sincero interesse ti ha toccato; dunque non parlerei di una volontà aprioristica di condurre il discorso verso lidi prestabiliti, quanto piuttosto dell'intento di organizzare il discorso intorno ad una quantità indefinita di argomenti che, mano a mano, potrebbero dissolvere qualche nube di dubbio, o perlomeno dar l'illusione di poterlo fare. Sì, parlo di "illusione" proprio in considerazione del non voler dare per assodato il minimo appiglio razionale, vien da sé che mai si arriverà al punto di poter assolutizzare un'asserzione. Del resto, se, su 1000 persone, 999 dicono che è giusto fare X, mentre una ritiene appropriato fare Y, non è la (stragrande) maggioranza a legittimare X a discapito di Y, e il discorso resterebbe valido pur con la totale uniformità di pensiero/azione, perché resterebbe da considerare, in ogni caso, quello che Kierkegaard era solito definire l'infinito ventaglio di possibilità che presuppongono una determinata situazione e che, quindi, implica infinite conseguenze. Lo stesso Kierkegaard, per questo, si diceva "bloccato" ed inevitabilmente angosciato da cotanta impredicibilità; a me, per "aggirare l'ostacolo", piace dire che hanno ragione coloro i quali riescono a persuadere gli altri d'aver ragione. D'altronde, l'elemento persuasivo è insito nella parola stessa, quindi, in ciò, la mia intenzione non è granché differente da quella che viene espressa ogni volta che si esprime un'opinione in merito ad una qualsivoglia tematica; in linguistica, si parla di funzione conativa, laddove si realizza, secondo le modalità più varie, la volontà di comando od esortazione rivolte, da parte del parlante, all'ascoltatore, che è chiamato a modificare il proprio [i]comportamento[/i] proprio in relazione al messaggio espresso. Non è, quindi, per arroganza che, al momento, escludo l'attendibilità di possibili ingerenze esterne, pur "nobili" come quelle da te citate - Godel, ad esempio -, bensì è una stretta conseguenza di un'argomentazione che vuole essere quanto di meno "inquinato" - dalla tradizione, dall'abitudine, dalla permanenza, nel corso del tempo, della trasmissione delle comuni credenze, dal passato in generale - possa esser concepito dalle menti di chi vorrà intervenire in proposito. Tuttavia, avrai modo di verificare come mi riuscirà difficile, in taluni casi, prescindere dal prezioso lascito delle grandi menti del passato, se non altro per rendere il discorso più accessibile e comprensibile. Poco sopra, Elisa, scrivi della questione della "possibilità di un ritorno alle origini del pensiero per imboccare un'altra strada forse obliata dalla filosofia tradizionale", e se esista "una via di accesso linguistico, comunicabile, dialettico, all'essere". Beh, per certi versi è la Storia (con la S maiuscola) e la sua evoluzione a dimostrare l'inadeguatezza dell'accezione di "impossibilità", e personalmente ritengo del tutto aleatorio il limite che separa la realtà possibile da quella che, per convenzione, definisco irrealtà impossibile, ma comunque, se può esserci un fondamento particolare che ha segnato il corso del tempo tanto da poter esser considerato il comune denominatore d'ogni tappa evolutiva dell'uomo e che, ora come già in passato, è fortemente condizionante la realtà umana, è quella concezione di Dio - con la maiuscola, perché prendo in considerazione il comune pensiero - intorno alla quale mi piace argomentare partendo dalla filosofia di Feuerbach, fondatore dell'ateismo filosofico ottocentesco: Dio come proiezione dell'uomo. Non è Dio (l'astratto) ad aver creato l'uomo (il concreto), ma l'uomo ad aver creato Dio; infatti Dio, secondo Feuerbach, è nient'altro che la proiezione illusoria o l'oggettivazione fantastica di qualità umane, in particolare di quelle [i]perfezioni[/i] caratteristiche della nostra specie. In altri termini, il divino è nient'altro che l'umano in generale, proiettato in un mitico aldilà e adorato come tale; in concreto, l'idea di Dio, nell'uomo, [i]nasce[/i] dal fatto che l'uomo, a differenza dell'animale, ha coscienza di sé stesso non solo come individuo, ma anche come specie. Ora, mentre come individuo si sente debole e limitato, come specie si sente, invece, infinito ed onnipotente: da ciò, la figura di Dio, il quale è, come detto, la personificazione immaginaria delle qualità della specie. Altre volte, è il sentimento di [i]dipendenza[/i] da Dio, che l'uomo prova al cospetto della natura, che ha spinto quest'ultimo ad avere atteggiamenti adorativi verso quelle cose senza le quali egli non potrebbe esistere: la luce, l'aria, l'acqua, la terra. Secondo il filosofo tedesco, dunque, la religione costituisce una forma di [i]alienazione[/i], intendendo con ciò quello stato patologico per cui l'uomo, "scindendosi", proietta fuori di sé una Potenza superiore alla quale [i]si sottomette[/i]. Il fattore veramente significativo della filosofia feuerbachiana sta nell'assunto che, se la religione è il frutto di un'"oggettivazione" alienata ed alienante, in virtù della quale l'uomo tanto più [i]pone[/i] in Dio quanto più [i]toglie[/i] a sé stesso, l'ateismo si configura non solo come un atto di onestà filosofica, ma anche come un vero e proprio [i]dovere morale[/i]. Tuttavia, non considero opportuno addentrarsi l'ambito religioso prescindendo da quella che è la Storia dell'umanità, perché l'argomentazione filosofica rischierebbe, altrimenti, di scadere in un vuoto esercizio retorico. E qui, meglio di me (che pure penso d'avere idee piuttosto chiare in proposito), senz'altro il sapiente Carlo_lemond saprà approfondire l'argomento. Ora, non volendo affermare, per quanto mi riguarda, l'assolutizzazione ateistica proclamata da Feuerbach, torno alla tua domanda, Elisa, rispondendo che, fin quando ci saranno persone che renderanno omaggio ad un qualche Dio e che crederanno d'esser convinte di pensare con la propria testa, fin quando ci saranno genitori che faranno battezzare i propri figliuoli e fin quando quegli stessi figliuoli, poi, una volta cresciuti, pasciuti e genitori a loro volta, continueranno a rinnovare la catena viziosa, fin quando chiese, sinagoghe, moschee, templi e via dicendo richiameranno il culto religioso e non il solo interesse storico-artistico, fin quando ci sarà gente (e, stavolta, il termine "massificante" è puramente non casuale) che si pronuncerà in merito a calamità naturali etichettandole come punizioni divine, fin quando ci sarà qualcuno che cercherà la benedizione delle proprie azioni con un eloquente "se Dio vuole", fin quando tutto questo resterà immutato nella sua alienante azione di condizionamento, non ci sarà possibilità di rinnovare il pensiero filosofico estendendolo alla vita comune; resterà, per l'appunto, "mera filosofia", guardata con distacco, da taluni con diffidenza e sospetto. Ma a me interessa relativamente, sai? Tenetevi pure il vostro Dio, o voi che siete tanto convinti che la vostra vita e quella di tutti gli altri ([i]credenti[/i] e, forse, non solo) sia vincolata ad un [i]qualcosa[/i] di questo genere. Io, per non sapere né leggere né scrivere, mi limito a guardare con biasimo Gerry Scotti tutte le volte che annuncia il suo commiato al pubblico di "Chi vuol essere milionario?" con un "E che Dio vi benedica!". Quanto a quello che tu chiami "problema dell'origine della realtà, se ci sia e cosa sia quello di cui ci facciamo una immagine, percepito attraverso le nostre strutture conoscitive", ti rimando, invitandoti ad un valido esercizio di "relativizzazione", alla concezione schopenaueriana di "velo di Maya", secondo cui il fenomeno viene percepito dal soggetto come fosse "filtrato": il fenomeno, dunque, tende ad essere una rappresentazione soggettiva, una variabile che è "costantemente variabile" e che, per questo, pare destinata a rimanere tale, perché l'eventualità di un fenomeno colto secondo la sua oggettiva ed effettiva realizzazione è ipotizzabile solamente in teoria, prescindendo dall'esperibilità. Detto ciò, nella speranza d'aver alimentato almeno minimamente il tuo interesse e quello di quanti altri fossero interessati, nonché d'aver suscitato una certa qual voglia di replica, ti porgo il mio saluto, Elisa, così come a Carlo, al quale rinnovo la promessa che tornerò a leggere le sue risposte al mio lungo post d'apertura, rispondendo a mia volta. Ciao!


lemond - 01/03/2010 alle 07:54

[quote][i]Originariamente inviato da Abajia [/i] E qui, meglio di me (che pure penso d'avere idee piuttosto chiare in proposito), senz'altro il sapiente Carlo_lemond saprà approfondire l'argomento. [/quote] Caro Andrea, l'argomento non da me, ma da Luigi Lombardi Vallauri è stato approfondito con quello che, per me, è il più grande libro scritto in Italiano sul tema: "Nera Luce".


