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Autore: Oggetto: Fignon

Livello Greg Lemond
Utente del mese Gennaio 2009
Utente del mese Giugno 2010




Posts: 5660
Registrato: Mar 2005

  postato il 22/09/2009 alle 16:38

Nous étions jeunes et insouciants (XXXII)

Il trauma post-operatorio



Se il ciclismo, praticato ad alto livello, è uno dei più sicuri mezzi che l'uomo ha a disposizione per ottenere la felicità e per conoscere se stesso, è anche, e purtroppo, una potente fabbrica di *disillusioni* che alimenta la sua produzione senza avvertire prima.
Ci battiamo anche contro noi stessi, contro un immagine allo specchio, non solamente contro il tempo (ma io non stavo ancora contando a ritroso) e soprattutto contro il nostro fisico, del quale non abbiamo sotto mano tutti i parametri, purtroppo!
L'inizio della stagione 1985 fu conforme alle previsioni, quale piacere e gioia con la consapevolezza di portare sulla schiena in tutti i paesi del ciclismo il numero enorme del mio nuovo "status", in due parole: incanto ed euforia. E poi c'era quel sentirsi addosso una meravigliosa potenza fisica e che, dopo il Tour 1984, si stava appena risvegliando nei primi giorni di corse, perché il mio inverno era stato "delizioso" e mi ritrovavo in perfetta forma.
Con la mia maglia di campione di Francia avevo vinto il prologo della Stella di Bessège e la classifica generale della Settimana Siciliana, cinque tappe di puro rilassamento collettivo, fra le limonaie, gli uliveti, i palazzi di marmo e i templi dell'antichità. Si poteva affermare, senza tema di smentita, che le prime settimane erano state estremamente sodisfacenti. Manifestavo una tale pienezza che molti miei compagni non esitavano a congratularsi con me, ciascuno a suo modo, per come sapevo rassicurarli. Naturalemente ero rimasto me stesso.
Ma tutto ciò durò poco ... Dopo la Stella di B. in seguito ad un colpo ridicolo (avevo battuto su di un pedale) sentivo di frequente un dolore alla caviglia sinistra, poco importante, sembrava in apparenza, situato vincino al tendine di Achille. Appariva e spariva, ma diventava veramente intollerabile quando c'era da pigiare brutalmente su i pedali. Gli specialisti erano perplessi sulle cause, ma il fatto fu che, dopo una bella Freccia Vallone (3°) ed una L-B-L deludente (5°) dovetti fermarmi del tutto, perché anche gli allenamenti diventavano dolorosi, vere e proprie coltellate
Qualcuno credeva ancora ad una tendinite benigna, altri immaginavano una micro-rottura del tendine ed allora ho deciso di consultare il prof. Saillant, il massimo in questo settore (nota mia: come Morris nel forum ). Il verdetto fu che, ... in definitiva, bisognava operare! (Nota mia, tralascio i dati medico-chirurgici)
Mi ricordo di aver domandato al professore: "E' obbligatoria?" E lui mi aveva risposto: "Per un ciclista , sì." Sentenza senza appello. E quindi dovevo prendere l'unica decisione ragionevole: la chirurgia. Potevo rivoltare le cose in tutti i sensi, ma quello che usciva sempre fuori era che non esistevano altre possibilità e dovevo rendermi conto che il resto della stagione era ormai persa. Almeno quattro mesi di inattività: addio al Giro ed alla tripletta al Tour
Singolare destino, quello di uno sportivo di alto livello, alla mercé anche di una causa così piccola che produceva simili effetti. E l'operazione non era nemmeno superficiale. In confronto, quando Hianult era stato operato due anni prima, soffriva di noduli leggeri dietro il ginocchio, mentre il mio male era molto più profondo e per molti avevo aspettato troppo prima di farmi operare, l'unica possibilità per la guarigione.
Durante tutto questo periodo C. Guimard viveva molto male questo colpo del destino e, come aveva fatto con Hinault, depistava la stampa a destra ed a sinistra, raccontando quello che gli passava per la mente e, naturalemente, manteneva il dubbio. Fino alla L-B-L non aveva mai pronunciato il nome preciso del mio misterioso male e mi aveva chiesto di star zitto e far gestire a lui tutta la faccenda ... anche se ciò si rivelò controproducente. Anche l'annuncio della mia operazione, fatto attraverso un comunicato all'A.F.P. apparve come ingannevole. Infatti circolavano dei "rumori" al mio riguardo, rumori di doping evidentemente, secondo il principio di base, ma soprattutto "da brave persone" secondo le quali io passavo là dove era finito anche il mio "maestro" e quindi entrambi avevamo pescato lo stesso tipo di "anguilla sotto la roccia". Ero abbattuto, ma anche pieno di rabbia!
Non ho saputo gestire i mie rapporti con i media e mi sono maledetto per tampo tempo, per non aver detto subito a tutti esattamente quello che avevo nel momento stesso in cui mi era accaduto, perché forse in quel caso non ci sarebbero state quelle infami supposizioni. Ma per quell'errore (o mancanza, se si vuole) occorreva l'intervento del dottor A. Mégret (della Renault) per rimettere le cose a posto e affinché la stampa si potesse calmare un po'. Egli si spiegò una volta per tutte e le sue parole meritano di essere scritte: " Più di certe persone interrogate qui e là, io penso di conoscere la patologia delle diverse malattie e affezioni che posso colpire i ciclisti. In primo luogo è opportuno sottolineare che in entrambi i casi (Hinault e Fignon) si tratta di un'infiammazione "peritendinea" e non di una lesione al tendine. I due, essendo sottoposti a degli sforzi troppo importanti, per tante ragioni fisiche e meccaniche, hanno avvertito il dolore che sarebbe appunto il segnale che fa prescrivere a noi medici il riposo completo e poi un trattamento anti-infiammatorio. Purtroppo, nei casi che ci interessano, siamo di fronte a sportivi eccezionali per i quali non spetta a noi regolare l'attività e dopo, non essendo in grado di conoscere facilmente i guasti prodotti dall'attività proseguita (e che tipo di attività), l'unica possibilità è la chirurgia. Contrariamente a quello che molti fingono di credere, i controlli medici ripetuti, hanno impedito l'uso di anabolizzanti, prodotti che in effetti hanno provocato gravi accidenti in numerosi sport. Quanto a l'affermazione che l'uso di medicinali a base di cortisone è una causa diretta di simili affezioni, è un'eresia, cioè arci-falso. Il cortisone è prima di tutto un anti-infiammatorio e il suo utilizzo può provocare un'atrofia globale dell'insieme muscoli-tendini e non l'inverso ..."
Non volevo che il pubblico mi vedesse entrare all'ospedale mentre zoppicavo e non volevo neppure trasformare la mia operazione in un affare di Stato e neppure che mi fotografassero o filmassero in un letto d'ospedale. Forse era stupido, ma era comunque mio diritto, no? Il pubblico aveva un'altra immagine di me e di certo non quella di un uomo disteso su un lettino. Ed infine non volevo neppure che qualcuno venisse a compatirmi, sono sempre stato così: in caso di malattia volevo restare fra me e me.
In ogni modo è bene non esagerare, non era la morte di nessuno e l'operazione era perfettamente riuscita. Il prof. Saillant con i suoi assistenti , dott. Bénaze e Catone (nota mia, non conosco il prenome, ma non credo sia Marco Porzio ) agirono in modo tale affinché l'intervento avesse una durata minima, anche se l'apertura del tendine evidenziò un nodulo di una grandezza anormale. Due altri piccoli punti di rottura tendinea furono trattati con la solita estrema precisione e Saillant tolse completamente la guaìna, ciò che nessuno ha mai saputo.
Se avessi continuato senza operazione, con quelle fibre che tendevano a strapparsi ed a formare noduli, in poco tempo non mi sarei potuto più muovere e nessuno sforzo mi sarebbe stato consentito nemmeno se fossi diventato un cicloturista.
La rieducazione sarebbe stata lunga, almeno tre mesi, durante i quali avrei dovuto cercare di lavorare in progressione.
Nei giorni che seguirono l'operazione fui costretto a chiudere a chiave la porta della mia camera, perché un giorno un tipo, vestito da infermiere vi era potuto entrare, non ho mai compreso come si possa voler e in quale misura, violare l'intimità della gente :-(((
Ero ingessato, ma il morale restava buono e, da ottimista, rifiutavo l'angooscia del futuro ed in nessun momento sono stato inquieto sul mio avvenire sportivo. Qualche giornalista mi suggeriva, talvolta :" E se tu non ritornassi ad essere ..." ed io ridevo di cuore, perché ero convinto di guarire e B. Hinault aveva dimostrato l'anno precedente che un grande campione poteva ritornare in vetta dopo un'operazione importante.
Perché drammatizzare? Non avevo che 24 anni ed alla mia età tutto era ancora possibile.
Intanto approfittavo delle mie lunghe ore per leggere; e poco prima l'inizio del Tour 1985, che avrei guardato alla televisione, avevo finito "L'Amante" di M. Duras ed era l'epoca nella quale meditavo spesso su una delle frasi più strane di J. Anquetil :" Se ti limiti a vincere, tu avrai soltanto il tuo nome nelle statistiche, ma se tu convinci, avrai diritto ad entrare nel libro dell'immaginario."
Ebbene ... molto grande era la mia ... IMMAGINAZIONE.

 

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e i barbieri il lunedì

"Per principio rifiuto di sottopormi a questi controlli. Non sono ostile alla lotta al doping, che ritengo indispensabile tra i dilettanti, ma nel caso di professionisti è differente. Dopo 12 anni di carriera io so quello che devo fare e non voglio che una mia vittoria venga messa in dubbio dalla fantasia delle analisi".

(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

Non riesco a comprendere perché Morris non sia assunto da nessuna rete telvisiva come opinionista

 
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Livello Greg Lemond
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  postato il 24/09/2009 alle 07:32
Nous étions jeunes et insouciants (XXXIII)

Uscita di strada per la Renault



Un detto popolare afferma che un male non viene mai solo ed infatti, mentre cominciavo appena a camminare, alla fine di giugno, ed ero felice di ritrovare l'aria e la respiravo a pieni polmoni ed anche gli occhi ne traevano conforto, che C. Guimard mi annunciò una cosa improbabile e cioè la peggiore notizia possibile, che mi lasciò in un immenso oceano pieno di perplessità. I dirigenti della Renault gli facevano sapere che la Régie avrebbe cessato alla fine del 1985 tutti gli impegni sportivi. Niente più squadra ciclistica, miente più F1. E, mi potete credere, fu un trauma nazionale"
Questo ritiro il pubblico lo conobbe il 25 luglio, quattro giorni dopo l'arrivo del Tour e mise fine ad una delle più belle avventure collettive che il ciclismo abbia mai conosciuto. Per Cyrille fu un periodo di panico, senza sponsor l'avvenire era compromesso ed il tempo per trovarne uno nuovo era "contato". Per fortuna la maggior parte dei corridori aveva deciso di aspettare fino a settembre prima di impegnarsi altrove; evidentemente avevano tutti fiducia. Ma i contatti per rimpiazzare Renault in questo periodo di vacanze non erano numerosi e molti cercavano di approfittare della situazione per farsi un po' di pubblicità gratis. Con il passare dei giorni la tensione aumentava e finì per riversarsi sul morale della squadra. Il mio amico Julot che viveva un periodo pieno di "fesserie" di tutti i generi era sul punto di rompere con Guimard e il loro disaccordo finirà per diventare irrimediabile.
Guimard gestì piuttosto male la situazione e perdeva facilmente (quasi sempre) il sua proverbiale sangue freddo. Prima dell'annuncio brutale della Renault, aveva sempre saputo emanare tranquillità, poi si è subito visto un altro uomo. In ogni modo bisognava trovare una soluzione alla svelta. Evidentemente la qualità dei nostri effettivi e la reputazione della squadra non lasciava gli sponsor indifferenti ed abbastanza rapidamente il presidente della RMO, Marc Braillon fece una proposta a Cyrille, ma subito avevo compreso che si trattava di un'offerta troppo lontana dai nostri "desiderata": la differenza era di 5 milioni di franchi e poi non era nemmeno chiaro quanto ci avrebbero compensato per le prestazioni eccellenti che avremmo fatto. Ma Guimard, pur preso alla gola, voleva accettare, perché credeva di non trovare niente di meglio.
Durante tutto questo periodo Cyrille mi aveva sempre portato con sé alle discussioni, in quanto rappresentavo la vetrina della struttura: avevo un nome e un prestigio da difendere e da far valorizzare e il duplice vincitore del Tour, quale ero, non credeva assolutamente nella possibilità di accettare la proposta di Braillon. Era, per me, un mercato degli "imbrogli" ed in tutti i casi non potevamo accettare qualcosa troppo al di sotto del nostro valore notorio. E, non avendo appunto fiducia, ho finito per dire a Guimard: "Vedrai che ci daranno 10 milioni e nulla di più e ciò non può andare, non sono d'accordo, occorre continuare la ricerca."
Allora mi son messo a riflettere su un tipo differente di organizzazione e gli dissi: "E se formassimo noi stessi una squadra di professionisti? Mi rammento, come fosse ora, che egli non capiva quello che stavo dicendo, ma la mia idea era semplice: si costituiva una struttura per vendere la pubblicità che le nostre maglie rappresentavano e l'avremmo venduta al prezzo che avremmo deciso e non basato soltanto sul costo di una squadra di ciclismo. La mia idea era duplice e cioè che la nostra struttura dovesse essere la proprietaria e quindi le sarebbe spettati tutti i ricavi e sarebbe anche stata il solo "patron" sportivo della squadra ciclistica. Lo sponsor avrebbe acquistato solo lo spazio pubblicitario.
Alla fine Guimard comprese bene la sottigliezza della mia idea, ma non ci credeva: "Tu sei pazzo, nessuno accetterà un affare così!"
Tradizionalmente era la legge del 1901 che regolava la costituzione di una squadra ciclistica ed lo sponsor ne era il proprietario e poteva nominarne il presidente, che di solito era una persona della sua impresa. Il gruppo sportivo era totalmente dipendente da ogni "salto d'umore" dello sponsor Con la formula che tentavamo di inventare l'impresa al comando sarebbe stata quella sportiva.
Cyrille ha ceduto e noi abbiamo creato l'associazione sportiva France-Competition con un'agenzia pubblicitaria collegata (Max sport promotion) ed entrambe sarebbero state dirette da Guimard e me stesso (in parti uguali). Eravamo diventati ufficialmente i "patron" abilitati a mettere i corridori sotto contratto per una durata determinata ed in questo modo eravamo arrivati alla nostra piena autonomia, restavo solo da trovare uno sponsor adatto per le nostre esigenze e, se questo si fosse, prima o poi, ritirato, un altro che lo avrebbe sostituito. Nel 1986 era una rivoluzione, ma poco dopo tutte le strutture ciclistiche copiarono questo sistema ed io rivendico la paternità del nuovo metodo che ha preso il nome di "Guimard-Fignon" e ne ho ben donde.
Cyrille aveva ben compreso anche il nostro interesse finanaziario, perché se un Sponsor versava 15 milioni di franchi e se, per ipotesi, Maxi Sports ne spendeva meno per le spese della squadra, rispettando naturalmente gli impegni presi, la differenza sarebbe rimasta nelle nostre casse.
Grandezza e perversità del sistema: ben presto Guimard si sarebbe messo a contare i suoi soldi come paperon de paperoni e sorrideva alla nostra bella idea di sovranità. Avevamo anche utilizzato una delle mie società inattive e beneficiato di vantaggi fiscali accordati ai S.A.R.L. (nota mia: acronimo di cui non conosco il significato), cioè tre anni di esonero dalle imposte. Avevamo già fatto dei profitti senza sborsare un soldo, una vera gallina dalle uova d'oro.
Si presentò una straordinaria opportunità con la società Systeme U, che fu per alcune settimane, in concorrenza con Cetelem, ma con S.U. fu un sogno, il genere di concordia rara e quantomai preziosa, incarnata dal suo PDG J.C. Jaunait. Non soltanto firmò, felice, per 45 milioni di franchi in tre anni, ma fu ben contento di accettare la nuova formula che gli avevamo proposto. Jaunait, un vero appassionato di ciclismo, aveva avuto già un'esperienza, non troppo concludente, nel 1984, ma riteneva di aver imparato da quella lezione. Se si vuole entrare nel ciclismo occorre farlo al massimo livello, altrimenti si rischia di non apparire e poi non possiamo essere costretti ad occuparci degli aspetti tecnici. La nostra associazione era proprio quello che gli conveniva, così come a C. Guimard che da questa associazione avrebbe avuto tutta l'autorità e tutta l'indipendenza che desiderava e naturalmente anche la fiducia di tutti noi.
Senza Jaunait forse non avremmo mai dimostrato al mondo del ciclismo che un tale metodo era fattibile ed anche molto efficace. Dalla firma del contratto, Cyrille ed io ci versavamo un salario mensile pittosto buono fra 100 e 200mila franchi, secondo i nostri bisogni, Maxi sport produceva profitti e tutti eravamo contenti. Su richiesta di Jaunait ho personalmente disegnato la maglia della squadra, utilizzando gli stessi colori della Renault, con delle forme diverse. La mia idea era di far apparire il corridore un po' più slanciato e bisogna dire che ci sono riuscito, inoltre si vedeva bene il logo della ditta, la famosa U rossa. Vista dall'elicottero si vedeva solo quello.
Quando abbiamo presentato ufficialmente la squadra nel novembre 1985, tutti eccitati nelle nostre nuove maglie, avevamo il sentimento di una rinascita e di una serenità creativa ed allo stesso tempo prodigiosa. Mancava però qualcuno per il mio completo ben essere: Pascal Jules non era più con noi. Malgrado i miei tentativi ripetuti non ero riuscito a farlo riconciliare con Guimard, che a sua volta non voleva più nemmeno sentirlo nominare. Era anche una mia sconfitta. E purtroppo per lui, andando in una squadra spagnola, avrebbe visto la sua carriera ben presto distrutta.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




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Registrato: Oct 2003

  postato il 24/09/2009 alle 10:29
L’enorme e peculiare lavoro di Carlo “Lemond”, ci consegna un personaggio che sta insegnando ciclismo, cultura, sport. Non uno che ha scritto un libro, come quasi tutti nell’ambiente sportivo, lasciando al giornalista che ne raccoglieva racconti ed echi, il compito di inquadrare e svilupparne i contenuti.
Laurent Fignon ha scritto di suo pugno: è lui che racconta, disquisisce e produce filosofia. La sua è un’opera vera, perché condensa in un unico magnifico blocco, la tecnica della sua disciplina a mo’ di “Prendi la bicicletta e vai”, col romanzo; la storia e la disamina dei fatti e le loro contraddizioni, con la psicologia dell’atleta, la cultura più generale, fino a donarci un approfondimento credibile, perché realmente vissuto, sull’impatto della fama che il protagonista dello sport deve accettare, digerire e, spesso, persino subire. Ne esce un monumento, che stabilisce una sottile ermeneutica, sovente impercettibile, proprio perché profonda e non contaminata dall’ipocrisia.
Il Fignon, che grazie a Carlo ci giunge gratis, va letto dai più giovani, da quelli che si spolpano fegato, cuore e persino cervello, sulle onde di una disciplina che nella iper-mediocrità dei suoi personaggi odierni, spesso semina sterco. Lui è una luminosa eccezione che ha partorito un sunto da proporre alle università: dalle facoltà di “Scienze Motorie” a quelle di “Scienze della Comunicazione” e di “Lettere e Filosofia”. In fondo di letture così piene di realismo e di vissuto provenienti da protagonisti dell’attualità, perlomeno le università italiane, non è che ne propongano a iosa.