Abajia - 01/03/2010 alle 13:14

Ed io, infatti, a proposito di "Nera Luce", ho salvati sul pc tutti i messaggi di posta che con puntualità mi invii. ;)


lemond - 01/03/2010 alle 13:44

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" Introduzione (II) [/b] Nel dare la dimostrazione della nostra tesi fondamentale (la scienza giuridica come vocazione umana e politica nel senso pieno del termine) mi è diventato chiaro che essa esigeva di raggruppare intorno a sé quasi tutti gli argomenti di indagine appartenenti alla filosofia del diritto. La tesi fondamentale è che l'attività del giurista, data l'inevitabile incompletezza del diritto positivo, è attuazione-integrazione *critica* del diritto stesso, ossia *politica del diritto*, cioè la problematica filosofico-giuridica. Si accetta anzitutto, in via provvisoria, l'ipotesi legalistica, secondo cui il diritto si riduce alla legge, ma ci vuol poco a capire l'inevitabile lacunosità-indeterminatezza della legge e l'inesistenza di metodi integrativi rigorosamente logici. Ed allora al giurista non resta che riconoscere che la legge, anche la più logica non basta, e che ci sarò sempre da fare una scelta politica.


lemond - 02/03/2010 alle 14:06

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" Introduzione (III) [/b] Passando ad un secondo cerchio, di raggio maggiore, si sottopone a verifica il postulato legalista, ci si chiede cioè quale sia il diritto statale realmente vigente e se esso sia completo. Per rispondere, occorre prima stabilire che cosa sia il diritto e di quale diritto si parla e cos'è il diritto positivo o vigente. Secondo le teorie prevalenti si riconosce il primato dell'effettività e così nell'ambito del diritto non formale, ma effettivo, si individuano i grandi nuclei del diritto consuetudinario, di quello giurisdizionale e della dottrina. Ma anche in questo secondo caso (più largo), si arriva alla conclusione logica che il giurista si trova di fronte a scelte *politiche*. Il diritto positivo, da solo, non è esaustivo. ;)


elisamorbidona - 03/03/2010 alle 08:46

che Dio esista nella mente degli uomini, non si discute. Che ciò non dimostri assolutamente nulla riguardo alla sua esistenza reale e soprattutto alla modalità di questa sua eventuale esistenza reale è altrettanto fuori discussione. Tanto più che se davvero fosse interessato alla vita di ciascun uomo, dovrebbe trovare da sè, con tutte le sue inesauribili forze, il modo di incontrarlo e farsi riconoscere; in particolar modo il Dio cristiano che da sè, senza l'uomo, non potrebbe proprio sussistere visto che, teologicamente parlando, è uomo. Tuttavia, il fatto che si possa dire che a Dio siano state attribuite tutte le perfezioni umane, e la sua idea in questo senso sia pressochè da sempre una "creazione" dell'uomo, usata molto spesso per fondare dei regimi di oppressione e sfruttamento, non dimostra tanto meno alcunchè riguardo alla sua esistenza o non-esistenza nella realtà. Il cuore della questione è a mio parere proprio il fatto che questo problema si trova al di qua della ragione e della parola, non al di là. Non nel senso che non se ne possa parlare con parole e frasi di senso compiuto, ma nel senso che per tentare una qualche affermazione positiva o negativa bisognerebbe affondare l'ancora non nei principi logici e razionali che teniamo come evidenti, ma sulla natura stessa dell'evidenza di quei principi. Tanto più dopo la crisi abissale che ha colpito le scienze razionali nel secolo scorso, dalla dimostrazione dell'incompletezza ed incoerenza di qualsivoglia sistema di proposizioni formulato secondo le regole della logica classica, alle evidenze sempre più anarchiche rispetto al principio di non-contraddizione che vengono alla luce nella fisica delle particelle. Quando cominciarono ad emergere dei dati sperimentali contraddittori riguardo ai teoremi della fisica classica, per lungo tempo si cercarono teorie sempre più complesse per giustificare e re-incorporare le contraddizioni (Kuhn in questo secondo me ha pienamente ragione), esattamente come i complessi sistemi di moto retrogrado dei corpi celesti e parallassi varie per "tenere insieme" la vecchia teoria planetaria; ma bastava rimettere il Sole al centro del sistema al posto della Terra e tutte le complicazioni sarebbero sparite d'un colpo...così come bastava rinunciare alla concezione classica del tempo e dello spazio assoluti, mettendo al loro posto la velocità della luce, che le varie incongruenze derivanti dagli esprimenti elettromagnetici e ottici si sciogliessero come d'incanto.... ora, non potrebbe darsi che sia il caso di effettuare una tale rivoluzione copernicana in ambito filosofico e teologico, nel senso che si dovrebbe ritrovare un senso, un modo di esperire l'essere (la realtà delle cose del mondo su cui di per sè non possiamo avere dubbi) e Dio (la realtà di ciò che di per sè non è del mondo e su cui di per sè non si possono avere certezze), se c'è, che non passi attraverso il procedimento dimostrativo ed esplicativo. Quello, in sostanza, che fa l'arte, la quale non aspira certo ad alcunchè di fantastico o irreale, ma tenta, nella maniera maniera più diretta possibile, richiamandosi in parte al vissuto emozionale, in parte all'evocazione delle esperienza fondamentali dell'essere al mondo, comuni a tutti gli uomini, di restituire l'esperienza della realtà. Carlo-lemond diceva che a lui di un film interessa solo la sceneggiatura...ma allora perchè fare un film piuttosto che scrivere un libro o dipingere un quadro? Non sarà perchè l'immagine o la poesia dicono qualcosa che la prosa non riesce a dire, qualcosa in più, ed è in questo a volte vertiginoso arrivare al cuore della realtà che risiede l'esperienza liberante, aprente, della bellezza?

 

[Modificato il 03/03/2010 alle 09:01 by elisamorbidona]


lemond - 03/03/2010 alle 09:08

[quote][i]Originariamente inviato da elisamorbidona [/i] ... e Dio (la realtà di ciò che di per sè non è del mondo e su cui di per sè non si possono avere certezze), se c'è, che non passi attraverso il procedimento dimostrativo ed esplicativo. Quello, in sostanza, che fa l'arte, la quale non aspira certo ad alcunchè di fantastico o irreale, ma tenta, nella maniera maniera più diretta possibile, richiamandosi in parte al vissuto emozionale, in parte all'evocazione delle esperienza fondamentali dell'essere al mondo, comuni a tutti gli uomini, di restituire l'esperienza della realtà. Carlo-lemond diceva che a lui di un film interessa solo la sceneggiatura...ma allora perchè fare un film piuttosto che scrivere un libro o dipingere un quadro? Non sarà perchè l'immagine o la poesia dicono qualcosa che la prosa non riesce a dire, qualcosa in più, ed è in questo a volte vertiginoso arrivare al cuore della realtà che risiede l'esperienza liberante, aprente, della bellezza? [/quote] Sono d'accordo naturalmente con il tuo "apofatismo".;) Per quanto riguarda il riferimento al cinema, riconosco che è un mio limite, ma tant'é e non posso farci niente ed infatti non ho mai guardato *sul serio* un quadro. Per la poesia invece, mi pare diverso o forse sono io che in questo caso riesco a comprendere qualcosa. :cincin:


lemond - 03/03/2010 alle 14:06

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" Introduzione (IV) [/b] Con politica si intende attuazione di "valori-obiettivi" in un contesto storico dato. Una politica del diritto scientificamente fondata (e non ideologica) implica la conoscenza del diritto positivo e, per la sua integrazione occorrono pure l'elaborazione filosofica e sociologica, oltre quelle specifica (giuridica). Prima di proseguire occorre domandarsi se il diritto è in grado di esprimere "valori-obiettivi"? Occorre insomma un'ontologia del diritto, perché non è detto che tutto l'ideale etico o politico possa diventare diritto. Al riguardo ci sono i teorici dell'un campo e dell'altro, "giuridicisti" e "negazionisti-anarchici" invece dell'importanza del diritto nella società e che appunto lottano contro di esso e per la sua scomparsa. La politica che il giurista è chiamato a svolgere, trova comunque i suoi limiti, ovviamente, nel diritto positivo, ma anche dal giuridico come tale, a prescindere dal contenuto storico-positivo. Con queste avvertenze, è possibile affrontare il tema della politica del diritto come filosofia, cioè il tema dei valori-obiettivi che l'ordinamento giuridico può essere chiamato ad attuare.