Per quanto mi riguarda, leggendo ciò che “Lemond” ci propone (a cui dovremmo tutti essere infinitamente grati, anche se taluni non lo ammetteranno mai), ho avuto la riprova dell’intima convinzione di una superiorità dell’istinto sulla ragionevolezza. Iniziai a tifarlo la prima volta che lo vidi, il 15 marzo 1983, quando vinse di forza la tappa di Acquaviva Picena alla Tirreno Adriatico. Mi piaceva atleticamente e mi conquistò quando, tra le righe dell’asfissia del “mosersaronnismo”, potei capire che era un personaggio unico in quel mondo: per intelligenza, cultura e non conformismo.
Ciclisticamente, è l’unico ad aver dominato un Tour de France, col fare di Eddy Merckx e le sue punte (1984), non la mediana, sono state superiori a tutti i grandi connazionali: per intenderci stanno comodamente fra i primi cinque dell’intera storia del pedale.

Ma c’è un altro aspetto che esalta una mia convinzione, potrei dire di sempre: è un figlio di quella Francia che, quando crede, sa essere paese fascinoso come nessuno. E non è un caso se, fra le “teste pensanti” più grandi, aggiungo le primissime mai piovute sul povero ciclismo, ci siano due francesi: Laurent e Jacques Anquetil. Di quest’ultimo, Fignon porta (e la studia) una frase che mi era solo in parte conosciuta (e quindi travisabile): “Se ti limiti a vincere, tu avrai soltanto il tuo nome nelle statistiche, ma se tu convinci, avrai diritto ad entrare nel libro dell'immaginario”. Se studiassimo un po’ meglio i contenuti della massima di Jacques, capiremmo il perché della grandezza superiore di taluni nello sport, piuttosto che altri dal curriculum infinito. Meravigliosi entrambi.

…Ed aspetto la traduzione di Carlo sul 1987, per pubblicare quello che quasi due mesi fa ho scritto per una risposta. Non per polemica, anche di fronte alle inesattezze, ma per rispetto versi un uomo che sta dimostrando, col suo libro, di essere quanto di meglio, il ciclismo e lo sport in generale, abbiano fatto incontrare ad un poveraccio come me.

Mi son lasciato prendere la mano ed ho scritto troppo: “vaffa…” ai censori e “grazie” a chi si è addormentato.

 

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"Non discutere con gli stupidi, perchè scenderesti al loro livello e ti batterebbero per la loro esperienza".

 
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Livello Greg Lemond
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  postato il 24/09/2009 alle 17:40
Nous étions jeunes et insouciants (XXXIV)


Dare un valore nuovo alle sensazioni, riscoprire il linguaggio del corpo lasciato troppo tempo a riposo, stringere i denti e non riuscire ad arrivare là o, se sì, a quale prezzo.
Sono rimontato in bici, dopo l'operazione, all'incira nei giorni del campionato di Francia e il mio traguardo in quel momento non era certo di ritornare ad essere un campione, bensì ridiventare un semplice ciclista; sapere di nuovo far girare le gambe e restare "in piedi" per tanti Km; compito quasi impossibile.
Non ho molti ricordi del Tour 1985, del quale ho comunque seguito una tappa, quella fra Autrans e Saint-Etienne. In quel mese di luglio B. Hinault divenne un mito del ciclismo: secondo nell'ottantaquattro, vincitore l'anno dopo, niente da aggiungere; la sua forza di vita era ancora là, intatta. Competitore geniale, violento, generoso e aggressivo e in quei due anni il ciclismo avrebbe conosciuto, anche senza saperlo, una specie di apogeo suggestivo, uno zenith di bellezza, insomma un'età d'oro che non riverrà più.
Appena ritornato a casa ho ripreso ad allenarmi, si fa per per dire, perché era la parodia dell'allenamento ed in effetti la mia prima vera uscita fu un vero incubo. Ventiquattro Km, non uno di più ed era terribile, avevo l'impressione di debuttare nel ciclismo, perché non avevo gambe in quanto le muscolatora era atrofizzata, ero solo una "carcassa" smenbrata, male in posizione su un mezzo che non voleva andare aventi
Dopo la doccia mi sono toccato la parte operata e, al posto della cicatrice, sentivo una specie di tasca ripiena di acqua. Quando ci passavo le dita nessun muscolo reagiva ed ho pensato che per me fosse finita. Non potevo appoggiarmi sulle gambe, nemmeno per camminare ed anche i gesti che dovevo fare nella vita quotidiana erano complicati. E poi, al minimo sforzo, mi sentivo affaticato, quasi spossato.
Ma bisognava tuttavia insistere, avere il coraggio di sopportare il dolore, perché era proprio quello il momento nel quale si deve cercare il massimo dentro di sé, darsi le ragioni per crederci e quindi buone ragioni per soffrire. Superare quei momenti, costi quel che costi, perché sopravvivere è una necessità della vita.
Ero andato a stare al sud, a Nimes, per cambiare aria e, con il vento contro, non mi riusciva di progredire ed infatti i cicloturisti che non mi riconoscevano, mi staccavano senza nemmeno rendersene conto. Piano piano però, malgrado tutto, i km si sommavano ed ogni giorno mi sembrava di reagire e non mi ponevo domade superflue. Avevo forse paura dell'avvenire? Non lo so, ma non credo.
Dopo, mi rammento, di essere andato a fare esercizi da A. Mégret, il medico della squadra ed infatti dedicavo molto tempo alla rieducazione, perché la caviglia era rimasta per troppo tempo in "discarica" e il ritorno ad una flessione normale è stato lungo, molto lungo.
E se devo dirlo, confessarlo, ormai: non ho più ritrovato la flessibilità di prima, sarebbe sempre mancato qualche grado ed è inutile dire che questo fatto avrà delle conseguenze su prosieguo della mia carriera.
Devo fare anche un'altra confessione: durante la convalescenza ho contratto anche uno stafilococco, esattamente là dove l'impatto con il pedale aveva lasciato delle tracce durevoli. In effetti, durante le prime settimane di dolore, avevo ricevuto numerose infiltrazioni che avevano finito per bruciare la pelle in modo tale che, quando Saillant mi ha operato, la cicatrizzazione fu molto delicata e per parecchio tempo, quando si doveva pulire la piaga, si scopriva addirittura il tendine, era un vero e proprio invito allo stafilo ...
Tutto ciò non l'avevo mai detto prima, ma il professore dovette operarmi di nuovo per ripulire il tutto e questo mi ridette il morale. Saillant, da parte sua, mi aveva detto: "Ormai dipende solo da te" e questo mi dava fiducia, forse sarei potuto ritornare ad essere il "capitano di bordo" e che tutto sarebbe andato bene. Un giorno, in allenamento, vedendo che avevo delle buone sensazioni, mi sono detto: "Via, tu stai diventando lo stesso uomo." Errore! Perché se anche le gambe erano ritornate dello stesso volume di prima, ma d'altro canto, anche se non me ne sono reso conto subito, avevo perso gran parte della mia forza/potenza. Lo sentivo poco per il momento, specialmente quando ero in forma, ma molto spesso era flagrante che mancava parecchia forza alla mia gamba sinistra. Fino alla fine della mia carriera fu un handicap del quale non ho mai parlato, ma ritrovare la stessa mobilità meccanica è stato un sogno mai raggiunto.
Dopo essermi allenato sulla pista dell'INSEP, al riparo da ogni sguardo ed anche da eventuali intemperie , sono ritornato alle corse ufficiali nel gennaio 1986, alla sei giorni di Madrid. Niente di meglio della pista per far girare le gambe e lavorare sull'elastictà dei muscoli.
Gli organizzatori mi chiesero di partecipare ad un inseguimento (di esibizione) contro J.L. Navarro, campione di Spagna. L'ò battuto, ma venendo a complimentarsi, è caduto e mi ha trascinato con sé. Bilancio: ferita alla testa e clavicola rotta, per fortuna senza spostamento. Per una ripresa fu una bella ripresa
Dopo ho alternato i cattivi momenti ai buoni, perché sono ottimista di natura fino al mio vero ritorno (su strada) al T. del Mediterraneo, dove, a sorpresa generale (compreso il mio stupore) sono arrivato quinto nella cronoscalata del Monte Faron, una bella sodisfazione.
L'inizio di questa nuova stagione non assomigliava per nulla ad un inizio banale, era tutt'altra cosa che sentivo dentro di me, anche se confusamente, qualcosa che andava al di là di ciò che appariva da tutti i miei atteggiamenti. Era una po' un "metanoia" (nota: parola che uso io, per tradurre, non alla lettera "refondation"). Avevo in me molta serenità, ma, come dire, ero bruscamente invecchiato e forse maturato.
I ciclisti che vedevo intorno, mi sembravano talvolta stranieri; essi mi parlavano ed io li ascoltavo, ma quel che dicevano mi parevano cose insignificanti e quindi senza interesse per me. Non saprei spiegare meglio ciò che stava passando in me durante questo periodo, quello che so è che fu un punto che rappresenta una specie di "cerniera".
Una porta aperta ed al contempo chiusa, ma non può restare indefinitamente così, per cui bisogna fare qualcosa: aprirla o chiuderla? Questo era il mio dilemma, allora. Ma l'essenza riguarda sempre i tempi lunghi e per intanto mi lasciavo trasportare da quel che ero diventato: un uomo molto più serio. E ciò dipendeva solamente dai miei errori? O era l'operazione che aveva provocato l'apertura di un nuovo capitolo? Oppure era il ciclismo che cambiava in modo così brutale.
Nella squadra (Sisteme U) avevamo avuto la fortuna di conservare l'essenziale dell'ossatura della Renault e questo mi aiutato a raggiungere presto un livello accettabile, ma vedevo che le mie sensazioni erano limitate. Tuttavia ero pressato, anzi molto pressato. I miei collaboratori mi mettevano logicamente in guardia contro le aspettative surrealiste che potevo farmi e d'un tratto ho compreso l'inevitabile realtà; ci sarebbero voluti almeno sei mesi, forse otto, per ritrovarmi completamente. Mi rammento di aver immaginato una "stagione bianca" e ciò mi ha molto impaurito.
Ero diventato un buon corridore, fra gli altri, ma nulla di più, mentre il campione, colui che riusciva a raggiungere velocità superiori, (come lo avevo fatto con facilità nell'ottantacinque) aveva preso congedo
Gli ottimisti erano contenti di vedermi da per tutto, pur non essendo più niente, ma d'altra parte in definitiva che cosa è un campione eccezionale? ... Se non l'eccezione?

 

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"Per principio rifiuto di sottopormi a questi controlli. Non sono ostile alla lotta al doping, che ritengo indispensabile tra i dilettanti, ma nel caso di professionisti è differente. Dopo 12 anni di carriera io so quello che devo fare e non voglio che una mia vittoria venga messa in dubbio dalla fantasia delle analisi".

(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Moderatore




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  postato il 25/09/2009 alle 02:29
Certo che leggendo il contenuto di quest'ultimo post appare incredibile pensare che Fignon dopo un infortunio così serio (e francamente non sapevo che avesse avuto un problema simile) sia stato capace di vincere tra le altre corse un Giro d'Italia e due Milano-Sanremo, oltre ad arrivare secondo al Tour per un'inezia.

Mi ha colpito poi questo pezzo:

Originariamente inviato da lemond

Nous étions jeunes et insouciants (XXXIV)

sono ritornato alle corse ufficiali nel gennaio 1986, alla sei giorni di Madrid. Niente di meglio della pista per far girare le gambe e lavorare sull'elastictà dei muscoli.


Ah...la pista! Fignon quindi (tralasciando l'incidente in quell'occasione che lui stesso raccconta) aveva individuato anche i vantaggi che potevano derivare da un'attività non praticata su strada ma che a questa sarebbe tornata utile, se è vero che in una delle "puntate" precedenti egli diceva come avesse praticato anche il ciclocross nel periodo invernale.

Piccola parentesi: ma sbaglio o il professor Saillant fu colui che operò anche Marco Van Basten?

 

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Vivian Ghianni

"...L'importante non è quello che trovi alla fine di una corsa.L'importante è ciò che provi mentre corri." (Giorgio Faletti in "Notte prima degli esami")

 
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Livello Greg Lemond
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  postato il 25/09/2009 alle 07:53
In effetti sia Laurent che Greg sono stati bersagliati alquanto dalla mala sorte ed a me dispiace, per una volta, di non conoscere l'inglese per poter leggere anche il libro scritto da quest'ultimo, perché penso che da questi grandi uomini si possa imparare molto e non solo di ciclismo
Non so se J. Anquetil abbia lasciato qualcosa ai posteri, perché nel caso ... Ciao, Maurizio.

P.S.

Anche Andrea (Abaja) avrebbe piacere di organizzare un incontro

 

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"Per principio rifiuto di sottopormi a questi controlli. Non sono ostile alla lotta al doping, che ritengo indispensabile tra i dilettanti, ma nel caso di professionisti è differente. Dopo 12 anni di carriera io so quello che devo fare e non voglio che una mia vittoria venga messa in dubbio dalla fantasia delle analisi".

(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Fausto Coppi
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  postato il 25/09/2009 alle 09:21
Originariamente inviato da Abruzzese
Piccola parentesi: ma sbaglio o il professor Saillant fu colui che operò anche Marco Van Basten?


Il francese Gerard Saillant, il belga Marc Martens e lo svizzero Rene Marti, sono gli storici specialisti del settore.
Saillant e Martens, nel caso Van Basten, furono consultati, ma le due operazioni alla caviglia le svolse Marti presso la Clinica di St Moritz.
Saillant è quello che ha riportato al calcio, due volte, Ronaldo.

 

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"Non discutere con gli stupidi, perchè scenderesti al loro livello e ti batterebbero per la loro esperienza".

 
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Livello Fausto Coppi
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  postato il 25/09/2009 alle 12:09
A chi lancia accuse (ed offese) fumose, generalizzate, sparando nel mucchio, ingigantendo e non contestualizzando situazioni, smentito da Guimard e Lemond, etc etc etc... non concedo licenze poetiche di sorta.

Inutile dire che rispetto le posizioni di tutti coloro che lo dipingono come persona di onestà ed intelletto inconformista senza pari, tuttavia non le condivido, perlomeno non nella stessa misura, non oggi, non per il libro. Io, come molti altri che non hanno modo o voglia di ribadirlo in "salotti" (in senso buono ovviamente, il lavoro dell'utente lemond è encomiabile) come questo. Persone che fino a pochi mesi fà non perdevano occasione di ricordare e celebrare con gioia ed orgoglio l'aver potuto veder correre (qui si pagandolo) un grandissimo campione d'oltreoceano, quale Fignon è indubbiamente stato, coi propri occhi e sulle proprie strade. Lo facevano spesso e volentieri, nonostante i parecchi anni trascorsi. Rispetto ed ammirazione che ha disatteso in maniera misera e subdola. In certi apparenti "successi popolari", seppur interessatamente localizzati, di qualsiasi genere essi siano (intellettuale, culturale, letterario compresi), francamente non vedo onore.

Anche se ormai non si può più tornare indietro, aggiungo che a mio avviso una discussione / polemica in questi termini non si sarebbe dovuta sviluppare ora, in un momento dove per qualsiasi uomo minimamente sensibile non possono esserci, inconsciamente o meno, la serenità ed il distacco emotivo necessari né per assestare una serie di montanti come quelli di Fignon probabilmente, né tantomeno per interpretarli e giudacarli con imparzialità e completezza.

Concludo respingendo gentilmente al mittente, per il quale nutro comunque grande stima e leggo sempre più che volentieri (anche nei tanto contestati interventi faronici), certe inutili ed immotivate frecciatine tra le righe, nel caso fossero indirizzate al sottoscritto s'intende.

Credo che il mio pensiero sia sufficentemente chiaro (ed ancor più il mio sincero malessere nel ritornare sull'argomento) da consigliarmi e consentirmi, allo stato (immutato) attuale delle cose, una saggia ritirata strategica dal thread, per il bene di tutti.