lemond - 04/03/2010 alle 13:45

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" Introduzione (V) [/b] I valori-obiettivi, però, difficilmente si attuano nel concreto conservando la propria intransigente purezza; spesso, per la struttura plurale dell'essere in società, occorre essere disposti a negoziare con i princìpi complementari o addirittura contrari; non sono escluse quindi *antinomie*. Occorre aggiungere che la politica del diritto non si identifica con la politica "tout court", perché esistono valori-obiettivi specificatamente giuridici (come vedremo in seguito). Infine il giurista deve conoscere la società in cui e per cui opera, fare cioè sociologia (in senso lato) : a) per accertare il diritto effettivo b) perché il diritto è soluzione normativa di problemi pratici (nota mia ad es. il velo islamico e no) c) perché non ogni modello assiologico, anche astrattamente ottimo, è realizzabile integralmente in ogni società. (nota mia ad es. in una società integralista di ogni genere, occorre procedere "cum grano salis"


lemond - 05/03/2010 alle 15:05

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" Introduzione (V) [/b] Devo aggiungere che in questi nove anni in molti hanno scoperto la politicità della giurisprudenza, anche se, a dire il vero, pochi l'ànno puntualmente dimostrata e delimitata: Al contrario molti hanno preso a dire che tutto quello che facevano i giuristi e i giudici tradizionali era solo pura politica, nel senso deteriore dell'ideologia; insomma si è verificato un po' quello che Bobbio ha chiamato: "l'ideologia della caccia alle ideologie" e, come succede spesso in Italia, dopo un po' c'erano più cacciatori che selvaggina. :Od: Io invece non volevo fermarmi ad un risultato di questo tipo, volevo semplicemente documentare la parte precisa di politicità (non-neutralità, non rigorosa logicità, non positività) ineliminabile dalla scienza giuridica. Ma spiegare in quale precisa misura, in quali punti, i giuristi non si limitano ad essere dei puri logici legalisti, non equivale ad affermare in blocco che gli stessi fanno dire alla legge qualsiasi cosa vogliano. :mad:


lemond - 06/03/2010 alle 16:07

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" Introduzione (VI) [/b] Meno ancora il corso teorizza l'irrazionalismo ed il politicismo brado, perché la tesi non era certo una rivendicazione, ma un accertamento logico-metodologico; non mi sono battuto per uno slittamento di competenze dal legislativo al giudiziario, né per una giurisdizione di equità. Del pari non ho inteso sottoporre l'ideale politico illuminista del giudice "bocca della legge" a critica politica, ho solo cercato di dire che il giudice di fatto non è, perché non può essere "pura bocca" e questo i cittadini devono saperlo. Ciò, sia chiaro, non toglie nulla alla teoria dell'interpretazione, per la quale l'interprete deve tendere all'oggettività. Il corso infatti cerca di prescrivere il massimo di ristrettezza alla politicità ed invita a colmare lo spazio fra giuridico e politico nel più scientifico dei modi possibili. Se non credessi alla possibilità di razionalizzare, entro certi limiti, la politica del diritto, il corso si limiterebbe ai primi due capitoli: 1) la legge (il diritto positivo) vi lascia questa possibilità 2) Fatene l'uso che credete. :D


lemond - 07/03/2010 alle 13:57

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" Introduzione (VII) [/b] Per indicare una linea di direzione, mi limito a suggerire che: a) E' proprio il progresso logico a svelare la non rigorosità della giurisprundenza e con ciò stesso a ricercare gli eventuali rimedi b) Il giurista e il giudice, più sono politicizzati a senso unico, più sono prevedibili e dunque riducibili. Cambiando discorso, devo dire che nell'ambiente culturale generale, il fatto più importante sopravvenuto dagli anni 60/70 ritengo sia stato, sembrerà strana come diagnosi, il diffondersi a livello di massa di tutta una serie di forme di "ateismo corrente", il che ha prodotto conseguenze sulla morale e sul diritto. Nuovo è stato infatti il diffondersi di forme teoriche e pratiche di "disconoscimento, negazione, oltraggio, irrisione" non solo dei dogmi e della morale cristiana teologale, ma dei valori stessi di quelle morali "laico-borghesi" in cui era ed è possibile riconoscere significative traduzioni secolarizzate di princìpi cristiani. Il nuovo "immoralismo" ha finito per aprire altri fronti interni nella già incrinatissima unità morale dell'Occidente ed in particolare del popolo italiano, rimasti quasi privi di quel minimo di "religione civile" che molti studiosi assumono come necessario alla sopravvivenza di una società.


Abajia - 08/03/2010 alle 01:12

Apprezzo il tuo sapiente spaziare nel discorso, Elisa, ma il rischio è quello di trascendere un po' [i]troppo[/i] dal nucleo della tematica, laddove il [i]troppo[/i] sta ad intendere la perdita dell'opportuno orientamento in inerenza all'argomento. [quote][i]Originariamente inviato da elisamorbidona [/i] Tuttavia, il fatto che si possa dire che a Dio siano state attribuite tutte le perfezioni umane, e la sua idea in questo senso sia pressochè da sempre una "creazione" dell'uomo, usata molto spesso per fondare dei regimi di oppressione e sfruttamento, non dimostra tanto meno alcunchè riguardo alla sua esistenza o non-esistenza nella realtà.[/quote] Appunto. Ecco, il punto è questo: l'esistenza di Dio non è dimostrabile, se non privando le presunte dimostrazioni dell'esperibilità necessaria per poter, a ragione, dirsi convinti dell'effettiva [i]realizzabilità[/i] d'un qualsivoglia processo esplicativo. Quanto a Dio - in qualunque modo lo si voglia intendere -, non ci è possibile l'effettiva dimostrabilità della sua esistenza così come della sua non-esistenza, come giustamente scrivi, ma, allo stesso modo, se è vero ch'io non potrei a ragione affermare che nella mia tazza di Mickey Mouse (per dire uno degli oggetti che ho davanti agli occhi) risieda un'entità onnipotente, è altrettanto pacifico il contrario. Ora: la differenza, dunque, qual è? Come ho sempre detto, un'argomentazione di questo genere non può prescindere da un'opportuna contestualizzazione storica: l'[i]esistenza[/i] di Dio è scritta nella Storia dell'Uomo. Mi fa rabbia, quindi, che per millenni si sia dato credito a credenze assolutamente fatue ed [i]inconsistenti[/i]. Se il cristianesimo, attraverso varie tappe storiche (vedi Editto di Milano e la successiva proibizione di ogni altro culto, promulgata sotto l'impero di Teodosio), non fosse passato da religione di una setta a grande Chiesa coincidente coi confini dell'Impero di Roma, ora come ora, forse, le stesse persone che oggi si dicono convinte dell'esistenza del Dio cristiano, contrariamente affermerebbero di professare una religione politeista salita in auge nell'epoca storica di vattelappesca, e i nostri calendari, oggi, sarebbero scanditi in tutt'altro modo. [quote]Il cuore della questione è a mio parere proprio il fatto che questo problema si trova al di qua della ragione e della parola, non al di là. Non nel senso che non se ne possa parlare con parole e frasi di senso compiuto, ma nel senso che per tentare una qualche affermazione positiva o negativa bisognerebbe affondare l'ancora non nei principi logici e razionali che teniamo come evidenti, ma sulla natura stessa dell'evidenza di quei principi. [...] ora, non potrebbe darsi che sia il caso di effettuare una tale rivoluzione copernicana in ambito filosofico e teologico, nel senso che si dovrebbe ritrovare un senso, un modo di esperire l'essere (la realtà delle cose del mondo su cui di per sè non possiamo avere dubbi) e Dio (la realtà di ciò che di per sè non è del mondo e su cui di per sè non si possono avere certezze), se c'è, che non passi attraverso il procedimento dimostrativo ed esplicativo. Quello, in sostanza, che fa l'arte, la quale non aspira certo ad alcunchè di fantastico o irreale, ma tenta, nella maniera maniera più diretta possibile, richiamandosi in parte al vissuto emozionale, in parte all'evocazione delle esperienza fondamentali dell'essere al mondo, comuni a tutti gli uomini, di restituire l'esperienza della realtà. Carlo-lemond diceva che a lui di un film interessa solo la sceneggiatura...ma allora perchè fare un film piuttosto che scrivere un libro o dipingere un quadro? Non sarà perchè l'immagine o la poesia dicono qualcosa che la prosa non riesce a dire, qualcosa in più, ed è in questo a volte vertiginoso arrivare al cuore della realtà che risiede l'esperienza liberante, aprente, della bellezza?[/quote] Non confondiamo le acque; parli di evidenza seguendo le tappe di un discorso evidentemente soggettivo. La funziona comunicativa dell'arte risiede, per l'appunto, nella suscettibilità dell'uomo a partecipare all'intento dell'artista. Laddove dovesse mancare questa disponibilità, non sussisterebbe alcuna "trasmissione" emozionale. Inoltre, se si parla di "arte" in senso generale, il discorso che ne consegue non può che avere le premesse d'una certa genericità.