Buona lettura.

 

[Modificato il 25/09/2009 alle 12:14 by faxnico]


 
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Livello Greg Lemond
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  postato il 25/09/2009 alle 15:57
Nous étions jeunes et insouciants (XXXV)

Che gioia!


Come in certi rituali semplificati, che passano al di sopra di tutta la filosofia, i giorni si succedevano, schiavi di loro stessi, ma così non poteva andare avanti, perché la debolezza fisica si ripercuoteva anche sull'aspetto psicologico-mentale ed il fatto che io fossi diventato indeciso, mi rendeva ... perché non era proprio nella mia natura!
Il 1° aprile (che ironia ) fece riaccendere una piccola fiamma attraverso la corsa Paris-Camembert, Blondin avrebbe detto nella sua cronaca che quel giorno si era verificato qualcosa di prodigioso, di quasi incredibile. Un evento del quale non mi sono mai vantato, è il meno che possa dire ... e le foto lo possono testimoniare. In esse si vede il danese K. Andersen vincere la corsa ed io, non lontano, pieno di collera, che colpisco il manubrio e mi sono anche fatto molto male alla mano.
La spiegazione era che eravamo in fuga lui ed io; il danese era un uomo forte sul passo, bel corridore in generale, ma poco rapido nello sprint a causa del suo fisico troppo massiccio. E quindi pregustavo già la prima vittoria dopo l'operazione, la fine del calvario, il primo grido di gioia dopo una lunga agonia di dolore che era durata quasi un anno. Battere Andersen allo sprint sarebbe stato solo una formalità, anche dopo tutto quello che mi era successo.
All'ultimo Km lui non tirava più ed io sono rimasto davanti senza stare per niente in guardia, perché il mio animo divagava, era altrove, fuori dalla realtà, senza naturalmente sapere il perché. Mi ricordo perfettamente come in un certo momento mi sono domandato quale sarebbe stato il modo migliore di alzare le braccia ed anzi fu quasi un'ossessione, perché ripetei questo gesto mentalmente una, due, tre volte; insomma ero già là. Devo aggiungere che una gioia immensa si era impadronita di tutto il mio essere ed ero allegro come un ragazzino che vive i suoi più bei momenti. Dimenticate le sofferenze, dimenticate le corse non fatte e il Tour partito senza di me. Felice e sodisfatto.
E intanto, senza avvertire (evidentemente ) Kim ha piazzato un'accellerazione brutale ai 300 m.
Devo confessare la verità? Il tempo è passato, ma l'onta resta intatta: mi ero completamente dimenticato dov'ero, come ho già detto, mi trovavo altrove, anche se ricordo benissimo come si sono "svolti i fatti". Egli è partito e l'ò visto passarmi a doppia velocità, per cui ho pensato: "Ma che fa quello lì?"
La mia euforia anticipata era stata sanzionata, perché quando ho reagito non sono riuscito a riprendergli quei trenta metri che gli avevo lasciato. Aveva vinto ed io non potevo nemmeno dire che era stato un errore da debuttante, perché nemmeno uno "alla prima corsa" si dimentica del suo avversario no, in questo caso c'era bisogno proprio di uno psicanalista!
Per rimettermi da questo episodio grottesco, ci voleva proprio una classica coma la Freccia Vallone che a quell'epoca era ancora una grande corsa: più di 240 km, mentre ora non raggiunge i 200. Alt alle cadenze infernali, ci si giustifica, ma è ridicolo, perché la distanza non è mai stato un incitamento al doping e la prova è: da una quindicina d'anni le corse sono sempre più corte, e si sono anche visti i peggiori eccessi. Io, l'ò già scritto, amavo le corse lunghe e selettive, perché molti corridori riescono ad arrivare bene fino ai 200 Km, ma 240 o più è un'altra storia e in questo caso, di solito, si opera una naturale selezione. Quindi non è la Freccia Vallone di oggi che io sarei andato a dominare quel giorno con una tattica quasi perfetta. Ad un certo momento in testa c'era un gruppo "reale": Kelly, Zoetmelk, Goltz, Rooks, Van der Velde, Leclerc, Lemond, Nevens, Mottet, Criquelion, Andersen e qualcun altro. Io ero in un secondo gruppo, all'inseguimento insieme ad Hinault, Delgado, Yvon Madiot e Zimmermann. Siamo rientrati e sulla "cote" di Gives l'amico Andersen, che aveva vinto già nel 1984, ha attaccato in modo molto più bello che alla Paris-Camembert ... Approfittando di un momento d'incertezza generale, ho messo il rapportone e ho deciso di inseguirlo. Nessuno ha preso la mia ruota e noi abbiamo continuato da soli per una sessantina di Km. Inutile dire che non avevo nessuna voglia di arrivare allo sprint e quindi ai piedi della "cote" di Ben Ahin, a circa 10 km dal traguardo, ho riunito tutte le mie forze, per partire all'assalto e ... mi sono ritrovato poi a salire da solo il muro di Huy.
Il 16 aprile 1986 riuscivo a mettere fine ad un periodo di insuccessi durato esattamente 386 giorni. L'ultima volta che avevo sentito l'odore di un mazzo di fiori era stato al prologo del Tour dei Midi-Pirenei, più di un anno prima, un abisso!
Quel giorno mi sono detto: sono ritornato. Se ci ripenso ora, so di non essere stato troppo onesto con me stesso, perché, malgrado la vittoria, sentivo che mi mancava ancora qualche cosa, ma non volevo pensarci e mi sforzavo di credere al meglio.
Con questo spirito di riconquista sono partito per la Vuelta: muscoli gonfi, speranze reali. La stampa iberica mi designava come il favorito logico e per un po' ci ho creduto veramente ed il prologo, vinto da T. Marie, mi confortava in questa previsione perché ero arrivato quinto, subito dopo A. Bondue, una prestazione di gruppo molto sodisfacente.
Durante la IV tappa ero già in seconda posizione nella classifica generale, ma il cielo mi crollò addosso, in quanto sono caduto in modo piuttosto grave. Battei il ginocchio, ma soprattutto il torace, con cinque costole incrinate e spostamento della pleura; tutto era ritornato ad essere nero!
Ho commesso un gravissimo errore e Guimard non avrebbe dovuto cedere alle mie insistenze assurde e cioè voler continuare. Io pensavo che sarebbe stato opportuni accumulare i Km per ritrovare la forma, visto che ero alla Vuelta, perché ritirarsi per andare ad allenarsi altrove tutti i giorni? Mi dimenticavo però che non sapevo restare razionale nelle grandi prove e mi sono impegnato per aiutare C. Mottet, che era ben piazzato nella generale, senza pensare agli effetti che si producevano su di me. Avrei dovuto abbandonare e lasciare che tutto si riassorbisse in tranquillità.
A Madrid ho finito 7°in classifica e primo francese che, in teoria non era un "exploit" non da poco, viste le circostanze, ma gli effetti si sarebbero rivelati disastrosi, anche se al momento non ne avevo coscienza. Il mio potenziale fisico, appena rimesso dopo un lungo arresto, ritornava ad essere molto indebolito.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 28/09/2009 alle 16:14
Nous étions jeunes et insouciants (XXXVI)



Era il momento della stagione allorché non sapevo più chi ero e soprattutto qual era il mio stato, era forse Laurent Fignon solo un nome?
Ripetevo, come una macchina, i miei soliti gesti quotidiani, da buon professionista o come un burattino animato soltanto dall'abitudine. Far questo e/o quello (nota mia: per me pari sono ). Pedalare, fare i massaggi, dormire, ricominciare. Tutti questi atti scivolavano su di me, senza che neppure me ne accorgessi; era insomma, il peggiore degli oltraggi: non essere più padrone di me stesso.
Avevo esagerato, perché metalmente avevo dimenticato l'operazione, ma il mio corpo mi richiamava quei ... ricordi.
Leader di una formazione intieramente basata sulla mia personalità, dovevo dare l'esempio in tutte le occasioni, in bici, ma anche nella vita di tutti i giorni, ma, come ho detto, poche cose andavano bene per me e dunque fui abbastanza stupito del mio risultato al prologo del Tour 1986 a Boulogne-Billancourt. Quel giorno tutti attendevano il mio ritorno ed ho finito settimo, che costituiva non solamente un risultato onorevole, ma prometteva delle belle pagine da scrivere per uno che ritornava da una stagione ...
Qualcuno si entusiasmò, addirittura, ma io sapevo che nel prologo avevo fatto fronte con la mia classe, ma per il resto mi sembrava non andasse niente, non avvertivo nessuna sensazione di forma, solo coraggio e determinazione feroce (nota mia: un po' come Cunego ieri ).
Ed era grave, perché il mio corpo manifestava più debolezza che forza.
L'illusione durò fino alla cronosquadre, fra Meudon e Saint-Quentin che noi abbiamo vinto. T. Marie prese la maglia gialla ed io terzo nella generale. Tutto sarebbe sembrato al meglio, se non che avevo fatto degli sforzi enormi per seguire i miei compagni e cercare di fare la mia parte e non mi sembrava per nulla normale. I miei compagni (che non sapevano) non avevo dubbi e L'Equipe pronosticava una bella bagarre, in prospettiva, fra Fignon, Hinault e Lemond ed aggiungeva che tutto sarebbe dipeso da Fignon. Se è ritornato lui, non cercheremo per molto tempo il nome del futuro vincitore.
Come si vede non mi confidavo con nessuno ed anche Guimard, a cui non potevo mentire, mi credeva in forma normale quando gli dicevo che mi sentivo le gambe di cotone. Ma lui era convinto che ci sarebbe stato il "clic" al momento opportuno, immancabilmente.
Il ritorno alla realtà fu violento. Nella cronometro individuale di Nates (61,5 Km) dovetti bere la tazza (del fiele) fino in fondo. Asfissiato, avevo male da per tutto e non andavo avanti, 32°, indegno del mio rango, l'organismo non ne poteva più e d'altra parte ci sono monumenti crollati che non è possibile ricostruire da un giorno all'altro, la pazienza si impara in misura del dolore.
Nella tappa fra Bayonne e Pau, quella nella quale Hinault e Delgado fecero un bel numero in coppia, ho inseguito come un bruto per limitare il distacco, privo ancora di ogni sensazione. Non volevo ancora credere al rifiuto del mio corpo tutte le volte che gli ordinavo di accelerare. La sera sulla tavola dei massaggi, per la prima volta nella mia vita, mi sono addormentato e ce n'era di che.
Il giorno dopo, alla partenza di Pau, avevo 39° di febbre e sono rimasto a letto, abbandonando il Tour.
Hinault, interrogato al villaggio di partenza, fu comprensivo e dichiarò: "Spero che andrà meglio per lui ben presto. Quando un corridore deve star fermo più di sei mesi, gli ci vuole almeno un anno e mezzo per recuperare l'intierezza dei suoi mezzi. E so di cosa parlo. Per ritornare alla sua massima forma, Fignon dovrà pazientare fino al 1987."
Parole simpatiche e terrificanti al tempo stesso! Sono ritornato a Parigi, dove sono stato ricoverato per tre giorni all'ospedale di Creteil per un'infezione piuttosto seria alla gola, ma a parte il sentirsi male, quello che mi faceva più arrabbiare in tutto questo ciclo infernale di alti e bassi, dalla vittoria alla Freccia Vallone fino al ritiro al Tour, oltre la mancanza di saggeza da parte di Guimard, era la mia impotenza ed apatia, non mi riconoscevo più.
Se ci ripenso, avrei voluto che Guimard mi scotesse (nota mia per ... scuotere ha il dittongo mobile?), che m'insultasse, che mi dicesse che ero un ""piccolo oggetto tondeggiante non troppo intelligente"", una donnicciola. Insomma avrebbe dovuto tentare qualcosa; però io non ero Hinault, con me non sapeva come comportarsi.
Non voglio certo gettare tutta la responsabilità su di lui, perché non sono mai stato, ne mai lo sarò un uomo facile e quindi ...
Alla fine della stagione, poco o punto motivato, ho perso stupidamente il G.P delle Nazioni, disputato sotto una pioggia battente. Sono caduto e all'arrivo il passivo era di 6 secondi. Sei secondi in una prova di 100 Km. Ero arrabbiato folle, perché il Nazioni concacrava allora il miglior passista dell'anno, essendo una corsa unica al mondo con un percorso sublime intorno a Cannes. Sola consolazione, era Kelly che aveva vinto ed io amavo (quasi) questo corridore irlandese leale e dal gran temperamento.
A Cannes era notte quando ho tagliato il traguardo e notte anche dentro di me, ne avevo piene le tasche di questa stagione e soprattutto di questa impossibilità a forzare il destino
Dopo Blois-Chaville sono crollato moralmente, volevo abbandonare tutto , per dirla in altri termini, buttare tutto all'aria! Per la prima volta nella mia carriera mi facevo prendere dall'odio ... contro di me, contro gli altri, contro la terra intiera!

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 29/09/2009 alle 15:24
Nous étions jeunes et insouciants (XXXVII)

Circolo vizioso



Un insieme di storie e di atti legati alla grande storia del ciclismo, più maiuscole che minuscole; era questo il mio bilancio fino a quel punto. Con C. Guimard avevo una relazione allo stesso tempo complessa ed intima e continuava nonostante gli ultimi avvenimenti e le mie delusioni, che si allargavano anche a chi mi stava intorno. Ma noi eravamo ben legati.
Ma certe volte l'amministraore Guimard prendeva il sopravvento sul grande tecnico, il calcolatore sull'uomo, il nuovo "patron" sul vecchio ciclismo. E senza nemmeno mettere il naso negli affari, anche se ero socio al cinquanta per cento, vedevo bene che alcune cose non andavano nella squadra. Guimard voleva fare economia su tutto, mentre non c'era nessuna ragione di fare ciò. Avevo già notato alcune mancanze serie nel corso della stagione 1986, ma all'inizio dell'ottantasette sembrava talvolta di essere diventati una squadra di dilettanti. Tutta una serie piccole cose mettevano in evidenza che l'organizzazione funzionava male.
A poco a poco mi sono reso conto che non avevamo a disposizione la migliore squadra del mondo (e ciò durerà fino al 1989) per il semplice fatto che Cyrille si rifiutava molto spesso di firmare gli assegni dovuti. Alcuni compagni non erano più capaci di fare il loro dovere per il tempo che gli era richiesto e poi, tranne C. Mottet non avevamo nessun leader di ricambio per certe corse. Ed anche il materiale era spesso non all'altezza. In alcune corse Guimard prevedeva di portare due sole vetture e non avevamo così nessun margine di manovra, ed il più piccolo incidente, fino allora senza importanza per il corridore, come una bici che non andava, diventava improvvisamente un problema per tutti. Si perdeva tempo, ci si arrabbiava ed alla fine talvolta eravamo obbligati a farci riportare in albergo da altre squadre più generose, era proprio un grande ...
Agli occhi dei compagni, io era doppiamente colpevole: "in primis" per non essere più all'altezza della mia reputazione e poi, come socio di Guimard, essere il corresponsabile di questa situazione marcescente!
Ancora una volta Guimard ridiventava il peggior C.G. l'uomo che non sapeva controllare la situazione in tempo di crisi ed invece di parlarmi tranquillamente, affinché potessi prendere le mie decisioni, si rinchiudeva nei suoi piccoli calcoli da bottegaio. In definitiva non ero messo nelle migliori condizioni possibile per riconquistare la mia serenità
Ricontestualizzando, stavamo assistendo ad un cambiamento notevole nella società e nel ciclismo, soprattutto nel secondo si facevano i primi passi verso la mondializzazione e poi si sentivano le conseguenze dell'arrivo di B. Tapie che con i suoi soldi stava cambiando quasi tutto nel nostro sport. L'avevo incontrato quando ero ancora alla Renault, perché voleva che passassi con lui in quanto gli sembravo uno dei migliori, ma il nostro incontro fu piuttosto una caricatura, perché mi parlò soltanto di affari e nemmeno una parole sulle corse e la competizione ed alla fine non avemmo neppure il tempo di parlare di un contratto, né tanto meno del suo ammontare, perché non eravamo sulla stessa lunghezza d'onda; per lui il ciclismo non era importante e quindi con me aveva sbagliato soggetto; non volevo certo entrare in una squadra solo perché c'erano soldi da prendere. Quando ci siamo salutati, era stupito.
Dunque questo favoloso miscuglio di serietà ed incoscienza, che fu per molto tempo il marchio di fabbrica dei ciclismo, terminava sotto i nostri occhi allucinati ed anch'io che amavo le novità e non mi ero mai opposto a che un ordine nuovo ne sostuisse uno non più all'altezza dei tempi, mi trovavo comunque un po' spaesato, come se fossi stato esiliato.
Tutte le squadre si professionalizzavano ad oltranza e molti non pensavano piu che a vincere, ai soldi, alla corsa come risultato in contanti. L'ora era arrivata: il vincitore doveva lasciare il passo e nascondersi dietro il *vincente* (nota: in francese la dicotomia è fra vainqueur e gagneur, e quest'ultimo ha la stessa etimologia di guadagno, in italiano questo non è possibile).
Noi, che avevamo inventato un sistema che offriva agli sportivi i pieni poteri in due anni ne eravamo diventati le vittime
Guimard era strano, sotto l'aspetto sportivo era l'incontestabile numero uno, uno dei più grandi in tutta la storia del ciclismo, era invece una catastrofe come amministratore e ci ha fatto perdere un mucchio di tempo, perché ristabiilre una gestione affidabile in una squadra professionista è un po' come voler far girare una locomotiva da un binario morto: ci vuole un'enorme pazienza e tanta perseveranza.
Dobbiamo essere umili e si rivelò in quel frangente un tratto del mio carattere che non conoscevo, perché in quel momento non sapevo nemmeno come gestire la mia crisi personale. Dovevo andare fino in fondo a quella specie di buco nero ed arrivare a toccare il fondo, perché non riuscivo a frenare la caduta. E in quei momenti, quando mi sentivo massimamente vulnerabile, Guimard si nascondeva nel suo malessere e non mi era di nessun aiuto.
Ci eravamo messi troppo sotto pressione? Portavo troppo su di me il peso della squadra? Era possibile, ma fino a quel momento la pressione (anche enorme) non mi aveva sconfitto, anzi, e allora perché ora sì?
Molti mi interrogavano sul mio stato di salute, sulla mia volonta e capacità di ritornare ad essere me stesso e ad un giornalista che aveva posto l'argomento, ricordo di aver risposto seccamente: " Anche se fossi in cattive condizioni, continuerei!" Certo suonava come una confessione di debolezza, come una presa di coscienza ed il mio animo alla fine accettava di poter rientare nell'anonimato.
Avevo però ancora l'amaro in bocca per il Tour 1986, la battaglia fra Lemond e Hinault e quella specie di accordo, davanti a tutti, mi aveva profondamente irritato, perché ciò che non andava nel ciclismo mi faceva ancor più pensare ai mie tentennamenti.
Per reagire, senza troppo, ferire (economicamente) Guimard, ho ingaggiato a mie spese Alain Gallopin. Strano destino il suo: era passato pro insieme a me nel 1982 e tre mesi dopo il debutto, il suo direttore sportivo l'aveva investito con la vettura, procurandogli una grave frattura al cranio e stette a lungo fra la vita e la morte e la sua carriera di ciclista finì lì. Alcuni mesi dopo ha ripreso gli studi, per diventare kinoterapeuta ed io gli ho detto: " Quando ti sarai diplomato, chiamami." E nel 1986 mi ha chiamato.
Naturalmente l'ò assunto, senza però sapere allora che sarebbe diventato tutt'altra cosa che una specie di dipendente. Alain il mio miglior amico, confidente intimo ed ho vissuto più con lui che con l'isieme della mia famiglia. Un uomo raro, integro, fedele, leale, modesto; persone così se ne incontrano poche nella vita.
Lo volevo accanto a me non solo per i suoi talenti medici, ma anche per la sua serietà, i metodi di organizzazione che un giorno oltrepasseranno le nostre frontiere. Era sempre con me e mi alleggeriva psicologicamente in tutto quello nel quale poteva intervenire e che aveva a che fare con la mia preparazione. Avevo bisogno ed anche lui senza dubbio, di trovare un rapporto durevole di lavoro, ma anche di amicizia e, come ho detto lui rispondeva pienamente ai mie bisogni. Il nostro tandem sarebbe durato fino alla fine della mia carriera.