lemond - 08/03/2010 alle 16:03

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" Introduzione (VIII) [/b] La conseguenza che riguarda la scienza giuridica è che nulla può più considerarsi teoricamente acquisito o almeno generalmente consentito. A titolo indicativo; il matrimonio e la famiglia, la distinzione di ruoli fra i sessi, la democrazia e lo Stato di diritto, la chiesa o le chiese, l'autorità in ogni sua forma convivono e confliggono in una guerra civile culturale. Le Costituzioni cessano di essere espressioni dell'unità fatcosamente raggiunta, per diventare "mantelli di Arlecchino", tirati in ogni direzione a copertura delle opposte ideologie, o meglio *antropologie*, perché le spaccature non sono solo sulle istituzioni e applicazioni, sono proprio sui significati umani primi. Proprio la radicalità della crisi sembra tuttavia esigere, e in qualche modo anche favorire, una nuova fondazione scientifica della politica come unica alternativa ad una "Babele non biblica", con l'aiuto della ragione non riduttiva. Perché la necessità e la logica delle cose guida chi vuole capire e trascina, suo malgrado, chi non vuole.


lemond - 09/03/2010 alle 15:09

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" Introduzione (IX) [/b] Preso nel suo insieme, si può ridurre ad un tentativo di risposta non riduttiva alla domanda: se il diritto è per l'uomo, per lo sviluppo della persona (art. 3 della Costituzione), chi è l'uomo? in quale direzione avviene l'autentico e completo sviluppo della persona? In tempi diversi sarebbe stato forse sufficiente rimanere all'interno dell'esperienza giuridica, ma nella dilacerazione in cui ci troviamo, dobbiamo addentarci anche nell'antropologia filosofica. Occorre riavvertire che l'irrazionalismo, o ideologicismo, metodologico indiscriminato troverà un opposizione. Il giurista, abbiamo detto, fa politica, ma le sue preferenze affettive o ideologiche incontrano un triplice limite: a) il limite del diritto positivo (significativamente circoscrivente) b) il limite della ragione (razionalità o ragionevolezza) pratica c) in sede di politica del diritto, il limite del giuridico in quanto tale. Sono i tre limiti che rendono appunto scientifica la scienza del diritto. :cincin:


lemond - 11/03/2010 alle 07:56

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (I) La scienza giuridica come politica del diritto [/b] La risposta più comune alla domanda su cosa faccia il giurista è, con ogni verosimiglianza: "interpreta ed applica la legge". Il nostro corso intende contestare che il giurista, all'interno dell'ordinamento giuridico statale, applichi solo la legge e che quindi la sua attività sia pura logica applicata. E' quindi necessario rendersi conto anzitutto delle origini storiche di tale finzione. Perché si realizzino le condizioni di un ordinamento legale in senso stretto, sembra indispensabile il ricorso allo strumento del codice, perché la legislazione frammentaria, qual è di solito quella degli Stati nel periodo del diritto comune, non basta a fornire il postulato di fondo di un ordinamento legale in senso stretto. La vicenda del diritto comune durante il medioevo è l'esempio grandioso di un ordinamento che si sviluppa per secoli senza l'intervento del legislatore, bensì per opera della prassi e dei giuristi. Con la formazione degli Stati assoluti, il concetto stesso di diritto comune a Stati diversi entra in crisi, mentre si irrobustisce l'idea del diritto, come legge emanata dal singolo Stato.


lemond - 11/03/2010 alle 14:33

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (II) [/b] A favore del codice opera anche l'ideologia giusnaturalistica e illuministica, il razionalismo giuridico che ritiene conoscibile e formulabile dalla ragione l'insieme dei princìpi e delle norme di convivenza. Si potrebbe dire che un ossimoro si traforma nel suo contrario, perché il codice è, al tempo stesso atto di volontà assoluta (al limite arbitraria), compendio di un'esperienza specilialistica di secoli e modello razionale. L'idea finale, quindi e infatti, si risolve in una serie di ambiziosi paradossi: giusnaturalismo positivistico, tradizionalismo riformistico o addirittura rivoluzionario, volontarismo razionalistico ... E forse proprio in questo sta la sua necessità e vitalità storica, che lo porta, in un secolo, a conquistare quasi tutta l'Europa. I codici nascono favoriti dai monarchi assoluti e dalla burocrazia, ma vengono poi fatti propri dal liberalismo, che si richiama a Montesquieu e paradossalmente proprio la versione libverale dà il suggello al positivismo assoluto ed alla teoria dell'automatismo del giudice e del giurista, il che contribuirà poi alla fondazione del diritto che, staccato dalle sue matrici, sarà poi, certo preterintenzionalmente, la premessa di validità della legislazione nazista.


lemond - 12/03/2010 alle 13:59

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (III) [/b] Soprattutto nel dopoguerra, il positivismo legalista è stato criticato sulla base della c.d. "reductio ad Hitlerum" : si faceva notare che i giuristi tedesci non avevano saputo resistere al nazismo, proprio perché abituati a considerare la volontà della legge come volontà da seguire in ogni caso. Bastava allora che una dittatura si impadronisse del Parlamento per conferire legittimità costituzionale a tutte le proprie decisioni. (nota mia: ciò che sta accadendo in questi giorni in Italia ...) Questa passività nei confronti della legge nasceva proprio dagli aspetti di verità contenuti nella dottrina liberale dello Stato di diritto: difesa della libertà del cittadino contro l'eventuale arbitrio del giudice. E' chiaro che nel concetto di legalità di un giudice nazista rimaneva ben poco delle componenti giusnaturalistica, tecnico-giuridica, liberaldemocratica e garantistica dell'idea di codice, ma il giudice nazional-socialista avrebbe di certo sfruttato l'alone di valore che esse avevano conferito alla legalità formale.


lemond - 13/03/2010 alle 13:40

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (IV) [/b] Noi non intendiamo, in questa fase, sottoporre il legalismo a critica politica, ma solo chiederci se sia reale o possibile il seguente postulato: non c'è diritto al di fuori della legge e non c'è non-diritto all'interno della legge. La prima proposizione esclude le fonti del diritto diverse dalla legge: la consuetudine, il diritto giurisprudenziale, i precedenti giudiziari, la prassi amministrativa, ma anche lo "ius gentium", il diritto naturale o razionale, la c.d. equità; insomma esclude ogni altra norma e storicamente manda "in soffitta" il diritto comune. La seconda proposizione esclude soprattutto la desuetudine, il suo cioè non essere più vincolante, se non osservata. E' chiaro che questo postulato distrugge l'autononia politica del giurista e, come disse Robespierre il termine giurisprudenza va addirittura cancellato dalla lingua, e la scienza giuridica non può e non deve invocarsi come elemento a favore di una tesi sostenuta in giudizio. Certi "codificatori" hanno addirittura vietato ogni interpretazione e commento della legge ed infatti il giurista ortodosso dell'ottocento era orgoglioso, quando sosteneva "io non conosco il diritto civile, insegno soltanto il Codice Napoleone". :D


lemond - 14/03/2010 alle 14:53

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (IV) [/b] La nostra prima critica si dirigerà contro l'asserto che la legge è tutto il diritto, che può formularsi anche: "la legge è completa". Ci sembra invece che è possibile constatare come, all'interno di un ordinamento legale, ci sia un largo spazio vuoto (lacuna) che l'interprete è chiamato a colmare con mezzi propri. Possiamo asserire che esiste lacuna in tutti i casi, e solo in essi, in cui l'interprete che vuole risolvere un dato problema pratico ipotetico o reale fondandosi solo sulla legge, non trova invece nel codice una soluzione univoca e riconoscibile come tale da ogni intelletto ragionante. A scopo puramente espositivo, raccoglierò queste lacune in due gruppi: a) statiche, quelle che la legge presenta già astrattamente, cioè a prescindere dal fatto che essa debba applicarsi ai casi concreti ed alla vita sociale in evoluzione. b) dinamiche, quelle invece destinate ad evidenziarsi nel concreto e nel divenire.