 

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  postato il 30/09/2009 alle 17:14
Nous étions jeunes et insouciants (XXXVIII)


Meno un corpo ha memoria di quello che è stato, più tempo ci vuole per rientrare e le novità possono aiutare. Per fare Km e riacquisire il ritmo, ho partecipato all'inizio del 1987 alla sei giorni di Brema. Mi ero ben preparato, ma non era sufficiente per rivaleggiare con gli specialisti. Inutile precisare che non c'erano controlli doping, per cui le anfetamine avrebbero meritato il trofeo più bello .
D'altra parte la velocità era troppo alta per me e il primo giorno non potevo nemmeno stare a ruota, per cui tutti pensavano che mi sarei rivestito . Ma mi conoscevano poco, perché, malgrado la difficolta della competizione e il ritmo infernale: si correva sei giorni e sette notti, (circa 200 km al giorno) a 50 km/h di media, lentamente, ma con sicurezza, sono arrivato quasi al diapason.
Gli organizzatori pagavano molto bene le "star" come me: 50.000 franchi al giorno ed i "pistard" di mestiere si lamentavano di questo denaro dato ai non specialisti, talvolta pericolosi e spesso incapaci di tenere il loro rango in quelle corse.
Amavo quell'ambiente popolare e quel pubblico caloroso e saziato non solo dal ciclismo, ma anche dai salsicciotti caldi, insieme alla birra. Con i miei capelli di grano e i miei occhiali, uniti alla mascella forte, ma soprattutto con la reputazione di un grande "palmarès", penso comunque di aver contribuito (alla mia modesta maniera) all'ammontare dei due incassi giornalieri.
Offrivo anche lo spettacolo della mia persona, dando di me più che potevo, attorniato da questa popolazione di pistard, mezzi zombi, che riuscivano a superare la soglia della notte solo a prezzo di una quantità ... di flaconi d'anfetamina pura e finivano nei loro box all'alba fra gli effluvi di alcol e gli sbadigli degli spettatori assonnati.
Siccome era di dominio pubblico che il mio ingaggio era molto alto e poiché io pedalavo con tenacia, i "patron" della sei giorni dovettero iscrevermi al club di quelli che determinavano le "combine", ma prima tentarono di farmi pagare in senso letterale. I soldi, sempre i soldi. E se gli si resisteva, occorreva star bene in guardia per evitare cose spiacevoli, compreso il furto del materiale. Si ricevevano minacce ed ogni cosa era regolata dal rapporto di violenza ed intimidazione; essere forti era un dovere per sopravvivere
C'erano americane che duravano, talvolta, fino ad un'ora e mezzo (nota: non mezza come dicono al nord ) e, anche se quasi tutto era concordato, occorreva saper tenere il proprio rango e poche squadre, le migliori, partecipavano al "patto" e sapevano"a priori" quanti giri dovevano recuperare durante queste cacce. I patron si accordavano fra loro e poi ci venivano a dire quanti giri avremmo dovuto guadagnare. E se proclamavano: "sette giri" erano proprio "gatte da pelare" (nota: in francese "soupe à la grimace", quindi letteralmente zuppa che fa fare boccacce ), perché riprendere sette giri al gruppo non era cosa da poco, anzi.
Era dificile, ma bisognava farlo, perché in caso di non riuscita, si poteva essere messi fuori gioco subito il giorno seguente e considerati come una piccola squadra o, in altre parole, dei semplici riempitivi. E allora si poteva dire addio al rispetto ed alla considerazione degli altri.
A Brema ero associato ad A. Doyle, uno dei migliori specialisti dell'epoca che riusciva spesso ad arrivare vicino alla vittoria e a vincere, per cui aveva una notorietà ed un ingaggio da difendere. Subito (il primo giorno) si è lamentato con gli organizzatori delle mie prestazioni. Certo non ero nella condizione di poter tenere la sua andatura e e lui aveva paura di finire male in classifica per colpa mia e così di rimetterci nei suoi futuri contratti e pertanto si è comportato in modo tale da far sì che abbandonassi la partita e che gli fosse concesso presto un altro compagno. Era così determinato, che cercava di mettermi quasi sempre in dificoltà al passaggio delle consegne (all'americana).
Ne avevo abbastanza e alloché aveva terminato una serie di sprint e si preparava a darmi il cambio, sono volontariamente restato indietro, senza andare in alto sulla pista. Il capo della riunione: P. Sercu mi ha chiesto il motivo ed ho risposto: " E' lui, il motivo, LUI ho gridato!
Doyle aveva ricevuto il messaggio e fu costretto a continuare per una nuova serie di sprint
Quando dopo è arrivato alla mia altezza, gli ho fatto un gesto senza equivoci possibili; aveva voluto giocare con me ed io avevo dovuto rispondere! E così non ha più osato tormentarmi ed anzi devo proprio dire che abbiamo collaborato con zelo ed anche ... piacere. In fin dei conti è sempre la stessa storia, si deve sempre dimostrare la propria autorità.
Come ho già detto, alla fine non si poteva più lamentare di me, perché ho migliorato ogni giorno ed abbiamo finio la sei giorni sesti, a tre giri soltanto dal duo di testa.
In questo modo, grazie alla pista, avevo ripreso forza e vigore e potevo ritornare di nuovo su strada con un morale di combattente, anche se forse era sempre poco, per quanto ci si aspettava da me.
In più, anche se ero protetto dalla e avevo il privilegio della ... presenza di Gallopin, i problemi strutturali all'interno della squadra continuavano a "mettere radici" e il parossismo fu raggiunto con uno scambio di insulti fra Guimard e i fratelli Madiot. Ivon e Marc erano, fra l'altro, due pilastri della nostra credibilità sportiva e scontrarsi con loro era volersi mettere ancora di più in pericolo, ma con Guimard non c'era niente da fare e questa ostilità continuò nel tempo fino alla rottura inevitabile, ancorché stupida.
Quando sono arrivato alla Vuelta con una previsione da "secondo fascia" e non più di favorito, avevo contratto da diversi giorni una sinusite acuta e i medici volevano che non partecipassi. E in qualche giorno mi trovai di fronte ad un sonoro avvertimento da dei risulttati che posso definire patetici. Dopo essere arrivato 28° nel prologo, fui lasciato indietro nei ventagli della prima tappa e il conteggio fu 83°. Di sconfitta in sconfitta, e, malgrado un gran numero in montagna ed una vittoria di tappa prestigiosa ad Avila, la stessa che aveva vinto Hinault nel 1983, non fui mai capace di reinserirmi alla massima altezza della classifica. Avevo dunque confermato il mio ruolo di secondo piano che mi lasciava tutavia dei rimpianti. Terzo nella generale finale, incapace di vincere, ma solo di piazzarmi, anche se, comunque, non ero arrivato a 30 minuti dal leader, il colombiano L. Herrera.
A questo proposito, il suo direttore sportivo, prima dell'ultima tappa, era andato con discrezione da Guimard, perché L.H. aveva poco vantaggio sul tedesco Reimund Dietzen (nota mia: chiedo scusa al Grande D. del forum per avergli attribuito come "nick" un attore americano, ma io proprio non ho memoria di questo tedesco ) e tutta la squadra colombiana aveva paura di un attacco, con formazione di ventagli. Guimard ci aveva avvertiti: " I colombiani ci propongono dei soldi per non tirare". Noi che non avevamo nessuna intenzione di attaccare e quindi perché non accettare la proposta per fare pagati (30.000 franchi per ciascun corridore), quello che avremmo fatto comunque "gratis"?
Quel giorno c'era un vento fortissimo, tre quarti da dietro ed i timori del colombiani erano credibili, perché se girava un po' i ventagli si potevano formare e se noi avessimo voluto prendere l'iniziativa avremmo potuto far "volare", senza colpo ferire, quelle loro piccole "taglie".
Era l'ultimo giorno e francamente ne avevo abbastanza della Spagna che, decisamente, non mi aveva mai favorito e non volevo perdere l'aereo, previsto la sera stessa, due ore dopo l'arrivo. Con il vento favorevole, l'organizzazione ha ritardato la partenza e così comprometteva la nostra trasferta verso Parigi.
Quando Herrera ci ha visto tutti davanti è stato preso dal panico ed ha creduto che volessimo giocargli un brutto scherzo!
"Perché tirate, se vi abbiamo pagato?" mi ha gridato. Ma io l'ò subito rassicurato sulle mie intenzioni: soffrivo di nostalgia.
Luis era pazzo di gioia perché iscriveva il suo nome nell'albo d'oro della Vuelta e i colombiani "isterici" distriibuivano coca "a pacchetti" a chi la voleva, dato che i meccanici l'avevano fatta passare in Europa nascosti dentro i telai delle bici.
Ho lasciato quel Giro di Spagna con la testa bassa ed in maniera francamente poco gloriosa e per questo motivo non sono neppure salito sul podium e ciò era disdicevole nei confronti degli organizzatori, ma avevo la testa altrove Però dove, non saprei dire.
Ci hanno condotti all'aeroporto ed ero sempre in tenuta da ciclista e mi sono cambiato nei gabinetti pubblici appena prima di salire sull'aereo, come un volgare ladro, d'altra parte quel giorno per me era .. di fuga e di onta

 

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"Per principio rifiuto di sottopormi a questi controlli. Non sono ostile alla lotta al doping, che ritengo indispensabile tra i dilettanti, ma nel caso di professionisti è differente. Dopo 12 anni di carriera io so quello che devo fare e non voglio che una mia vittoria venga messa in dubbio dalla fantasia delle analisi".

(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Fausto Coppi




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  postato il 30/09/2009 alle 17:39
Originariamente inviato da lemond

perché L.H. aveva poco vantaggio sul tedesco Reimund Dietzen (nota mia: chiedo scusa al Grande D. del forum per avergli attribuito come "nick" un attore americano, ma io proprio non ho memoria di questo tedesco )


figurati, no problema.

 
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Livello Greg Lemond
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  postato il 01/10/2009 alle 18:06
Nous étions jeunes et insouciants (XXXIX)

Il flacone senza la sbornia


Ci sono le grandi rappresentazioni che riescono a raccontare con proprietà le belle avventure degli uomini e poi ci sono le piccole che estrapolano dalla realtà in maniera "immaginifica" le traversie dei corridori. (nota mia: un po' come il sig. Capodacqua )
Il 28 marzo 1987 ho vissuto uno degli episodi più brutti e più strani di tutta la mia carriera. Partecipavo al G.P. di Vallonia, una bella prova che aveva per teatro geografico, su 215 km, la regione di Namur. Avevo vinto abbastanza facilmente, davanti a P. Poisson e quindi c'era da essere sodisfatti, se non che, qualche giorno dopo ho ricevuto la notifica di un controllo positivo, relativo alla presenza di anfetamine nelle mie urine.
Ero distrutto, perché sapevo che si sarebbe scritto di tutto per dare un immagine ... di questa storia.
Immaginate un po' che addirittura J.M. Leblanc, il futuro "patron" del Tour, ma che allora era solo un giornalista, mi aveva subito "condannato".
Mi sono spesso posto la questione: perché i giornalisti si permettono di scrivere di tutto e talvolta delle vere e proprie asssurdità? Si rendono conto di quanto possono ferire con questo genere di affermazioni e/o insinuazioni? Come si vedrà qualche anno dopo, so assumermi le mie responsabilità, quando sono colpevole, ma la verità di quel controllo è tutt'altra, helas! Dico "helas" perché penso di essere stato la vittima indiretta di una guerra fra due laboratori concorrenti, che si contendevano il mercato dei controlli antidoping per tutto il Belgio.
Il prelievo ebbe luogo a Namur ed i campioni ci avevano messo tre giorni per arrivare a Liegi. Perché? Dove erano stati?
C'erano stati seri problemi fra il laboratorio di Liegi e quello di Gand, perché entrambi rivendicavano il monopolio oltre Quiévrain ed allora, per schematizzare, accadeva che chi dimostrava "il miglior risultato" di contolli *positivi* avrebbe vinto la "cuccagna"
Fui l'oggetto di un complotto della peggiore specie, tanto più che il nome Fignon sarebbe servito molto per le proprie statistiche.
Ero innocente, ma non potrò mai provarlo, perché a quell'epoca, anche se può sembrare incredibile, non era ancora ammissibile domandare una contro-analisi in un altro laboratorio. Altrimenti (rifarlo lì) sarebbe stato ridicolo, perché come si può pensare che un laboratorio si contaddica? Specialmente quello che aveva tutto l'interesse a trovarmi positivo, perché così avrebbe allargato il proprio mercato?
E poi sarà bene raccontare le minuzie di questa corsa, per comprendere meglio. Abitualmente non c'erano mai stati controlli, tutti lo sapevano e ciò faceva parte del "folklore" di alcune corse del calendario. Molti avevano pensato che quell'anno là non derogasse dalla regola, ma l'organizzatore era venuto da tutti noi per metterci in guardia: "Ragazzi, quest'anno ci saranno i controlli anti-doping." Era chiaro e molti furono felici di essere stati avvisati, ma a me la cosa non faceva né caldo, né freddo, per una semplice ragione: non mi era mai passato per la mente di prendere un prodotto rintracciabile, in un giorno di corsa!
In più quel giorno là, ho cercato di vincere proprio sapendo che ci sarebbe stato il controllo! Ciò prova, se ci fosse bisogno di una prova supplementare, che avevo l'animo tranquillo. E qualche giorno dopo, positivo! Menzogna
Devo confessare che questo affare mi ha veramente segnato! Si sapeva che talvolta si potevano verificare dei malintesi e si sentiva parlare di cose veramente assurde, come che certi direttori sportivi avessero tradito i propri corridori, ma quando mi davano delle cure, che fossero vitamine o fortificanti ed anche antibiotici, volevo assolutamente vedere questi medicinali nel loro imballaggio originale. La fiducia assoluta l'accordavo solo a me stesso.
Mi sentivo smobilitato ed odiavo i discorsi che immancabilmente si sarebbero sentiti il giorno dopo questa disavventura. Nessuno credeva alla mia buona fede, evidentemente, anche perché, dalla mia operazione, che era arrivata dopo quella di Hinault, e soprattutto in conseguenza di numerosi acciacchi in squadra (uno dietro l'altro) avuti da M. Madiot, P. Poisson e M. Gayant, molti fantasticavano sui "metodi Guimard!"
Un giornalista non esitò a suggerire che noi zoppicavamo tutti con la gamba destra, perché era lì che ci praticavamo le iniezioni.
La cosa più "buffa" è che certi hanno creduto a questo tipo di castronerie.
Al Giro di Svizzera chiunque può capire che non ero nel mio stato normale: il morale era al minimo ed avevo proprio voglia di mandare tutti a quel paese, non mi si parlava d'altro che di questo controllo "positivo" e mi distruggeva il fatto che qualcuno (o tutti) potessero credere che fossi un imbroglione!
Inoltre mia moglie era incinta e quindi avevo voglia di pensare ad altro.
Certo ero parecchio destabilizzato e il mio comportamento può essere sembrato strano agli occhi dei presenti, perché ero spesso irritato ed irritabile per "niente". Alla minima allusione diventavo provocatorio, ma non dobbiamo dimenticare che eravamo allora pochi giorni prima del Tour e che, sportivamente, mi interogavo molto sulle mie capacità di ritornare alla massima altezza. La vita non è un romanzo e su una bici, la verità si scrive giorno dopo giorno.
Durante il T.d.S. un "grande" giornalista svizzero mi ha fissato un appuntamento. Dico grande, perché si trattava di una "star" nazionale nel suo settore e si era appunto presentato come tale.
Si vedeva chiaramente che non aveva mai messo piede in un albergo di corridori ciclisti ed ignorava totalmente le nostre abitudini la sera dopo ogni tappa. A causa del massaggio, avevo un quarto d'ora di ritardo quando sono arrivato nel salone dell'albergo ed egli mostrò subito la sua insodisfazione, anzi direi proprio una certa irritazione. I miei tentativi di giustificazione non gli bastarono, ma cominciò la sua intervista.
Era surreale: "Come si chiama lei?" ha domandato. Ero allibito, ma lui "Quando è nato, qual è il suo palmarès?" Evidentemente ho terminato un po' troppo brutalmente il nostro "colloquio", rispondendo: "Basta, si finisce qui! Se lei non conosce neppure il minimo indispensabile sulla persona che deve intervistare, non abbiamo niente da fare insieme."
Egli ha allora urlato : "IO SONO IL PIU' GRANDE GIORNALISTA DELLA SVIZZERA, VEDRA' DOMANI QUELLO SCRIVERO' SU SI LEI!"
Credeva d'impressionarmi , ma mi sono sporto verso di lui e gli ho detto, il dito puntato: " Me ne frego , scriva pure quello che vuole!" E ho voltato i tacchi.
Il tipo urlavo ancora dietro di me, saltando come un canguro Era comunque incredibile.
Ho completamente dimenticato il nome di questp giornalista e non ho mai letto quel suo articolo, ma senza dubbio mi ha assassinato con grande diletto e forse anche ... con grande talento.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 04/10/2009 alle 14:16
Nous étions jeunes et insouciants (XL)

Come la fine del mondo


Al sommo della gloria, nel 1984, avevo dichiarato, con l'arroganza di quelli che sanno chi sono, ciò che avevo e che avrei fatto: " Correrò fino a 30 anni e poi vivrò di rendita." Era una frase roboante, ma sincera, simbolo della maniera di comportarmi talvolta. Pero, va detto, che gli anni non rispettano sempre le nostre previsioni ed io non avrei mai pensato alla mia operazione, con conseguente anno di "riposo", né ai danni fisici che avrebbe comportato. Ora mi rendo conto che dire ciò era stato piuttosto stupido, così come voler giocare con la propria sorte, perché poi questo genere di affermazioni ti incatena. Dopo, quando mi chiedevano ... ho sempre mostrato incertezza riguardo al tempo che mi rimaneva. Prevedevo di già non bene il Tour 1987 che stava arivando, però la fine della mia avventura in gruppo andava al di là di ogni mia immaginazione.
Sapevo meglio di molti che la "Grande Boucle" non perdonava niente e metaforicamente si può dire che la vita di tutti gli uomini è sicuramente inserita nel sortilegio di una "grande boucle": alla gioia immensa, può seguire una grande pena e la strada gira e rigira. Mi ero creduto molto forte, anche se non invinciìbile, ma il destino aveva duramente picchiato alla porta delle mie illusioni e ciò mi era chiaro in quell'estate 1987, e questa situazione la trovavo esasperante. Da due anni ero l'ombra di me stesso e mi riusciva male esprimere questi sentimenti, ma avvertivo tutto ciò come un animale sente il temporale che sta per arrivare. Le persone non si rendeno conto veramente di quanto il ciclismo sia difficile e non si sono mai domandati perché i più grandi "spiriti" del XX secolo hanno sempre paragonato il nostro sport alla boxe riguardo alla loro (comune) durezza eccezionale.
Per mezzo del Tour, ancora una volta, avrei saputo a che punto mi sarei trovato, anche se temevo di saperlo. Oltre ad essere in uno stato di forma aleatorio, sono arrivato soprattutto in cattive condizioni mentali, nel senso che mi mancava quel clic psicologico che avrebbe cancellato i miei dubbi e quelli degli altri intorno a me. E poi i problemi della squadra si invelenivano e l'ambiente era estremamente teso: il nostro sistema stava eplodendo. Il patron sarebbe stato Guimard, ma non era tale nel vero senso del termine e quindi dentro di noi, anche se forse non volevamo ammetterlo, cominciavamo tutti a dubitare gli uni degli altri. Guimard dubitava assai del mio ritorno ai vertici ed io delle sue competenze in tempi di crisi e come amministratore e tutto ciò non faceva migliorare le cose!
Il prologo a Berlino fu una catastrofe (72°), indegno! Non rammento neppure quale fu la mia reazione, né quali furono gli sguardi degli altri su di me. Nelle prime tappe fu conme se proprio non ci fossi: il mio corpo pedalava, ma il mio spirito divagava e produceva il niente.
Mia moglie, Nathalie, doveva partorire ed io pensavo molto alla paternità e partecipare al Tour in quelle ore importanti mi pareva piuttosto strano, addirittura incongruo. Ciò non spiega le mie contro-prestazioni, ma comunque la voglia di fuggire era palpabile in me ed in ciascuna delle mie azioni.
Come in una galleria oscura, allorché mi ritrovavo in una situazione di corsa un po' calda, avevo sempre la tendenza a rinchiudermi, mentre in precedenza sarei riuscito quasi sempre ad ottenere qualche vantaggio.
Guimard, sempre in primo piano per quanto riguarda le innovazioni tecniche, ci aveva obbligato a portare (siamo stati i primi) il cardio-frequenzimetro, che, secondo lui, avrebbe rivoluzionato la conoscenza sulle risposte somatiche allo sforzo. Dopo alcuni esperimenti, i medici mi avevano consigliato di non superare le 165 pulsazioni al minuto, perché al di là c'è di sicuro "l'esplosione" in poco tempo. All'inizio l'avevo preso alla leggera, ma dopo mi venne quasi un riflesso condizionato e, quando vedevo quel numero 165, rallentavo e mi era impossibile spingere di più. Infatti ho compreso in seguito che qualche cosa in me rifiutava di varcare una certa soglia del dolore e tuttavia, preso atto delle mie condizioni, mi sono messo del ttutto spontaneamente e con notevole zelo al servizio di C. Mottet, che era ben piazzato nella generale. Gregario di lusso, da questo punto di vista non avevo un ego sbagliato, anzi, perché ormai conoscevo molto bene la depressione della sconfitta. Devo precisare che il comportamento degli altri verso di me era radicalmente cambiato e dal 1986 vedevo i giornalisti allontanarsi e ricevevo anche molte meno lettere. Tutto ciò mi sembrava normale ma un uomo non è mai preparato a questo genere di situazioni. Quello che invece non mi sembrava normale era che si dimenticasse tutto quello che uno aveva fatto: un corridore che ha vinto due volte di seguito il Tour dovrebbe sempre valere due Tour agli occhi degli altri. Invece il mio caso era diverso, mi trovavo totalmente svalutato, ma perché? Anche le entrate finanziarie scivolavao verso il basso ed anche questo mi sembrava strano, perché se comprendevo bene che si fosse interessati "in primis" a quello o quelli che erano più invista, non capivo perché gli organizzatori non volessero più sentir parlare di me alle tariffe di prima. Francamente solo il ciclismo funziona in questo modo! Mi ricordo di essermi arrabbiato con l'organizzatore della Sei Giorni di Parigi che mi voleva far correre molto al ribasso. Io non sarei stato contrario ad una trattativa, ma non potevo scendere sotto un limite che mi pareva degradante e quindi preferivo non correre che accettare una simile umiliazione.
Ritornando al Tour, ero come in apnea fino alla famosa cronometro del M. Ventoux. Cima mitica, luogo di tutte le rappresentazioni ciclistiche, teatro maestoso, frontiera simbolica nord-sud, santuario alla memoria di Tony Simpson. Fu là che J.F. Bernard realizzò l'exploit che si sa, buttandosi in lacrime, all'arrivo, fra le braccia del suo guru: B. Tapie. Il patron contava già i dividendi e faceva dirigere su se stesso le telecamere del prestigio, mentre il corridore come un figlio, ma piuttosto uno schiavo, arrivò là, come sull'altare del sacrificio, all'apogeo di una carriera che aveva già in sé il gene della propria perdita, ben prima della sua naturale scadenza.
In questa salita, invasa dalla folla, avevo deciso di mettere dentro tutto me stesso, assolutamente tutto. La motivazione, la concentrazione, la voglia di vincere, ma purtroppo non è accaduto niente di tutto ciò, ma al contrario sembrava, il mio, un colpo di pedale da cicloamatore e poi il vuoto, prima del niente.
Tutto è terminato di colpo: troppa emozione, troppo di tutto, non posso dire altro, se non leggere in questo tutta la mia autenticità: 64° a quasi dieci minuti da J.F. Bernard
Mio figlio era nato il giorno prima ed io avevo bisogno di ritornare a casa. Durante l'ascensione alcuni spettatori che sapevano, mi avevano gridato: "Vai papà!" Ma io non andavo avanti, soffrivo, ma d'altra parte era il Ventoux.
Rientrando nel minibus, sono crollato: "Non ritornerò più" ho pensato e, lontano da ogni sguardo, ho pianto a lungo.
La sera un giornalista, incrociato in albergo, mi ha chiesto se Bernard era il mio successore ed io ho risposto che ciò voleva dire che io ormai ero morto e sotterrato? E lui "E' possibile." Allora questa per me è una motivazione siupplementare per mostare a tutti che hanno torto.
Ero in uno stato di rabbia assoluta ed avevo la sensazione che sarebbe stata la fine e che non avevo più un posto nel ciclismo. Mi sono accorto in seguito che avevo invece bisogno di toccare il fondo, prima di rinascere. Andare ancora avanti nella depressione, prima di rimontare in sella.
Dopo il Ventoux e gli episodi descritti, non potevo certo più abbandonare, perché volevo dimostrare che potevo ancora stupire.
Il giorno dopo ho visto il profilo ed abbiamo deciso di saltare il rifornimento. Eravamo di nuovo in azione. E' il giorno in cui Bernard ha perduto tutto. Una volta indietro, i suoi compagni avrebbero voluto rientrare immediatamente, ma lui, per niente ansioso, aveva rifiutato, affermando: "C'è tutto il tempo per rientare." Errore grossolano, perché lì davanti si era formata una grossa coalizione.
Io, grazie all'orgoglio, avevo ritrovato delle gambe passabili e la mia collera era indirizzata anche al maledetto cardio-frequenzimetro e quindi lo girato in modo da non doverlo più vedere e questo fatto è stato alquanto liberatorio.
Il giorno dopo sono arrivato 6° all'Alpe d'Huez e il giorno ancora dopo ho vinto a La Plagne una tappa di prestigio, nonostante non avessi spinto a fondo. Insomma non meritavo di essere completamente condannato in questo Tour. Anche se molto diminuito, ero arrivato 7° in classifica a 18 minuti, più o meno quanto avevo perso nelle cronometro, mentre la mia regolarità in montagna era un segno di qualcosa.
Due o tre giorni dopo i Campi Elisi steso su un divano, mi sono seriamente interrogato sulla mia capacità di rivincere il Tour. ???
La fine della stagione 1987 mi portò qualche risposta che però mi affossò ancora di più. Dopo il T. di Catalogna, dove Guimard raggiunse il minimo in termini di organizzazione e ci volle il soccorso di altre squadre benefattrici per soccorrerci nei nostri bisogni più elementari (il colmo per la più importante squadra francese :mad, dovetti subire una sconfitta clamorosa al G.P dell Nazioni che avevo scrupolosamente segnato nel mio calendario delle occasioni ... (mancate ) !
Eravamo a fine stagione e, per l'occasione (un po' forse per il gusto di "esplorare le catacombe") ho testato un nuovo prodotto che molti avevano sperimentato con successo ed altri ptetendevano fosse formidabile. Ho ceduto alla tentazione, alla facilità, lo confesso!
"Fortunantamente" ho avuto un mal di testa spaventoso ed ero completamente bloccato e quella fu l'ultima volta che presi quel prodotto.
Morale: più uno è debole psicologicamente, più presta il fianco a ...
Questo non era solo il fondo del mio ciclismo che toccavo, ma il fondo stesso della mia intimità, della mia personalità.
Chi ero io ormai? Più cercavo dentro di me, più il mio essere faceva acqua da tutte le parti; io, come mi pensavo, non esistevo più. La mia classe da sola non era sufficiente per coltivare le mie illusioni ed ero diventato vulnerabile, alla mercé di ogni mio difetto.
Se vogliamo essere seri ed onesti, se non mi fossi chiamato Laurent Fignon, se non avessi avuto un Carattere e un modo alto di vedere la vita, sarei potuto cadere in non so quale abisso o follia e vendere la mia anima ad un qualsiasi venditore di chimere. Ne ho conosciuti di corridori che, a forza di doping, droga, alcol hanno finito per cambiare completamente e mandare tutto all'aria: lealtà, dignità, moglie e bambini.
Il mio amico Pascal Jules non ha avuto il tempo di scegliere: un incidente di strada falciava la sua giovane vita proprio quando stavo convincendo Guimard a riprenderlo. Julot aveva partecipato ad un incontro di calcio per beneficienza ed in quella sera tutti avevano bevuto troppo e Pascal me l'aveva sempre detto :" Vedrai, io morirò giovane, non arriverò a 30 anni." Era molto stupido dirlo, ma quella notte si è addormentato al volante.
Guimard mi ha chiamato in piena notte e un trauma enorme mi ha colpito; da allora, per parecchi anni, ho pensato a lui quasi tutti igiorni della mia esistenza e molto sovente ancora oggi, ma dal funerale non sono mai potuto andare al cimitero: è al di là delle mie forze, non posso proprio.
Morire a 26 anni, l'idea mi è insopportabile: ogni volta la fine di una vita è unica, come la fine di un mondo.




 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 05/10/2009 alle 17:29
Nous étions jeunes et insouciants (XLI)

Un urlo quasi selvaggio


Furtivo, provvisorio, si potrebbe proprio chiamarlo la rivincita del dannato. Come une forma di redenzione, ma contro che cosa? contro chi?
Senza dubbio si è trattato della lenta e paziente cronaca di un ritorno in forze, che devo in massima parte ad A. Gallopin.
Fu lui che dalla fine del 1987 cominciò a mettermi in testa che potevo vincere la Milano-Sanremo. All'inizio, francamente, trovavo questa idea un po' ridicola, perché se, dopo la Freccia che avevo gia vinto, mi accordavo la possibilità di poter vincere un giorno la L-B-L o la Roubaix (i miei più grandi rimorsi insieme alla maglia iridata ), mai e poi mai mi ero virtualmente posto nella pelle di un eventuale vincitore sulla Riviera. Ma Alain , che cominciava a conoscermi dentro: le mie qualità come i difetti, aveva, non so come, né perché, previsto tutto e non cessava di ripetermelo. Per esempio, sapeva bene che il mio fisico aveva bisogno di Km perché potesse esprimersi al massimo e la primavera con i suoi 294 Km (all'epoca) richiedeva una durezza a tutta prova. Alla quale bisognava aggiungere un innegabile capacità di "finisseur" negli ultimi 10 Km, con l'asperità del Poggio. E Gallopin me lo ripeteva: "E' l'ideale per te, credimi.
Fino allora, tanto nella Settimana Siciliana (5°) che nella Parigi Nizza (ancora 5°) non aveva convinto molte persone ed in più mi sentivo quasi andicappato per la perdita dei fratelli Madiot e rimproveravo Guimard per esserne stato la causa, ma nessuno ancora sapeva che i problemi logistici che ci avevo tanto perturbato l'anno prima si sarebbero almeno parzialmente risolti. Su consiglio di Alain, avevamo assunto come organizzatore suo fratello Guy; miracolo, perché gli effetti si fecero subito sentire. Quest'uomo possedeva un dono particolare per rimotivare un'armata pronta al combattimento e ci sbarazzò subito di ogni problema logistico: E' stato veramente prezioso.
Nella Parigi Nizza mi sono presentatop per la prima volta con una coda di cavallo, che fu oggetto di ogni critica e nel gruppo sentivo spesso *ragazzina*, ma ciò mi divertiva.
Ma per me gli scherzi, quelli della mia incapacità a ridiventare quello che ero stato, erano durati anche troppo e allora, subito dopo la corsa al sole, Gallopin ed io, avevamo applicato un metodo radicale: la supercompensazione, e cioè si trattava di sfinirsi settantadue ore prima di un grande appuntamento. Ben pensato, come l'avvenire l'avrebbe dimostrato.
C'erano esattamente sei giorni fra la fine della P-N e il sabato della M-S e pertanto ecco quale fu il mio programma: il lunedì e il martedì erano destinati ad un recupero attivo, andavo in bici, ma senza forsare, giusto per girare le gambe e recuperare; il mercoledì era la mia più importante giornata di lavoro e dovevo andare fino all'estremo delle mie forze, fino allo sfinimento completo. Il principio fisiologico era semplice: l'organismo bruciava allora tutte le riserve e, una volta così disfatto, il corpo doveva necessariamente reagire in modo extra e produrre di più di quanto era ordinariamente necessario. Per fare questo un organismo ha bisogno di quarantotto ore e quindi il dado era tratto , perché normalmente l'organismo si sarebbe ritrovato al massimo della sua curva di supercompensazione il giorno G.
Ritorniamo al mercoledì: per raffinare questa preparazione e costringermi ad arrivare al fondo delle mie riserve, sono partito dalla casa di Alain, che abitava nell'Essonne, per una prima uscita di 120 km ed avevo mangiato molto poco, qualche cornflakes ed uno yogurt, nient'altro.
Una volta ritornato a casa di Alain, mi rammento molto bene, ho preso un succo di arancia ed una fetta di focaccia e sono ripartito per altri 100 Km! Lui pilotava un derny ed io dietro. Siamo partiti piuttosto lentamente: 40-45 Kmh. ma a circa a metà percorso ha accelerato l'andatura progressivamente ed io alla ruota ho cominciato a ... ma c'erano ancora 35 Km alla fine e da fare assolutamente a fondo ed infatti ho terminato con uno sprint favoloso, non sentivo più le gambe e mi rammento di averlo addirittura spinto, perché andavo più forte di lui, che pure era alla massima velocità. Il piacere a tutto tondo era là, finalmente ritornato e qualche cosa passava per la mia testa.
La sera massaggio, una scodella di riso e a letto. Il giorno dopo, il giovedì ho fatto un'uscita limitata di due ore, nel calcio sarebbe chiamato "decrassage" (nota: credo sia sinonimo di rilassamento).
Volevo assolutamente arrivare il giovedì a Milano, perché l'aereo non l'ò mai ben digerito; non so perché, ma l'altitudine mi ha sempre provocato un rigonfiamento alle gambe, che è molto sgradevole per un ciclista. Mi sono dovuto arrabbiare affinché Guimard accettasse la mia partenza il giovedì, ma la cosa più incredibile era che non comprendeva perché io dessi tanta importanza a questa classica di inizio stagione ed aveva finito per decretare: "La Milano Sanremo non serve a niente" Non mi aveva detto che non avevo nessuna possibilità di vincerla, ma ci mancava poco. Da quanto credeva nelle mie possibilità voleva far correre soltanto sei corridori, era proprio nello stile di Guimard! Ma io mi sono impuntato e lui ha dovuto cedere.
La vigilia della partenza, il caso ha voluto che fossi il primo ad avere il numero: "Perché sarò il vincitore" ho detto agli organizzatori.
Avevo ritrovato lo stato di decontrazione perpetua che era il mio fino al 1985.
Milano-Sanremo è una corsa particolare, il percorso non è difficile, ma è molto lunga. Le due qualità essenziali e indispensabili per poterla vincere sono la pazienza e la possibilità di saper "esplodere". Occorre attaccare una sola volta e nel posto e momento giusto; e non è facile.
La mia tattica stabilita era semplice: restare nascosto fino ad Alassio (240 km dalla partenza), poi restare fra i primi venti del gruppo e attaccare sul Poggio. Un solo colpo, buono o cattivo si saprà dopo, ma questa è la regola.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

Non riesco a comprendere perché Morris non sia assunto da nessuna rete telvisiva come opinionista

 
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Livello Fausto Coppi




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  postato il 05/10/2009 alle 19:27
Lemond sai qualcosa sulla situazione attuale di Fignon ?
 