lemond - 15/03/2010 alle 15:46

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (VI) Lacune statiche [/b] La legge non può (e di solito, neppure pretende) fissare in modo univoco il significato di tutte le proprie parole. I tentativi di fare del linguaggio legislativo un linguaggio "formalizzato" nel senso della logica moderna sono sempre falliti e con ragione, perché proprio la logica moderna ha scoperto l'impossibilità di formalizzare integralmente qualsiasi sistema linguistico, anche molto più preciso di quello legislativo. Si pensi ai concetti di buona fede, buon costume, stato di necessità, forza maggiore, colpa, diligenza del buon padre di famiglia etc. Proprio il concetto di buona fede fu utilizzato da Cicerone per includervi l'obbligo del venditore di informare il compratore che la casa in vendita era infestata dai fantasmi. :D Affini al precedente sono i casi di implicito o esplicito rinvio da parte del legislatore alla "dottrina e giurisdizione". Ma le lacune non si esauriscono qui; ci sono anche quelle derivanti dalla limitatezza con cui il legislatore si rappresenta i fatti sociali sui quali intende intervenire s sono lacune in aumento, in quanto proporzionali alla complessità della società contemporanea e dei compiti che in essa sta assumendo lo Stato.


lemond - 16/03/2010 alle 14:06

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (VII) [/b] Al perfetto legislatore (senza lacune) si richiederebbe la conoscenza integrale del "corpus legale preesistente", cosa impossibile e che comporta anche l'esistenza di *antinomie*, che assomigliano alle lacune, perché l'interprete manca di una norma univoca da applicare. Criteri per superare le antinomie sono previsti, del tipo la Costituzione prevale sulle leggi ordinarie o la successiva sulla più antica; ma questi criteri sono opera non della legge stessa, ma nascono dai giuristi. Oltre che dalla conoscenza della società e del diritto, il legislatore è limitato dalla propria capacità di formulare adeguatamente un proprio volere. (Nota mia; si pensi al ministro Maroni che il giorno dopo aver firmato un decreto, lo ripudiò sostenendo che non lo aveva capito :D ). Ciò prende il nome, in generale, di sfasamento tra "litera" e "ratio" che ciascuno può sfruttare per far dire alla legge più o meno di quello che ha scritto. :cincin: Le lacune non sono, si badi, proprie solo della legge, ma anche nei principii generali, perché essi sono, di solito, il risultato di giudizi di valore contrastanti (si pensi alla funzione sociale della proprietà privata) e quindi anche coloro che intendono salvare il legalismo, considerando l'interprete vincolato ai *principii*, pongono, a parer mio, un vincolo ben poco operante. ;)


lemond - 17/03/2010 alle 14:21

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (VIII) Lacune "dinamiche" [/b] La legge deve anzitutto confrontarsi con i singoli casi, pur essendo generale ed astratta. Ora, nella visione di completezza della legge, viene presentata al giudice una situazione di vita concreta e questa "di sicuro" deve rientare nelle cosiddette "fattispecie tipiche", cioè previste dalla legge. E' la teoria del sillogismo giudiziario che, purtroppo per i sostenitori, non si presenta mai (o quasi), perche non esiste il caso particolare che rientra perfettamente nella norma generale. Di solito in giudizio si va proprio perché le parti hanno qualche dubbio, perché se fosse proprio chiaro il caso, chi è in torto non andrebbe davanti ad un giudice. Quindi è verosimile che i casi concreti non rientrino esattamente sotto una norma. Inoltre si può osservare che i casi concreti sono regolati dall'intreccio di più norme ed implicano tutta una serie di circostanze che la norma non può prevedere. In conclusione, per ora, si può dire che l'individuale fa entrare la norma in una dimensione equitativa (la giustizia applicata al caso singolo) con cui deve misurarsi e in tal modo incontra una serie di incognite con le quali fare i conti. L'importanza di questa dimensione dell'individuale è tale che ci sono teorie giuridiche che riducono quasi tutto il diritto alla soluzione dei conflitti individuali concreti; ad es. "Il realismo giuridico".


lemond - 18/03/2010 alle 15:16

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (IX) [/b] Credo che la posizione più equilibrata sia quella di riconoscere un'esistenza specifica della norma generale, ma anche (nota mia, mi scusi Veltroni ;) ) una complementarità con la norma individuale. Quindi il diritto, visto nella sua concretezza, si configura come un arco ove la norma generale diventa la cornice che deve poi puntualizzarsi nelle decisioni e quindi si può anche dire che si va oltre le lacune, siamo addirittura di fronte ad un arcipelago nel mare della realtà. ;) I teorici dell' *arcipelago* sono stati detti anche giusliberisti, perché hanno scoperto la libertà del giurista di fronte alla legge. Un altro discorso, circa le lacune, riguarda le incognite del *divenire* (fatti nuovi rispetto alla legge). Il legalista potrebbe obbiettare che basta che il legislatore integri, ma la risposta è facile, perché moltiplicando le leggi ai nuovi casi si creano antinomie, tensioni, si moltiplicano i termini usati, si riaprono insomma tutte quelle lacune che abbiamo chiamato statiche. A me, in definitiva, sembra che il legalismo sia altrettanto logico quanto fare una carta geografica in scala 1:1. :D Oppure si dovrebbe ammettere che la Storia tutta, in quanto innovativa, dal punto di vista giuridico andrebbe costruita (quando non avesse per soggetto il legislatore) quale *illecito*. ;) Abbiamo incontrato un'altra "reductio ad absurdum" dell'ipotesi legalista. :cincin:


lemond - 19/03/2010 alle 16:03

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (X) Espedienti del legalismo per colmare le lacune [/b] Nel diritto romano il giudice era autorizzato, in caso di dubbio, a non pronunciarsi "Non liquet" significava appunto che la cosa non era chiara. Il codice Napoleone esclude invece questa facoltà ed anzi il giudice potrebbe essere perseguito sul piano penale per "denegata giustizia". E allora, come si procede per seguire il *dogma* legalistico della completezza della legge? Si è pensato anzitutto al "reféré legislatif" nel senso che il giudice può ricorrere al legislatore, ma è impraticabile per diversi motivi: prima di tutto per la lunghezza dei processi che dovessero sottostare anche all'attesa di una pronuncia del parlamento; :mad: poi, in questo modo, la legge perderebbe la sua generalità, perché il Parlamento dovrebbe interpretarla per il caso concreto propostogli. (nota mia: figuriamoci nell'era di Berlusconi :D :D :D ); infine il "reféré legislatif" incoraggiava nei giudici la mentalità dello "scarica barile" e quidi fu abolito dappertutto. :cincin:


lemond - 20/03/2010 alle 14:45

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XI) Le regole legislative sull'interpretazione [/b] L'art. 1 del codice svizzero sostiene che nei casi non previsti dalla legge, il giudice decide secondo la consuetudine e, in difetto di questa (ecco il punto più importante) secondo la regola che egli adotterebbe come legislatore. Questo articolo purtroppo non è stato imitato da nessun altro codice. A noi però interessa principalmente una soluzione escogitata per colmare le lacune senza far intervenire una valutazione autonoma del giudice, che è quella della *negazione logica* delle lacune. Gli autori sostengono che l'ordinamento contiene una *norma generale di chiusura* per cui tutti i casi non regolati da una norma particolare, cadrebbero (appunto) sotto una norma generale (non scritta) che assegnerebbe a tutti un identico "status", con due varianti teoriche: a) tutto ciò che non è regolato, è permesso b) è irrilevante.