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Livello Fausto Coppi




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  postato il 06/10/2009 alle 00:18
Originariamente inviato da lemond

...Il giorno dopo, il giovedì ho fatto un'uscita limitata di due ore, nel calcio sarebbe chiamato "decrassage" (nota: credo sia sinonimo di rilassamento).

Ciao Carlo, credo che la traduzione tecnica in italiano possa essere "recupero", o anche "scarico"...

 

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Livello Greg Lemond
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  postato il 06/10/2009 alle 07:59
Originariamente inviato da forzainter

Lemond sai qualcosa sulla situazione attuale di Fignon ?


No e giro la richiesta a chi ci potesse confortare, perché, come ho scritto altrove, è il corridore in questo momento mi sta più a cuore.

 

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"Per principio rifiuto di sottopormi a questi controlli. Non sono ostile alla lotta al doping, che ritengo indispensabile tra i dilettanti, ma nel caso di professionisti è differente. Dopo 12 anni di carriera io so quello che devo fare e non voglio che una mia vittoria venga messa in dubbio dalla fantasia delle analisi".

(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 06/10/2009 alle 14:25
Nous étions jeunes et insouciants (XLII)


Come previsto, sono restato nel centro del gruppo tutto il tempo, salvo sul Turchino, dove le cadute possono essere molte, perché la discesa è pericolosa. C'è da dire che per me restare al centro o in coda del gruppo era "un'eresia" e dovetti lottare contro il mio temperamento per costringermi a questo rigore. Detestavo di non sapere quello che accadeva davanti, era contro la mia natura. A circa due terzi della corsa, mi sono detto: "Accidenti, mi sembra proprio di passeggiare". Era favoloso e la verità mi obbliga a dire che, salvo sul Poggio, non ho mai avuto male alle gambe in tutta la giornata! e non mi era accaduto da lungo tempo.
Sul Turchino "fumavo la pipa", sul capo Berta, dove si può perdere la corsa, salivo come in un sogno, in modo tale che in un certo momento ho proprio pensato di andare a vincere.
La squadra olandese della PDM aveva atleti da far paura: Van der Poel, Alcala, Rooks, Theunisse, che stavano sempre nelle prime posizioni quando eravamo arrivati ai piedi dell'ultima difficoltà, il Poggio, una specie di collina che si erge sulla Riviera italiana. Anch'io ero abbastanza ben piazzato. Durante la corsa avevo detto al mio amico Sean Kelly che avevo previsto di partire forte sul Poggio, ma se non riesco a staccare tutti, ti tiro la volata. Dal 1983 o '84 avevo con lui un legame di fiducia e d'intesa, perché era un uomo leale che non misurava mai gli sforzi che sarebbero stati richiesti per onorare un debito morale.
Nei primi metri della salita, Kelly è venuto alla mia altezza e mi ha suggerito di andare avanti. Non gli ho chiesto niente, ma l'irlandese pensava continuamente all'onore e quindi non ho nemmeno riflettuto e l'ò seguito immediatamente, per fortuna, perché appena arrivati in testa, abbiamo visto che i PDM stavano attaccando a tutta forza. Kelly mi aveva salvato. Nei tre km. seguenti tutti hanno molto sofferto ed io ho avuto pazienza, anche se non sapevo se l'opportunità si sarebbe presentata. Improvvisamente mi è passato il dolore di gambe, come se fossi appena montato in sella e in questi momenti riesco a mantenermi sereno di spirito e quindi ho atteso, tranquillamente, tanto più che si andava molto forte, in modo tale che, arrivati in un punto in cui si profilava una percentuale più pronunciata e dove avevo previsto di tentare la stoccata, cominciavo a dubitare di poter andare molto di più. La "inestra di tiro" era limitata, non molto più di 150 metri, ma siccome era il passaggio più delicato del Poggio, Theunisse, colui che conduceva a grande andatura, è un po' calato. Era quasi impercettibile alla televisione, ma sufficiente per me. Pertanto, neppure allora ho riflettuto ed ho approfittato dell'opportunità che mi si offriva, passando in un varco fra un muretto e l'olandese: mi sono alzato sui pedali, mettendoci il peso di tutti i miei anni e la rabbia dei sacrifici che avevo dovuto fare. Avevo atteso quel momento con impazienza e ho sentito che si trattava di un attacco importante. Kelly, che era alla mia ruota, ha "giocato il gioco" come previsto e ha fatto "il buco". Avevo come rapporto il 53x15 ed ero convinto di essere rimasto solo e non dico quale fu la sorpresa nel vedermi accanto il giovanissimo Fondriest, mi domandavo proprio come avesse fatto!? Però, non ho avuto paura di lui nemmeno per un momento. Sapevo che l'avrei battuto e che non avrebbe avuto nessuna posiibilità contro di me (nota mia: avete presente l'arrivo con Kim Andersen ). Nella discesa ho usato una tattica da "furbino", facendo mostra di un'incapacità totale nel prendere le curve, in modo che fosse obbligato lui a stare in testa e tirare anche nella parte che c'era da pedalare (strada diritta). Ci cascò come un debuttante ed alla televisione i commentatori dell'epoca non capivano granché: mentre io calcolavo ed amministravo, loro dicevano che si vedeva bene che ero in difficoltà. Che furbi
Quell'anno l'arrivo era un Km subito dopo la fine della discesa e quindi noi due avevamo vinto la corsa e, intrinsecamente, come lo dimostrerà il seguito della carriera, Fondriest era più veloce di me allo sprint, ma era molto giovane e poi c'erano stati quei 300 Km e in quel caso io conoscevo molto bene le mie possibilità: in un testa a testa ero quasi imbattibile.
Come aveva fatto Hinault nella Roubaix del 1981, ho lanciato lo sprint da molto lontano e siamo rimasti affiancati fino a 100 metri dal traguardo, ma poi lui è "scoppiato" ed io ho vinto con 20 metri di vantaggio.
Mio dio, era fatta! e, anche se non ricordo niente, dei testimoni mi hanno detto che ho urlato di gioia, un grido venuto dal profondo dell'animo, un urlo quasi selvaggio, secondo alcuni. Gallopin aveva avuto ragione sia nel convincermi all'inizio, che di crederci durante... E quando penso che un corridore come Argentin non ha mai vinto questa corsa ... mi pare incredibile.
Per la cronaca, la storia ci dice che la televisione francese (Antenne 2, per essere precisi) non aveva trasmesso questa edizione della MIlano-Sanremo, neppure in differita e la direzione aveva rifiutato a J.P. Ollivier di fare un "reportage", perché non c'era nessuna possibilità che un corridore francese potesse vincere. Analisi stupenda!
Con la testa fra le stelle, mi immaginavo di nuovo in alto, perché sapevo soprattutto come avevo vinto e vedevo chiaramente questa ritrovata serenità, come ai bei tempi. Ma sul podium, credetelo o no , pestavo i piedi perché non avevo staccato tutti Era assurdo reagire così, ma il mio carattere si risvegliava. Un profumo di rinnovamento?
Quasi sempre la forza dell'età conferisce a chi sa ben maturare una capacità di analizzarsi direi prodigiosa, una specie di simbiosi corpo-spirito e se volete una prova, eccola. L'anno seguente, per rivincere a Sanremo, Alain ed io facemmo la stessa preparazione, con la sola variante di aumentare l'allenamento di 50 Km, perché ero invecchiato di una anno e non ero così pronto al sacrificio come in precedenza.
Nel 1989 Guimard non venne a Milano, mentre avrebbe dovuto esserci per assistere ad un avvenimento che amplificò una parte della mia "leggenda". Per evitare le trappole, dovevo inventarmi qualcosa, perché sapevo bene che non potevo vincere nella stessa maniera; questa volta nessuno mi avrebbe fatto muovere un orecchio sul Poggio. Avevo dunque deciso che il luogo dove avrei dovuto tentare qualcosa doveva essere fra la Cipressa e il Poggio; là oppure niente. La corsa si svolse proprio come doveva per me: nessun mal di gambe e grande fluidità nelle pedalate e quindi sono stato di una calma straordinaria. Quando l'olandese F. Maassen, recente vincitore del Giro del Belgio, aveva preso un centinaio di metri di vantaggio, non mi sono dato neppure il tempo di riflettere e di domandarmi se dovevo seguirlo, l'avevo fatto prima di pensarci. Nessuno è potuto rinvenire su noi due e con circa 40 secondi di vantaggio ai piedi del Poggio ho accelerato nella parte più dura della salita e Maassen ha dovuto cedere le armi. Vincere una seconda volta di seguito una classica così importante era una cosa molto rara e bisognava proprio credere ad un miscuglio di forza e scaltrezza e ... questa volta ero tutto solo nella foto al traguardo.
Il giorno dopo il trionfo, Guimard è venuto a cercarmi all'aeroporto ed io rivedo quella scena surreale ; mi ha visto arrivare da lontano, ma è rimasto seduto con l'Equipe, con ostentazione, spiegata davanti al viso. Grande foto mia in prima, evidentemente; era la sua maniera di dire: "Accidenti, ci sei riuscito!"
Sono rimasto piantato davanti a lui per due o tre minuti, ma non ha mosso un ciglio, è proprio il genere di C.G.
Alla fine di quel lungo lasso di tempo, ho ceduto e gli ho detto: "Razza d'imbecille, potresti almeno congratularti ...

 

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Livello Fausto Coppi




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  postato il 06/10/2009 alle 15:13
Non sapevo che ci fosse questa intesa tra Fignon e Kelly; è evidente che c'era molto rispetto tra i due.
Io, per la verità, non ho mai amato molto Fignon, forse perchè mi ha sempre trasmesso un atteggiamento un po' altezzoso.
Leggendo queste pagine, comunque, esce l'immagine di una persona di grande intelligenza e spaventa quasi l'incredibile capacità di autoanalisi che dimostra di avere.
Non sono molto esperto di autobiografie, ma non so se mi è mai capitato di vedere qualcuno che riesca a "leggere" la propria vita in modo così preciso, distaccato ed obiettivo.
Grazie Lemond.

 

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"Per aspera ad astra" Seneca o Eros Poli ... non ricordo

Ad imperitura memoria di quando, dal 4 al 14 marzo 2009, fu "Livello Sean Kelly",
queste stelline pose:

 
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Livello Fausto Coppi




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  postato il 06/10/2009 alle 16:58
Un altro avvenimento che mi è tornato in mente grazie alla traduzione di Carlo-Lemond è la triste storia di Pascal Jules.

Ricordavo vagamente che fosse morto in un incidente, ma non quando e soprattutto non ricordavo che fosse ancora così giovane.

A dir la verità, Laurent si sbaglia sull'età: Jules aveva 28 anni, non 26, ma quel che importa è l'umanità e la sincerità con cui Fignon lo ricorda...


EDIT: e invece forse sbaglia Mémoire du cyclisme... in effetti Jules per altri siti web era nato nel 1961 (Mémoire scrive 1959...)

 

[Modificato il 06/10/2009 alle 17:27 by Bitossi]

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Livello Greg Lemond
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  postato il 06/10/2009 alle 17:58
Anche a me piace moltissimo leggere quello che e come lo scrive Laurent.
Anch'io non ero suo tifoso, tutt'altro, ma come con Di Luca lo sono diventato dopo che ha smesso (per Danilo, speriamo di no).

P.S.

Per Lorenzo Bitossi. "Che significa quell'edit alla lettera? Perché come concetto mi sembra una precisazione".

 

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Livello Fausto Coppi




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  postato il 06/10/2009 alle 21:24
EDIT è ovviamente un termine inglese, entrato come altri (off-topic, thread, cc.) nel linguaggio internazionale dei forum.
Significa in questo caso "revisione" (da to edit, "rivedere", di solito per la stampa), e si usa quindi per correggere un errore (dichiarandolo, senza cambiare il testo), o per aggiungere qualcosa di importante dimenticato nel messaggio (o "post"... )

 

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Livello Greg Lemond
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  postato il 07/10/2009 alle 14:58
Nous étions jeunes et insouciants (XLIII)

Il verme solitario in maglia gialla


Divertirsi impedisce di morire e vincere divertendosi impedisce di ritenersi il re del mondo ... nel gran vento della vita.
I poeti conoscono il modo di sottrarsi al parlare quotidiano, di rappresentare quello che di per sè è difficile, di non accontentarsi di quel che viene e delle apparenze, o con una metafora di rendere più ... i loro pensieri, in modo che le loro bottiglie affidate al mare abbiano una buona e lunga traversata nel tempo. Anche a me talvolta le parole semplici mi respingono ed ho bisogno di complicare il rapporto con il mondo.
L' estrema lucidità su chi mi stava intorno e su di me, non piaceva e quindi decisi di rimanere più discreto.
Dopo la prima vittoria a Sanremo ridivenni subito degno d'interesse ed in qualche articolo lessi, se non amicizia (non amavo confondere i ruoli) almeno una corrispondenza nel vedere la realtà.
Ero in forma in quella primavera del 1988, lo sentivo e volevo approfittarne. Tredicesimo al Giro delle Fiandre, avevo colpito forte due giorni dopo nella Parigi-Vimoutiers partendo sul muro di Champeaux e nessuno mi aveva più risvisto e i miei compagni avevano capito perché volevo assolutamente che restassero tutti davanti pronti a reagire ad ogni scatto.
Avevo ritrovato il mio colpo di pedale ed in quel periodo, anche se può sembrare incredibile, non avevo mai male alle gambe. Certi corridori non mi hanno mai creduto ed infatti ricordo una discussione con D. Garde. Lui affermava che tutti i giorni soffriva, sia durante gli allenamenti, che in corsa; in tutta la sua carriera non aveva mai conosciuto dei "giorni bianchi". Non avevo niente da aggiungere, se non che per entrambi era vero (anche se differente).
Quell'anno, lanciandomi a corpo perso sul pavé della Roubaix, dove non correvo più dal 1984, ero sicuro di ben figurare e lo testimonia la mia maniera furiosa di attraversare la foresta d'Aremberg, dove si opera tradizionalmente la prima selezione: il mio tachimetro mostrava più di 60 km/h! Sean (Kelly) m'aveva detto: " Tu sei pazzo, Laurent, ma hai visto come sei entrato là dentro e a quale velocità? " Invece era tutto il contrario dell'incoscienza, avevo semplicemente ritrovato la piena consapevolezza del mio fisico e della sua possente agilità ed il solo timore era che sparisse di nuovo e che potessi ritornare all'inferno di prima.
E infatti ... sinusite, colpo di freddo e una frattura ad un tratto del trapezio della mano destra alla Liegi: cominciò la lunga serie di colpi di fatica misteriosi, inesplicabili. E quando mi sono presentato al Tour del 1988 mi trovavo in una sorta di solitudine. Se sono le gambe che conferiscono la vera nobiltà, allora ero veramente nell'incertezza massima sul mio rango. Avrei voluto che il tempo si accelerasse, per sapere: "Che io sappia, infine!" Ed ho saputo.
L'innovazione apportata al prologo, fece sorridere tutti: chiamata "prefazione", tutta la squadra partiva insieme ed un solo corridore finiva l'ultimo chilometro!
Questa ridicola trovata dei nuovi organizzatori (si fecero notare molto quell'anno ) ebbe il merito, in solamente 3,8 Km, di darmi un prima indicazione: avevo fatto una grandissima fatica a seguire i miei compagni. La conferma si ebbe due giorni dopo, nella cronometro a squadre, quando tutti i proiettori si piazzarono su di me ed a ragione. Ad una ventina di km. dall'arrivo non avevo più fiato e mi sono fatto proprio prendere dal panico. Dapprima perdevo metri alla minima accelerazione collettiva e poi, mi sono staccato! Non mi era mai accaduto prima e la prima volta sono stato atteso, ma la seconda volta ho detto loro di andare e ho terminato la prova ad un minuto e venti secondi dai miei compagni, molto delusi e tristi per aver perso il loro "leader".
Ero cotto e nessuno, né i medici, né io stesso, comprendeva il perché!
Ed ho continuato così, portandomi dietro la fatica e il mio stato di vuoto fisico; al minimo sforzo ero in difficoltà e la sera mi sdraiavo in camera gravato dalla solita spossatezza. Ho cominciato a riflettere a quanto mi accadeva; da alcune settimane non comprendevo alcune cose e stranamente fino allora non avervo cercato in profondità il motivo.
Dopo la prima crono individuale (arrivato oltre il 30° posto) avevo detto addio alla classifica generale e poi, a Nancy avevo accettato di ricevere un giornalista per un'intervista. Sarebbe dovuto avvenire in camera mia, dopo il massaggio e poco prima del suo arrivo sono andato in bagno ed ho scoperto l'orrore: ho sentito qualcosa sotto di me e mi sono impaurito. Era lungo e molliccio e sembrava che espellessi il mio intestino. Ho chiamato D. Garde che si è messo a ridere, perché si trattava del classico "verme solitario"!
Mi sono girato e l'ò tirato via, era lungo due metri circa, alla fine sapevo quello che avevo avuto.
Quando il giornalista è arrivato, gli ho raccontato la scena ed anche lui si è mostrato alquanto impressionato. La sera stessa ho preso le medicine che avrebbero ucciso quel che restava dell'intruso, definitivamente scacciato dal mio corpo la notte seguente.
Nella undicesima tappa, fra Basançon e Morzine, provo di forze, mi sono obbligato comunque ad arrivare, seppure con venti minuti di ritardo, una sorta di exploit che non serviva a niente, ma rappresentava per me il simbolo della non rinuncia.
Chiamo simbolo tutto quello che aiuta a ritardare l'inevitabile, a scoprire dei segni per un avvenire migliore. Volevo respingere la facilità ed onorara un'ultima forma di coraggio, a partire dalla quale potevo ritirarmi a "testa alta".
Tuttavia avevo raggiunto e sorpassato i miei limiti, ma tutto in me respingeva la sconfitta e rifiutava la fatalità del destino che si accaniva.
La sera stessa ho evidentemente annunciato il mio abbandono, che non stupì nessuno. Il giorno dopo, però, il giornale Liberation pubblicava un articolo allucinante. pieno di perversione e assente invece di ogni professionalità. L'inviato speciale affermava, né più né meno, che avevo rinunciato a continuare il Tour perché sapevo di aver subito un controllo positivo qualche giorno prima. Il tapino non sapeva che non ero mai stato controllato in quella corsa (MAI, dalla partenza fino al ritiro)! L'ò denunciato ed il tribunale l'à condannato per diffamazione. Mi avevano trattato come una persona ripugnante, ma poi la ripugnanza ha cambiato campo.
Voglio aggiungere che prendendo il TGV, dopo l'abbandono, mi sentivo molto sollevato, liberato di un peso che mi gravava molto e mentre guardavo il paesaggio, mi sono sentito come assorbito da un'emozione gioiosa ed allora mi sono messo a leggere alcune pagine di René Char. "La lucidità è la ferita più vicina al sole." (Nota: da altra fonte :La lucidità fa appello alla nostra coscienza, che il vivere conduce al morire. «Et, de tous les êtres ici-bas, de le savoir». E, per tutti gli esseri quaggiù, di saperlo. Sapere sovrumano per una vita interamente umana.) E' terribile da confessare, ma più mi allontanavo dal Tour, più mi sentivo felice.
Non mi erano per niente piaciute quelle due settimane e occorre rammentare che anche il contesto era stato pesante, in quanto la Grande Boucle era stata affidata ad una direzione dotata di notevole incapacità (Xavier Louy, etc.), dopo l'addio di Jacques Goddet e quindi era letteralmente scaduta a "circo ambulante". Quelli che hanno vissuto quell'esperienza se ne ricordano dolorosamente: era il Tour di ogni *non misura*, gigantismo a tutto tondo. Inflazione di vetture invitate, elicotteri in gran numero che quasi toccavano il gruppo e i fuggitivi, turbando lo svolgimento di ogni tappa, i corridori sottoposti ad una tensione/pressione permanente ed erano relagati a semplici figuranti di uno spettacolo, come se la corsa non fosse che un pretesto per giustificare tutto il resto ... il commercio e i fasti.
Questa mancanza di rispetto flagrante ai "Giganti della strada" e al mito del Tour ed alla sua storia, mi ha fatto orrore, sentivo dentro di me quasi una piccola morte.
Ma il gruppo A.S.O. proprietario della Società del Tour non ha fatto due volte lo stesso errore e la nuova direzione non durò che un anno e così quello che poteva diventare il male irreparabile fu stroncato sul nascere ... uhf .
Non bisogna mai confondere divertirsi con il compiere stupidaggini, divertirsi significa evitare di prendersi sul serio, mentre ... vuol dire mettere in pericolo ciò che è veramente serio.

 

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  postato il 08/10/2009 alle 16:30
Nous étions jeunes et insouciants (XLIV)

Il ritorno del grande biondo



I drammi, per fortuna, non costituiscono il menu quotidiano del campione, perché in lui sonnecchia, o almeno pare, il seme rigeneratore.
A 28 anni, l'ottavo anno di professionalismo me ne avrebbe dato un buon esempio.
All'inizio del 1989 ero "leader" unico, perché anche C. Mottet se n'era andato; C. Guimard non era contento di averlo e quindi si può dire che la squadra era piuttosto mediocre, non certo degna di un "leader" in grado di vincere il Tour. Io ne ero cosciente, ma non mi preoccupavo molto e, d'altro canto avevamo recrutato un giovane danese: B. Riis, che avevo notato al Giro della CEE, un ragazzo leale e parecchio forte, in grado di essere un buon compagno di squadra. Appena l'ò visto, avevo detto a Guimard che bisognava proprio ingaggiarlo e la cosa fu facile, perché alla fine del 1988 Riis non aveva più squadra e nessuno lo voleva. Mi ha confidato dopo che, senza la nostra proposta, avrebbe abbandonato il ciclismo! Da quali dettagli può dipendere una carriera!?
Bjarne si disimpegnava bene nelle mischie, era solido, non rifiutava mai i suoi doveri e stare alla sua ruota era un piacere totale, perché sapeva fare tutto. Non avevo bisogno di dirgli niente: stavo a ruota ed al resto ci pensava lui. Un'armonia piuttosto rara e ero proprio contento di non essermi sbagliato in "quell'amore a prima vista", ma non sapevo allora che quest'uomo avrebbe fatto parlare di sé parecchio sovente.
Era, in effetti, una grossa ciclindrata, un gran bel corridore, ma, intendiamoci, incapace di vincere un Tour in circostanze normali e si è saputo dopo, come ha vinto quello del 1996.
Durante gli "stage" invernali, Guimard ci aveva obbligato a degli allenamenti veramente difficili: molti esercizi di forza, per esempio sulla cote di Pont-Réan, ove dovevamo percorrere un circùito che era stato teatro di un campionato di Francia. C'era una salita aspra e Guimard ce l'à fatta fare dieci volte a fondo. C'è da dire però che il giorno prima, eravamo quasi tutti andati a festeggiare e ritornati alle sette del mattino. Ammetto che non era stato per niente ragionevole farlo e che la mia incoscienza si era fatta rivedere. Un'altra prova?
Ritornando in camera, che dividevo con Pascal Simon che aveva firmato proprio quell'anno per la nostra squadra, ho fatto abbastanza rumore. Occorre dire che non ero solo, eravamo in due ad emettere piccoli gridolini nel letto. Simon si è svegliato ed ha cominciato a guardare lo spettacolo che si svolgeva sotto le coperte; aveva l'aria molto interessata il ... tapino! Ma proprio mentre stava giocando il ruolo di "voyeur", noi due siamo saltati fuori dal letto e ... era Barteau l'altro sotto le coperte.
Pascal è stato al gioco ed ha soltanto gridato :"Banda di cretini" Che c'è di meglio di un risveglio mattutino fatto con buon umore?
Pertanto non avevamo dormito in molti quella notte e Guimard, non so come, l'aveva saputo e non era contento e fu proprio quel giorno che aveva, se non improvvisato, sicuramente indurito quella famosa prova di esercizio di forza. Fu infernale. Lo sguardo cattivo di Guimard mi faceva capire che voleva piegarmi, farmi crollare. Ma in quei dieci muri, corsi con rabbia e determinazione, sono sempre passato per primo e si era fatto anche un undicesimo giro supplementare, che Cyrille non ha però mai voluto contare.
Guimard mi aveva messo alla prova, davanti ai compagni ed io, malgrado la notte bianca, avevo saputo rispondere e questa è proprio l'indicazione che ero ritornato me stesso: capacità di vincere e gioia di vivere.
Sempre in quell'anno, fu messa a nostra disposizione una novità tecnica : gli pneumatici Michelin, che rappresentavano una specie di rivoluzione. La tradizione esigeva, soprattutto fra i professionisti, l'utilizzo dei tubolari più fini possibile, in generale 20 millimetri, mentre, non solamente si trattava di pneumatici, ma Michelin ci chiedeva anche di correre con una sezione da 23 millimetri, cosa che a noi pareva impossibile e quindi non eravamo né fiduciosi, né convinti. Certamente i tecnici della casa erano venuti a presentarci i loro studi sulla questione e volevano dimostrare che il contatto con il suolo restava lo stesso: 8 o 9 millimetri. Per essi l'originalità stava altrove e cioè nell'angolo dello pneumatico che in curva avrebbe dato una migliore aderenza.
Come ho detto, eravamo più che scettici e durante i primi allenamenti il nostro disagio fu soprattutto psicologico: avevamo l'idea che quel "grosso" diametro ci facesse perdere velocità e ... poi siamo andati al Tour dell'Alto Var, ove le condizioni erano ideali per testare simili gomme: trombe d'acqua tutta la giornata.
E là, il miracolo c'è apparso evidente: nelle discese, quegli ... ci permettevano di staccare tutti, proprio tutti. Nessuno era capace neppure di prendere le nostre ruote, era favoloso, un'aderenza eccezionale e un progresso tecnico considerevole e, a livello di velocità, la differenza era minima, tanto più che la posizione in sella era migliore.
In quei giorni, leggevo l'Equipe tutti i giorni e la spulciavo in quasi tutti i dettagli; a quell'epoca il giornale riportava i risultati di tutte le corse del calendario. In questo modo verificavo le progressioni degli uni e degli altri e non c'era modo di sbagliare. Se un corridore cominciava ad apparire in certe classifiche, era un segno e ci si poteva aspettare di ritrovarselo davanti in uno dei grandi appuntamenti. Fino alla fine degli anni ottanta, questo riferimento era fondamentale per noi, mentre oggi non significa più niente, ciascuno si allena per conto suo, spesso lontano dalle corse, talvolta in altri continenti. Ai miei tempi ci si vedeva in tutte le prove del calendario ed un corridore non restava mai nascosto, bisognava mostrarsi e stare davanti, perché solo in quel modo si imparava il mestiere e si pregrediva. Ora è sufficiente vincere una tappa in un Tour una volta nella vita per riuscire una carriera: ci si contenta decisamente di poco.

 

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  postato il 09/10/2009 alle 11:59
Nous étions jeunes et insouciants (XLV)


Dopo la mia gloriosa recidiva in Corso Cavallotti, ho portato la "del tutto fresca" maglia della, appunto, neonata Coppa del Mondo. E per essere fresca, lo era davvero, perché quella divisa, senza colore né anima, era soprattutto di una qualità tessile indegna. E al Giro delle Fiandre, sotto la pioggia, non sono mai riuscito a riscaldarmi, malgrado la sopraveste e il "k-way" e dovetti abbandonare. Una volta bagnata, questa maglia ridicola non asciugava più, come la Coppa del mondo, era fatta di vento, non esisteva in concreto.
Spieghiamoci meglio. L'U.C.I. aveva inventato questa Coppa, che aveva solo un lontano rapporto con ciò che avveniva nello sci o nel tennis. Ufficialmente concepita per razionalizzare il calendario e consacrare alla fine della stagione la regolarità di un corridore nelle più grandi corse di un giorno, non sarebbe stata una cattiva idea in sé. Però l'U.C.I. ha arbitrariamente stabilito quali fossero le "classiche" giudicate degne di figurare nella Coppa, definendo le altre, invece, secondarie. Certamente occorreva riformare il calendario, ma non in quella maniera. Allorché era necessario, quasi vitale, dilatare le classiche nel tempo, affinché i corridori le potessero preparare meglio, ma anche per renderle più visibili al gran pubblico, si è scelto invece la concentrazione. Con la Coppa, l'insieme della stagione è stata denaturata, per esempio la Freccia Vallone ha subito d'autorità una cura di di restringimento , grottesco.
Nella storia del ciclismo, intendo la *vera storia* ce ne sono cinque di "classiche": Milano-Sanremo, Giro delle Fiandre, Parigi-Roubaix, L-B-L e Giro di Lombardia, poi Gand-Wevelgem, Freccia Vallone, Parigi-Bruxelles e Parigi-Tours; il resto era una specie di accessorio. Io certo non avevo niente contro l'idea di creare nuove corse, ma non si poteva decretare che "ipso facto" fossero anche subito grandi classiche. Un G.P. di Montréal non valeva niente, confronto alla L-B-L, per non parlare di Classica delle Alpi vs il Giro di Lombardia!
Per non lasciare nulla di intentato, fu anche il momento che si inventarono i c.d. punti F.I.C.P. (ciclismo professionista), perché all'inizio degli anni novanta la grande riunificazione del ciclismo mondiale non aveva ancora avuto luogo, bisognerà attendere la caduta dell'URSS, per la creazione dell' U.C.I.
L'attribuzione di questi punti, concessa in ogni corsa, a condizione di finirla, modificò profondamente la mentalità dei ciclisti, perché essi divennero la "cartina di tornasole" per determinare il valore di un corridore e rappresentavano anche il passaporto delle squadre in vista della partecipazione alle più grandi corse, in particolare il Tour. La corsa ai punti divenne quasi obbligatoria: per gli atleti era una fonte di profitto per negoziare al meglio i loro trasferimenti e per le squadre, acquistare corridori che disponevano di molti punti, voleva dire assicurarsi una ciambella di salvataggio ...
La perversità ufficializzata a tutti i piani, perché lo scopo di molti non era più quello di vincere le corse, ma di prendere i punti e questo modificava in profondità le tattiche di corsa ed assistevamo progressivamente alla svalorizzazione della vittoria. Tutto ciò era ancora più nefasto se si pensa a quanto avrebbe influenzato le nuove generazioni; ciascuno sarebbe diventato egoista e calcolatore.
Fino allora mai il valore di un ciclista era stato calcolato in un modo così sbagliato, mai un buon "gregario" era stato obbligato a finire una classica, a che sarebbe servito arrivare a mezz'ora?
Un aneddoto (nota mia: ma sarebbe stato più appropriato usare l'arboriano *nanetto* ) : partecipare (e naturalmente concluderla) alla sei giorni di Grenoble comportava un accumolo di 25 punti, ma c'è da dire che era una corsa per la quale i corridori partecipavano ... solo su invito.
Lo spirito stesso del ciclismo veniva sconvolto

 

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"Per principio rifiuto di sottopormi a questi controlli. Non sono ostile alla lotta al doping, che ritengo indispensabile tra i dilettanti, ma nel caso di professionisti è differente. Dopo 12 anni di carriera io so quello che devo fare e non voglio che una mia vittoria venga messa in dubbio dalla fantasia delle analisi".

(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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  postato il 10/10/2009 alle 02:14
Senza dubbio interessante il contenuto dell'ultimo post, soprattutto se si pensa alle tante discussioni sul ciclismo d'oggi, specie nei grandi giri (Tour soprattutto) in cui ci si è spesso trovati a commentare azioni di squadre che magari volevano salvaguardare un ottavo o un decimo posto, oppure corridori che hanno timore di scattare e di fare la prima mossa.Fignon non prende in esame proprio la situazione dei grandi giri però è sintomatico notare come si parli di cambio di mentalità soprattutto in funzione di nuove graduatorie stilate all'epoca.