lemond - 22/03/2010 alle 14:19

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XII) [/b] La critica più ovvia al punto (b) è che esso non dà alcuna direttiva vera al giudice, che peraltro non può rifiutare di pronunciarsi, pertanto questa teoria è pericolosa, tanto più che, messo alle corde, il giudice può decidere imprevedibilmente. Più importante è il punto (a). Secondo questa variante, di cui è abbastanza evidente l'aspirazione liberale, l'intervento del diritto come limitatore della libertà è da intendersi come eccezionale ed anomalo, ma anche a questa concezione possono farsi varie critiche. Anzitutto chi ha mai detto che il legislatore debba essere liberale? Inoltre se si fosse coerenti con tale ipotesi, sarebbe impossibile condannare non solo nel caso di completa mancanza di norma, ma anche in presenza di *lampante* ;) oscurità. Perché se si ammettesse che tutte le volte che la legge penale è oscura e che, se si è in dubbio sulla applicabilità dell'ipotesi di reato, si assolve, non sarebbe facile condannare ed allora per farlo molte volte si introduce invece una chiarezza artificiosa. (segue)


lemond - 22/03/2010 alle 14:20

Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XIII) In questo senso diventa chiaro che la scelta, eventualmente fatta dal giudice, per la norma generale di libertà è una scelta politica, perché questa norma non c'è e quindi il postularla presuppone la tutela di certi interessi contro altri, mentre il conflitto tra di essi era lasciato irrisolto dalla legge. O forse la tutela da parte del giudice è, al tempo stesso, arbitraria e incoerente, perché concessa ad interessi opposti, a seconda di chi, casualmente, si trovi a intentare l'azione. Prendiamo ad es. una causa di furto di elettricità: se un privato deviava la corrente in casa sua, l'azienda elettrica perdeva la causa, per il principio che ciò che non è regolato è permesso! Ma se, la stessa azienda, "magiava la foglia" e mandava qualcuno a tagliare il filo, l'utente, che la conveniva in giudizio, perdeva (questa volta lui) la causa, non essendo prevista né come furto, né come altra ipotesi di illecito, l'interruzione del passaggio della corrente. Il giudice veniva quindi a rendere una giustizia " a corrente alternata" :D :Od: :D (segue)


lemond - 23/03/2010 alle 14:29

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XIV) [/b] C'è un altro argomento che mi sembra più rilevante ancora ed è l'argomento di fatto: la prassi dei giudici e dei giuristi ha smentito sempre l'esistenza di questa norma di chiusura (non credo ci sia neppure una sentenza a favore della teoria giusliberista). Infine un ultimo argomento, forse il più importante di tutti. Non esiste praticamente nessun caso nella vita per cui si possa dire che è totalmente non previsto dalla legge, quasi sempre invece il caso presenta degli aspetti di coincidenza *parziale* con la fattispecie legale o, per meglio dire, il caso è suscettibile di più interpretazioni. Pertanto se il conecetto di lacuna che si adotta è questo, cioè l'unico realistico, accettare la tesi della norma generale di chiusura porterebbe a respingere l'azione legale ogni volta che c'è un minimo di oscurità. :mad:


lemond - 24/03/2010 alle 14:15

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XV) [/b] La conclusione è che nella legge le lacune ci sono e non sono autocolmabili. Esiste però l'espediente di gran lunga più importante per far finta che ... e si chiama *logicismo giuridico* che costituirà il bersaglio polemico principale del nostro corso. La tesi: "E' possibile trarre dalla legge nuovo diritto", mediante operazioni logiche paragonabili alle trasformazioni della matematica. E' facile comprendere che il legalismo è collegato (sta o cade) al logicismo, perché se non esistono operazioni logiche con le quali colmare le lecune ... Di fronte al logicismo, noi dovremo dimostrare: a) che i procedimenti veramente logici e neutrali, non sono fecondi b) che i procedimenti veramente fecondi non sono logici c) che nascono gravi inconvenienti di tipo umano e politico dal fatto che quei procedimenti siano considerati e logici e fecondi. :mad:


lemond - 25/03/2010 alle 14:35

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XVI) [/b] Lasceremo da parte il primo tipo, perché interessa meno, concentrandoci sul secondo e cioè sull'esame di quei procedimenti che di fatto possono produrre veramente diritto. Il terzo tipo di critica lo eserciteremo tutto in una volta, contro il metodo logicista nel suo complesso. Per dimostrare che l'insieme di operazioni che possono indicarsi col termine generico di *interpretazione* non si risolve in un'attività di natura logico-filosofica esporrò anzitutto i principali tipi di interpretazione giuridica, mostrando che nessuno di essi porta a risultati univoci capaci di imporsi come tali ad ogni intelletto correttamente ragionante. La prima coppia antitetica di tipi elementari di interpretazione può essere data dall'i. oggettiva e soggettiva. La prima è quella che si propone di accertare il significato della legge, l'altra cerca invece di stabilire ciò che ha voluto dire il legislatore. L'i.soggettiva utilizza quindi i lavori preparatorii, mentre l'altra guarda soltanto quanto è passato nel testo (non gli interessano le teste ;) ) segue


lemond - 26/03/2010 alle 14:49

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XVII) [/b] Una seconda alternativa, di fronte a cui si trova il giurista, è quella fra i. storica e evolutiva. La prima cerca di accertare il significato della legge al tempo dell'entrata in vigore, a differenza dell'altra che ricerca il significato attuale. Si capisce l'importanza di questa distinzione soprattutto pensando alle leggi più longeve (ad es. il Code Napoleon o il codice Rocco). Anche qui, ci sono argomenti sia per l'uno che per l'altro tipo a seconda che si voglia privilegiare la realtà sociale ovvero la certezza del diritto. Una terza dicotomia, si ha fra interpretazione letterale e fondamentale, intendo con quest'ultima ricercare la "ratio" o lo spirito. Il fondamento di una norma può poi essere accertato in due modi principali e sono quelli dell'i. concettuale o teleologica. Il secondo modo riguarda i fini che la legge si proporrebbe, mentre il primo per spiegarlo occorre un esempio. Una norma sulla compravendita che dica ad es. che essa va eseguita secondo buona fede, viene interpretata in modo concettuale se l'interprete ritiene che la buona fede sia stata introdotta perché la compravendita rientra nell'insieme (concetto) superiore del contratto e ogni contratto va iinterprato appunto ... (segue)


lemond - 27/03/2010 alle 14:51

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XVIII) [/b] Facendo un passo indietro, mi sembra interessante anche un esempio di i. teleologica. Le regole del traffico contengono la norma: è vietato passare con il rosso, il che sembra piuttosto semplice, ma non è così, perché può prodursi (credo sia stato sperimentato quasi da tutti) una certa situazione del traffico per cui se si rispetta il divieto di passare con il rosso, si paralizza completamente la circolazione. Sentiamo che c'è un contrasto fra il contenuto concettuale della norma e il fine per cui è stata posta ed allora noi semplicemenete, interpretando, sostituiamo la norma ed invece di "passare col rosso" *scriviamo nella nostra mente* "è vietato compiere atti che siano nocivi alla sicurezza ed alla speditezza del traffico. :cincin: (segue)


lemond - 29/03/2010 alle 14:35

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XIX) [/b] L'interpretazione si può distinguere in settoriale, se si limita ad interpretare la norma con se stessa, e sistematica se interpreta quella stessa norma, estendendosi alla considerazione congiunta di altre norme, anche se sembra difficile pensare ad un'interpretazione solo settoriale, dato che tutte le norme dell'ordinamento sono egualmente in vigore e la dimenticanza di una di esse attinente alla materia, può infirmare la decisione. Tuttavia in pratica questo non sempre avviene, sia perché non è sempre facile tener presente tutte le migliaia di leggi, sia per un'antinomia che esporrò più tardi con riferimento all'interpretazione telologica, ma che può forse valere per ogni tipo di interpretazione fondamentale. (segue)


lemond - 31/03/2010 alle 13:21

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XX) [/b] L'elenco delle possibili interpretazioni serve a mettere in luce il punto d'inserzione dell'attivita politica del giurista e per far capirne meglio la portata si può notare come i nostri codici (redatti durante il fascimo) sono rimasti letteralmente identici in moltissime parti, ma interpretati molto diversamente dopo l'entrata in vigore della Costituzione. Oppure si possono considerare le norme sui diritti di libertà sanciti, più o meno con gli stessi termini, in tutte le costituzioni del mondo, però è evidente che parlare di libertà di manifestazione del pensiero negli S.U.A. in Italia, nel Canadà, in Russia, a Cuba, nel Ghana, nello S.C.V o (in "Padania" direi io, se ci fosse una costituzione anche lì), significa dire con gli stessi termini cose molto diverse. Lo stesso può valere per concetti come "buon costume" e "ordine pubbblico". Quindi si può concludere che la relativa unità di interpretazione della legge deriva dall'accordo che si forma nel contesto sociale; per esempio se la magistratura risolve sempre certi problemi giuridici in un certo modo, pian piano si forma un'opinione sociale sul significato di quella norma che magari non è affatto richiesta dal contenuto logico delle regola stessa. (segue)


lemond - 02/04/2010 alle 14:21

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XXI) [/b] Tra i vari tipi di interpretazione, nessuno è tale da portare spesso a risultati incontrovertibili, perché già l'operazione dell'interpretare (accertare cioè il significato di un insieme di segni) è per sua natura rigorosamente incerta. Un filosofo tedesco (Dilthey) ha ben spiegato come intendere è qualcosa come rivivere un'intenzione, una rappresentazione, una emozione; insomma un atto di quasi pura soggettività. Ora, com'è possibile *dimostrare* di aver inteso un testo correttamente? Se ad es. assumiamo dal neopositivismo il canone secondo cui una dimostrazione rigorosa dev'essere o analitica o sperimentale, l'affermazione che una dato testo ha un dato significato non può essere dimostrata rigorosamente. :cincin:


lemond - 05/04/2010 alle 13:50

[b] Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XXII) [/b] Oltre al carattere inverificabile dell'intendere, si potrebbe metterne in luce il carattere "storico" nel senso dell'ermeneutica ispirata ad Heidegger: non si comprende se non da un'esperienza, da un interesse. Inoltre l'interpretazione giuridica ha una peculiarità, è un testo con il quale regolare la vita, quindi anche ammesso che l'interpretazione filologica fosse certa, non lo sarebbe, per ciò stesso, quella giuridica. Ad es. nessun filologo si chiederebbe quale potrebbe essere il significato (evolutivo) di una poesia di Catullo, mentre nel diritto questo tipo di interpretazione può servire a far dire alla legge più di quanto ...


lemond - 05/04/2010 alle 14:47

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XXII) [/b] Oltre al carattere inverificabile dell'intendere, si potrebbe metterne in luce il carattere "storico" nel senso dell'ermeneutica ispirata ad Heidegger: non si comprende se non da un'esperienza, da un interesse. Inoltre l'interpretazione giuridica ha una peculiarità, è un testo con il quale regolare la vita, quindi anche ammesso che l'interpretazione filologica fosse certa, non lo sarebbe, per ciò stesso, quella giuridica. Ad es. nessun filologo si chiederebbe quale potrebbe essere il significato (evolutivo) di una poesia di Catullo, mentre nel diritto questo tipo di interpretazione può servire a far dire alla legge più di quanto ...


lemond - 05/04/2010 alle 15:51

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XXI) [/b] Oltre al carattere inverificabile dell'intendere, si potrebbe metterne in luce il carattere "storico" nel senso dell'ermeneutica ispirata ad Heidegger: non si comprende se non da un'esperienza, da un interesse. Inoltre l'interpretazione giuridica ha una peculiarità, è un testo con il quale regolare la vita, quindi anche ammesso che l'interpretazione filologica fosse certa, non lo sarebbe, per ciò stesso, quella giuridica. Ad es. nessun filologo si chiederebbe quale potrebbe essere il significato (evolutivo) di una poesia di Catullo, mentre nel diritto questo tipo di interpretazione può servire a far dire alla legge più di quanto ...


lemond - 06/04/2010 alle 07:34

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XXI) [/b] Oltre al carattere inverificabile dell'intendere, si potrebbe metterne in luce il carattere "storico" nel senso dell'ermeneutica ispirata ad Heidegger: non si comprende se non da un'esperienza, da un interesse. Inoltre l'interpretazione giuridica ha una peculiarità, è un testo con il quale regolare la vita, quindi anche ammesso che l'interpretazione filologica fosse certa, non lo sarebbe, per ciò stesso, quella giuridica. Ad es. nessun filologo si chiederebbe quale potrebbe essere il significato (evolutivo) di una poesia di Catullo, mentre nel diritto questo tipo di interpretazione può servire a far dire alla legge più di quanto ...


lemond - 06/04/2010 alle 14:09

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XXIII) [/b] Riassumendo, l'esigenza di interpretazioni metafilologiche nasce dall'esigenza di colmare le lacune della legge. Se si ammettesse che la legge non è tutto il diritto, ci si potrebbe limitare alle interpretazioni di tipo filologico anche se dovremmo comunque accettare il fatto che sopravviverebbero più tipi di interpretazione, nessuno dei quali rigorosamente certo. Prendiamone una per tutte: quella che si chiamava un tempo "i. secondo lo spirito". Il giurista più famoso della fine dell'ottocento (Windscheid) consigliava di pensarsi immersi dentro l'anima del legislatore; espressione quasi mistica il cui ingenuo idealismo faceva già sorridere alcuni suoi contemporanei e Goethe sosteneva appunto che il c.d. "spirito della legge" altro non era che il pensiero di lor signori interpreti. :D


lemond - 07/04/2010 alle 14:56

[b]Luigi Lombardi Vallauri "Corso di Filosofia del diritto" (XXIV) [/b] Va detto però che senza l'interpretazione teleologica la vita del diritto sarebbe impraticabile; ho già fatto l'esempio della paralisi del traffico prodotta dall'interpretazione letterale, potrei ricordare anche i ben più probanti "scioperi" attraverso l'osservanza del regolamento in certe amministrazioni statali. Penso (soggettivamente) che si possa dimostrare che l'i. teleologica arrivi sempre alla norma fine ultimo: agisci per favorire il bene comune. A questo riguardo si ci si può riferire al diritto canonico nel quale, per dottrina costante, tutte le norme devono essere applicate telologicamente, avendo in vista il fine ultimo della "salus animarum". :) Ma se è inevitabile salire fin lì, è anche impossibile rimanervi, perché a quell'altezza il diritto positivo sarebbe altrettanto indeterminato quanto il Bene di Platone e ciascuno sarebbe libero di determinarlo a suo modo. :mad:


lemond - 08/04/2010 alle 13:28

[b]XXV [/b] Quando anche i singoli metodi interpretativi fossero tutti certi (ma sappiamo che non lo sono), resterebbe il problema di scegliere tra di essi. Con quali criteri? Ce ne sono *tali* da imporsi ad ogni intelletto correttamente ragionante? E' anche questo un banco di prova per il logicismo giuridico. Già nel 1916 A. Merkl scriveva: "A rigore si può addirittura affermare che ci sono, sotto la stessa legge, esattamente tanti ordinamenti giuridici quantio sono i metodi di interpretazione". Una teoria dell'i. corretta sarebbe, a mio parere, quella che mostrasse i vantaggi e i rischi di ciascun metodo e traesse poi tutte le conseguenze del fatto che nessun metodo è tale da ...


lemond - 09/04/2010 alle 14:44

[b]XXVI [/b] Vediamo se è possibile compiere una scelta all'interno dell'ideologia legalista. Da un lato, il postulato che la legge è tutto il diritto porterebbe a scegliere i metodi che più certamente escludono interpolazioni valutative extralegali, ma dall'altro, quello stesso postulato esige che la legge riesca a coprire tutte le situazioni concrete e porta quindi a scegliere i metodi che fanno dire alla legge il più possibile, ossia i metodi teleologici, evolutivi, sistematici. Il legalista tenderà piuttosto a scegliere i metodi fecondi che salvano, non la legalità, ma l'apparenza di legalità (nota mia: come nel caso dell'obbligatorietà dell'azione penale). :mad: Il legalista tenderà a risolvere le antinomie, anziché denunciarle e ritenersi poi libero di decidere a modo suo sul punto regolato contraddittoriamente. :OIO


lemond - 11/04/2010 alle 10:29

[b]XXVII [/b] Un criterio di valutazione può anche essere dato dal modo in cui si concepisce la legge, in base alla seguente alternativa: a) il valore dell'autorità; non c'è diritto al di fuori della sovranità b) il principio della ragione; è possibile costruire un sistema legale completo e razionale. Se la legge è essenzialmente volontà del più forte, sembra doversi scegliere l'interpretazione letterale, perché è inutile cercare altro fondamento. :mad: Se la legge invece, è portatrice di obiettivi razionali, sia formali (coerenza, completezza) che sostanziali (giustizia) è coerente dedicarsi a costruire tutto un sistema.


lemond - 12/04/2010 alle 14:25

[b]XXVIII [/b] E si noti che gli atti di volontà non hanno bisogno di chissacché. Al limite può bastare una legge che dica di decidere con la monetina, purché siano precisate in modo inequivocabile le regole del gioco (ad es. qual è la testa e ...). L'importante è che si possano dedurre risultati certi, perché togliere alla legge la precisione sarebbe toglierle la sua unica giustificazione. (Nota mia: nella legge elettorale per il Senato "Pocercellum" si è data un'interpretazione non letterale, così come è del tutto imprecisato il modo di interpretare la raccolta di firme per le ultime elezioni e, tenendo conto solo solo della "pace elettorale" si è proprio perso l'essenza della legge). Come si vede, sotto le scelte interpretative, può esserci tutta una filosofua della società e del diritto.


lemond - 13/04/2010 alle 14:27

[b]XXIX [/b] Il giurista (secondo Merkl) dovrebbe scegliere i metodo e da questi pervenire ai resultati, mentre nella realtà avviene il contrario. :mad: La prima cosa, infatti, di cui ci si accorge analizzando le motivazioni esplicite delle sentenze (per es. la Cassazione) è l'eclettismo metodologico di tali motivazioni. Si tratta, secondo me, di un'osservazione fondamentale: tutti i tipi di interpretazione vengono utilizzati volta a volta, anche nella stessa sentenza. :mad: Nessun giudice della storia, ch'io sappia, ha mai reso pubblici i propri criteri di metodo, impegnandosi ad attenervisi almeno per un anno giudiziario. E nessuna sentenza viene attaccata ed eventualmente *cassata* per essersi basata su un dato tipo di interpretazione piuttosto che su di un altro, la motivazione dell'ultima corte è sempre che "quella sentenza era contro la legge". Un po' troppo facile, no? :mad:


lemond - 15/04/2010 alle 14:39

[b]XXX [/b] Quali i criteri per scegliere la soluzione "migliore"? Se scartiamo la più seguita (scelta pro amico), non restano che i criteri politici; e al riguardo la metodologia dei risultati è più scopertamente politica di quella dei metodi. Cerchiamo di ... Un primo argomento a favore della m.d. metodi può essere quello, puramente formale, della coerenza, ma ognuna delle due è coerente (poco o molto, oggettivamente) sul proprio piano ed eclettica, invece, su quello dell'altro. La coerenza metodologica implica necessariamente l'incoerenza politica e viceversa. Ora, la valutazione negativa della "politicità" deriva da due aspetti: Il primo se si crede che il giudice faccia politica nel senso ideologico detriore e come gioco di potere; il secondo riguarda la convinzione che più un problema è politico, più la soluzione sarà arbitaria. In altri termini la scelta contro la metodologia dei risultati (nota mia: proprio oggi si sta scolgendo in parlamento la discussione per salvare in qualche modo il decreto del governo, interpretativo delle leggi elettorali regionali ;) ) è una scelta per il valore della certezza del diritto.


lemond - 16/04/2010 alle 14:25

[b]XXXI [/b] Secondo me il vero problema della certezza è dato dalla domanda:" E' più probabile che si ottenga l'accordo su un metodo o su un'ideologia?" In astratto non è infondato ritenere che i problemi metodologici siano suscettibili di soluzioni più "certe" di quelli politici, ma ivi è sottintesa la sfiducia nella ragione pratica, cioè nella possibilità di una politica "disinteressata" ovvero "scientifica", perché esiste o può esistera anche questa (nota mia: Pannella, nel male e nel bene, ne è un esempio), cioè né slogan, né pura scelta emozionale. Sempre a mio parere, comunque, le probabilità che prevalga la metodologia nella coscienza dell'interprete sono piuttosto scarse, per cui è più probabile che abbiano la meglio i motivi ideologici (giustizia sostanziale) sui quali si fonda la metodologia dei risultati. Essere marxista o cristiano è qualcosa che prende molto di più che essere per l'i. letterale o per quella teleologica. ;)


lemond - 17/04/2010 alle 14:12

[b]XXXII [/b] Stante il fatto che è molto improbabile raggiungere la certezza attraverso l'accordo effettivo su un metodo, la vera scorrettezza metodologica dei giudici e dei giuristi non sta tanto nella scelta della metodologia eclettica dei risultati, quanto nel carattere criptico di questa opzione, che sottrae alla luce della discussione le motivazioni reali. Il giurista deve però (comunque) prepararsi ad affrontare i problemi politici sostanziali che si pongono nei vari campi del diritto e quindi può anche scegliere (con plausibili ragioni) l'eterodossa metodologia dei risultati. (con la riserva di cui sopra) :cincin:


lemond - 20/04/2010 alle 14:02

[b]XXXIII [/b] Abbiamo finora accettatato, in via provvisoria, l'ipotesi che il diritto statale coincida con la legge. Se quella ipotesi fosse veritiera, sarebbe con ciò dimostrata la nostra tesi della politicità della giurisprudenza, perché il giurista conserva, di fronte alla legge, uno spazio di scelta politica che né la legge, né la logica rigorosa, sono in grado di abolire. Dobbiamo quindi sottoporre a verifica l'ipotesi dell'identità legge-diritto, perché resta ancora possibile l'obbiezione che il diritto positivo sia qualcosa di ben più ampio e completo della legge e che di fronte a questo diritto, la politicità della giurisprudenza finisca per abolirsi o ridursi fortemente. :?


lemond - 22/04/2010 alle 14:23

[b]XXXIV [/b] Ci chiediamo allora che cosa il giurista debba considerare "diritto vigente". Questa domanda è duplice, perché occorre sapere: a) cos'è il diritto; b) quale sia quello da applicare. La prima interrogazione distingue il diritto dalla morale, dal costume, dalle leggi economiche etc, la seconda fa riferimento, per contrapposto, al diritto passato, a quello di un ordinamento straniero, o al "de iure condendo" (il diritto ideale). In sintesi possiamo dire che la prima distinzione si riferisce all'essenza, la seconda all'esistenza.


lemond - 23/04/2010 alle 14:15

[b]Parte seconda, (I) Concetto di diritto [/b] Per rispondere alla domanda sull'essenza del diritto, dobbiamo proporre una definizione, ma da secoli si ripete, con Kant, che è impossibile trovarne una non controversa. Però, secondo le più recenti teorie, la definizione non ha bisogno di essere *essenziale* (Aristotele), ma basta che sia funzionale al discorso che s'intende fare. Non cercheremo dunque definizioni assolute, ma ci limiteremo al diritto da apllicare oggi. Un secondo canone a cui ci atterremo, lo potremmo chiamare di *completezza*, nel senso che cercheremo subito una definizione la più completa possibile del diritto. So che non partire dall'atomo è contrario alle regole logiche, ma almeno nel caso del diritto mi sembra necessario. Un terzo elemento a cui vorrei attenermi, potrebbe chiamarsi priorità logica, Prendiamo ad es. la definizione del dirittto che ne darebbe un anarchico, che potrebbe appunto intenderlo come "Il letto di Procuste" della società civile (cioè identificazione del diritto con il male). Noi escluderemo questo tipo di definizione perché dà un giudizio di valore su una realtà che è già preesistente e quindi il giudizio è logicamente successivo.


lemond - 03/06/2010 alle 08:02

Dopo la decisione del TAS di estendere a tutto il mondo la squalifica di due anni di Alejandro Valverde non sono tardate ad arrivare le reazione dell'entourage del ciclista murciano. In un comunicato stampa rilasciato in serata si sottolinea come il TAS di Losanna abbia voluto specificare che tutte le vittorie di Valverde in questi ultimi anni sono state ottenute senza imbrogli e nel rispetto dei regolamenti antidoping: tuttavia la sanzione viene reputata ingiusta ed illegale e verrà fatto appello alla Corte Suprema Federale della Svizzera ed eventualmente anche alla Corte Europei per i Diritti dell'Uomo. [b]Proprio dove Luigi Lombardi Vallauri ha ottenuto il riconoscimento dei suoi diritti contro lo Stato Città del Vaticano :cincin: [/b] Anche la decisione dell'UCI di cancellare i risultati ottenuti dal 1° gennaio 2010 ad oggi viene contestata proprio per la conferma del TAS che questi sono stati ottenuti nel pieno rispetto delle regole. [b]Se l'U.C.I. fosse una cosa seria ... :OIO [/b]


lemond - 27/07/2010 alle 08:44

per chi non è più giovane ;) http://www.youtube.com/watch?v=8mQiRFgOiWQ&feature=PlayList&p=EF574BB5EFF1DCAD&playnext=1&index=106


lemond - 15/08/2010 alle 13:17

http://www.radioradicale.it/scheda/308686/cortina-incontra-2010-business-etica-oggi-sposi L'etica, l'economia e la politica, dal quale dibattito, secondo me, si evince che etica e politica sono insiemi che non si intersecano per niente, mentre per essere rigorosamente etici, basta fare il contrario di quello che dice la chiesa, rappresentata in questo caso da un certo padre Salvini.