 

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  postato il 10/10/2009 alle 16:36
Nous étions jeunes et insouciants (XLVI)


C'è mancato poco che non potessi correre il Giro del 1989, ma nei mesi precedenti, l'organizzatore Vincenzo Torriani aveva fatto notevole pressione affinché Système U (diventata Super U) si iscrivesse ed era disposto a firmare anche qualche assegno, come era costume in quei casi. Era tuttavia quello stesso vecchio brigante, dal viso gioviale, sempre pronto al sorriso, che aveva concepito nel 1984, alla mia prima partecipazione, un percorso favorevole a F. Moser. E non gli era bastato, perché le aveva tentate tutte, durante la prova, per piegarmi, fino (come di sa) a sopprimere lo Stelvio etc. Erano, per me, ricordi difficili da cancellare. Ma cinque anni dopo, la simpatia dimostratami mi intrigava e mi rendeva molto decontratto, così che anche i miei compagni furono "colpiti" dalla mia calma e tranquillità.
Il percorso proposto si annunciava come uno dei più duri della storia, senza neppure un giorno di riposo e con le principali tappe di montagna concentrate in sei giorni. M. Fondriest, che avevo battuto l'anno prima a San Remo, aveva addirittura dichiarato: "Con un simile percorso Moser non avrebbe mai vinto." Un modo per rendermi omaggio e tutto ciò mi faceva sentire un po' italiano "ante litteram".
Eravamo fiduciosi, certo, ma partivamo con una squadra poco solida in montagna: Garde, Marie, Riis, Décrion, Salomon, Barteau ...
La prima crono individuale creò una specie di gerarchia e là Guimard si sarebbe potuto far prendere da una certa inquietudine, perché ero giunto 8°, concedendo una trentina di secondi alla nuova maglia rosa, l'olandese Eric Breukink, ma io ero cosciente di aver realizzato la mia miglior prestazione dal 1984, per me era quasi una vittoria.
Durante la tredicesima tappa, alla Cime di Lavaredo, uno dei più grandi luoghi di leggende al Giro, sotto un cielo plumbeo e piogge intermittenti, che mettevano sotto le ruote il fango nerastro che si trovava ai lati della strada, mi è sembrato di rivivere l'episodio dell'Alpe d'Huez del 1984. Gli stessi due attori: Herrera ed io e la scena è inserita molto bene nella mia memoria. A 20 km dalla vetta, il colombiano accelerò in quel modo unico, di cui aveva il segreto e Guimard, più prudente e meno fiducioso che mai, ebbe solo una frase da urlare dalla portiera della sua vettura :" Non andare!" Eccesso di prudenza o no, che importa, avevo l'impressione di ringiovanire di cinque anni! E con gli stessi effetti, evidentemente, perché non l'ò più visto ed infatti sono finito secondo a un minuto dallo scalatore tascabile , e secondo anche in classifica generale. La sera, l'americano A. Hampsten, che finirà il giro in terza posizione, ebbe questa frase premonitoria :" Il vincitore di questo Giro non sarà necessariamente il più forte, ma il più intelligente."
Bisognava dimostrare chi fosse il giorno dopo, nella 14a tappa (da antologia). Solo salite, pioveva ancora e la temperatura si avvicinaza allo zero. Di norma, con questo freddo, non sarebbe stato nemmeno il caso per me di partire, ma la mattina A. Gallopin ha avuto un'idea. A quel tempo i massaggiatori ci "impomatavano" prima della partenza per scaldarci i muscoli e tale prodotto si chiamava Kramer e se ne poteva scegliere fra tre, di diversa potenza: rosso il più ... arancione medio e quello di base, per i più delicati. Devo confessare che non sopportavo nemmeno il Kramer di base e quella mattina tuttavia, Alain era molto inquieto per il freddo e voleva in tutti i modi che fossi massaggiato con una di quelle pomate. Ed insistette tanto che io finii per rispondergli: "D'accordo per l'arancione." E lui che fece? Mi frizionò tutto il corpo con il rosso senza dirmelo. Parbleu, eravamo a più di un'ora dalla partenza ma mi bruciava talmente che sono dovuto uscire, malgrado il freddo, per poterlo sopportare. Saltellavo da tutte le parti, era orribile, ma ... il risultato fu che non ho avuto freddo per tutta la giornata!
E tuttavia la tappa era proprio "dantesca" e anche sotto la neve. Ad un certo momento sono andato da Guimard per chidergli che volevo attaccare, dimmi quando. E lui mi ha detto di attendere e rispondeva sempre così tutte le volte che continuavo a chiederglielo. Aveva paura
Malgrado Guimard, ho fatto i miei piani e proprio quando la nebbia ci impediva di vedere la strada, ho attaccato una prima volta a 60 km dall'arrivo, tanto per vedere. Alcuni mi seguirono. Mi rammento che nelle discese mi sforzavo di pedalare per evitare ogni rischio di irrigidimento muscolare. In otto anni di mestiere non avevo mai affrontato simili intemperie, ma ... poi sul Canpolongo sono ripartito, ma, stavolta, più bruscamente. Rispondevo alla violenza degli elementi con un altro tipo di violenza, come se fossi spinto da questo tempo "infame" verso una specie di esaltazione. Il leader, Breukink è esploso, perdendo circa sei minuti e ho preso la maglia rosa. Era cambiato anche il mio avversario principale, che si chiamava ormai Flavio Giupponi, un italiano giovane, ma il pericolo restava, perché c'era sempre il freddo, la pioggia e la neve, non certo cose buone per me, e che mi facevano temere, presto o tardi, di doverle pagar care.
In queste condizioni, che dire allora dell'annullamento della tappa di montagna fra Trento e Santa Caterina, che doveva passare per il Tonale e per il celeberrimo Gavia, reso pericoloso a cause di possibili frane? Era in effetti un regalo, ma avvelenato, perché la stampa transalpina accusò Torriani di volermi favorire. Ma non conoscevamo il tipo? Cinque anni prima aveva annullato lo Stelvio senza motivo apparente, salvo di impedirmi di staccare Moser in classifica, ed ora, si sarebbe riscattato in qualche modo mentre proprio un italiano mi minacciava? Sospettare Torriani di favorire uno straniero era stupido, perché tutti i suoi atti, e la sua vita intiera avevano dimostrato il contrario e anche alla vigilia, desiderava in privato, la vittoria di Giupponi e se avesse conosciuto il mio reale stato di salute, non avrebbe esitato un solo istante a mandare i corridori a sfidare tutti i rischi di quelle strade innevate. Quel mattinoavevo uno spaventoso dolore alla spalla, si rifacevano sentire gli effetti di una caduta sugli sci di dieci anni prima. La calcificazione ossea era così dolorosa che, credetemi, non potevo più muovere il braccio. Se la tappa si fosse svolta la prospettiva di un abbandono era sospesa sulla mia maglia rosa E ciò non avrebbe forse rallegrato tutta l'Italia, compreso il mio "amico" Torriani?
Il dolore cresceva, però non riusciva a portarmi al dramma, ma nella cronoscalata di 10,7 km in vetta al Monte Generoso, quando arrivai, il traguardo mi apparve nella più completa oscurità, aumentata dall'ordine di arrivo, ove conobbi l'ampiezza delle perdite: 17° a 1 e 45 da Herrera e a 33 secondi da Giupponi. La stampa si scatenò, immaginando già un cambiamento di tendenza. Il freddo aveva quasi avuto la meglio e restavano ancora due tappe complicate sugli appennini.
Ma tutti questi "figli di buona donna" restarono con un "palmo di naso", perché un alleato importante tornò in gioco per regalarni un prezioso jolli: il bel tempo. C'era un sole pieno durante gli ultimi tre giorni. La xx tappa si concludeva a La Spezia e io, come la squadra, ho conosciuto una giornata difficile, tranne gli ultimi 6 km. In vetta all'ultimo colle del giorno, che avevo scalato con il morso fra i denti, improvvisamente ho sentito meno male alle gambe e, nella discesa, eravamo rimasti una decina fra cui tutti i favoriti, ho accelerato ed ho preso una quarantina di metri di vantaggio, ma in una curva mi sono ritrovato una moto davanti e ho dovuto frenare, per cui sono stato ripreso, con conseguente collera.
A 500 metri, lo sprint non era ancora stato lanciato, idem a 300 m. e allora tanto valeva provare ed ho vinto la tappa, confermando a me stesso che il ciclismo riserva sempre molte sorprese.
Il giorno prima dell'arrivo potevo perdere tutto in una discesa anodina, mentre mi trovavo alla ruota di Giupponi (nota, nell'originale è scritto Guipponi ) ho perso l'equilibrio e sono finito contro un muretto e Criquellion mi è venuto addosso. Giusto il tempo di controllare i danni, nessuna ferita per fortuna, di aggiustare il manubrio e di rimettermi in sella che mi sono accorto che Giupponi (ancora Gui), con al seguito Hampsten, aveva approfittato della buona sorte per "filarsela all'italiana" e cioè via a pedalare a testa bassa.
La situazione era pericolosa, perché ero del tutto isolato, ma dieci km. dopo avevo ristabilito la situazione ed è inutile dire quale era lo stato d'animo e il mio risentimento si trasformò in 5 secondi di abbuono in uno sprint e altri 3 all'arrivo della tappa, vinta da Bugno; così il mio vantaggio su Giupponi raggiunse 1' e 31", che non era poco, prima dell'ultima cronometro di 54 km, fra Prato e Firenze.
Devo ammettere che Guimard non mi nascose il suo stato di apprensione, ma nell'esercizio in solitario Giupponi non era Moser e quindi non ci furono né emozioni, ne paure particolari. Cyrille mi informava esattamente su quel che accadeva ed infatti ho sempre controllato il mio sforzo per prevenire ogni sia pur piccola crisi e malgrado un elicottero che volava piuttosto basso ... ho finito al quinto posto, contro il terzo dell'italiano, che mi aveva ripreso meno di venti secondi.
Avevo resistito a tutto: al freddo, alla pressione, agli italiani e alla commedia dell'arte del Giro, dove si polemizza per niente, basta un'allusione, un gesto una parola, insomma per me quello è far del cinema, mentre io sono un corridore ciclista!
Prima dei tappi di champagne, della festa e dell'alcol, mi sono reso subito conto di quello che ero riuscito a realizzare: potevo spalancare la porta della leggenda, fino allora soltanto semi-aperta dalle due vittorie al Tour. Perché in effetti ero il terzo francese nella storia (soltanto tre!) e l'ultimo (più nessuno da allora) a vincere il Giro, dopo J. Anquetil ('60-'64) e Hinault ('80-'82-'85). Quando penso che neppure Luison Bobet non c'è riuscito ...
Dopo tutto stavo riparando soltanto l'ingiustizia del 1984, senza peraltro riuscire a consolarmi; i fantasmi degli anni neri erano ben fissi nella memoria, ma con il sorrivo alle labbra e l'incoscienza ritrovata, riuscivo a farli ballare quei fantasmi.
Bisognava che risorgessi per entrare definitivamente nella leggenda del ciclismo, ma un corridore di classe ha questa capacità, no?
Un aneddoto infine. La sera del mio trionfo a Firenze, più preoccupato e sospettoso di sempre, C.G. era venuto a parlarmi a quattrocchi, molto seriamente, mentre io pensavo soltanto a celebrare il successo. Lui invece pensava già a luglio e, guardandomi negli occhi, mi aveva detto: "Lemond sarà al Tour." Io non finsi il mio stupore, tuttavia ... inesistente per tre settimane, l'americano aveva terminato in crescendo, arrivando secondo nella cronometro finale. Si sa quello che accadde al Tour del 1989 ... Ciclismo: "uomo" strano.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 11/10/2009 alle 13:59
Nous étions jeunes et insouciants (XLVII)

"Bluffare?"



Il corridore degli "otto secondi"! Immaginate un po' le settimane che seguirono la mia sconfitta al Tour del 1989, immaginate il sarcasmo di quelli che non mi amavano, immaginate le frasi scabrose e le "scivolate" (nota mia: tipo più bello che intelligente ). Vincere o perdere per un caso, non è mai facile, ma perdere in certe circostanze è ancora peggio.
Dopo tutto quanto detto sui sentimenti e sulle parole, e sapendo che mi rimarrà sempre il ricordo di una ingiustizia, mi dovetti allontanare un po' da tutto ciò e terminare una stagione (1989) eccezionale, malgrado tutto. Ci sono altre due vittorie da considerare: prima il Giro d'Olanda e poi, insieme a T. Marie il Trofeo Baracchi, che rappresentava allora una specie di istituzione, perché Coppi, Merckx e Anquetil vi avevano scritto i loro nomi, e di conseguenza avevano marchiato gli animi di molti. Imporsi lì, ti faceva rispettare e potevi entrare nel gran libro di una certa memoria ed io ci ero riuscito. In più stare fuori dalla Francia mi aveva offerto la possibiltà di una certa tranquillità, un periodo di calma mediatica e popolare.
Sono sempre stato un tipo libero, che esercitava così il suo mestiere e viveva la vita allo stesso modo, divorandola a volte. Con il pubblico e con la stampa, allo stesso modo, non ho mai venduto la mia anima e non ho mai cercato di essere conciliante. Certi ammiratori mi hanno rimproverato talvolta di non firmare abbastanza autografi, anche se li firmavo, ne firmavo molti, ma avevo anche altre cose da fare, come ciascuno può capire. Avrei potuto fare qualche sforzo in più? Probabilmente, ma avrei dovuto ingannare me stesso, solo per piacere di più. Ingannare? Ma per fare cosa? La falsità non era il mio mestiere ed avevo abbastanza esperienza per continuare a riservare la mia rabbia, foga e forza là dove era necessario, senza preoccuparmi delle opinioni degli uni e degli altri.
Ero diverso, certamente e non sono mai stato un ciclista come gli altri. Kelly, Mottet, Duclos-Lasalle o Bugno, corridori che ho conosciuto bene, praticavano il loro sport in modo quasi religioso, secondo i princìpi dettati da sempre. Io rivendicavo il diritto alla differenza, all'indipendenza, all'integrità della mia persona, ma una parte del pubblico, così come la stampa, me le ha rifiutate con un'ostinazione, per me assurda. Si è voluto in tutti i modi "normalizzarmi" , farmi entrare nei ranghi dei gentili, dolci, agnellini o in altre parole dei gregari che seguono il gruppo e per me questo era il colmo.
Non ho mai amato essere un "compagnone" con tutti e devo dire che sono piuttosto fiero di questa specificità, perché solo così ho potuto sempre agire in scienza e coscienza e mai per piacere a ...
Poco prima del Tour 1989, al campionato di Francia, il giornalista sportivo "vedette" dell'epoca, P. Chene, voleva assolutamente realizzare un'intervista improvvisata, ma arrivò molto in ritardo ed allora, dopo essermi scusato, gli ho detto che non potevo più. Avevo veramente un'altra cosa da fare. Deluso, se n'è uscito con questa frase straordinaria: "Ah, è così, dopo tutto quello che ho fatto per te!" Ero stupefatto, vedendo davanti a me un giornalista arrogante che aveva perso la testa e con essa il senso della realtà. La televisione e la piccola notorietà che ne era derivata, aveva trasformato quest'uomo piuttosto simpatico in una "vedette" dello "show-biz" (nota: letteralmente non so che significhi, però il concetto mi pare chiaro), confondendo la sua funzione (quella di giornalista) e le relazioni che credeva di avere con certi sportivi. Ero talmente stupefatto della sua reazione che non ho potuto esimermi dal prenderlo in giro: "Non sapevo che tu m'avessi aiutato a vincere tante corse."
Accusò il colpo, comprendendo la sua "gaffe" ed aggiunse subito: "Non era quello che avevo voluto dire".
Lo so, ma tu l'ài detto ed ora, ciao. In quei momenti ero brutale e non calcolavo mai le conseguenze delle mie reazioni e fra noi due non ne abbiamo più parlato, ma tant'è ... un'altra tribolazione della mia vita professionale.
(Nota mia, da tifoso di Greg Lemond. Mi ero accorto che Patrick Chene condivideva la mia passione per l'americano e mi stupivo come un francese potesse essere così poco sciovinista )
Dal 1985, con i vari episodi di infortuni che avevano suscitato numerosi articoli tendenziosi, ho cercato di proteggere la mia vita privata e la mia intimità e non ho aperto la porta così facilmente come prima. Avevo come messo una barricata ed accettavo solo le interviste che mi interessavano e l'ò fatto così bene che, alla fine degli anni ottanta, esistevano due L. Fignon ben distinti. Il primo, onesto, che annunciava di non voler più rispondere ai giornalisti e il secondo, non meno onesto, ma che taceva e si teneva per sé le proprie idee: un uomo segreto, un Fignon privato che nessuno ha mai veramente conosciuto.
In definitiva, malgrado l'incoscienza dei primi anni, posso affermare che il secondo atteggiamento rispecchiava la mia vera natura, perché se posso dire che avevo le qualità per diventare un campione, non le avevo invece, nella maniera più assoluta, per divenire un uomo pubblico.
Arrivato a quel momento della mia carriera ad un età abbastanza matura, potevo tuttavia commettere un altro grosso errore. Avevo accettato di partecipare al famoso "Gioco della verità" di P. Sabatier, ma poco prima Coluche aveva fatto saltare per aria tutto. Per fortuna l'emissione è stata sospesa ed io ho evitato così di distruggere l'immagine che mi ero saputo costruire, quella di chi vuol proteggere la sua vita privata.
In quei momenti, mi sembra si stesse verificando uno stravolgimento nello spettacolo, che cominciava a spingere i giornalisti, in maniera alternativa, piaggeria o offese, senza poter comprendere perché e per come si passasse dall'una all'altra senza soluzione di continuità.
Il campione esiste solo per quello che fa, non per il ruolo che gli dànno dietro ai microfoni, ma che volete, il giornalista è spesso come l'òrco delle favole ... ama la carne fresca e quando invece gli sembra un po' dura ... cambia tipo di selvaggina.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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  postato il 13/10/2009 alle 11:15
Nous étions jeunes et insouciants (XLVIII)

E' vero, ho sbagliato


Non sono uno che crede a qualsiasi cosa e, secondo me, cerchiamo troppo le foto appuntate nella nostra memoria, dove cerchiamo il colpevole. Il nemico sovente è proprio se stesso e se l'immagine nello specchio non è che un riflesso, è comunque ben utilizzata per ...
Eccoci dunque a scrivere di una delle mie "fautes" (nota: un po' più di errore, in francese; confrontare la famosa frase di Talleyrand "C'est pire qu'un crime; c'est une faute") più grandi. Verificabile e verificata e ormai confessata, senza tentannamenti o esitazioni.
"Positivo alle anfetamine" Al G.P. della Liberazione di Eindhoven, io Laurent Fignon e questa volta era la pura verità.
Ma in questa epoca di sospetto generalizzato, dove il doping da tutte le parti ha ucciso i sogni e il senso delle parole, dove tutte le frontiere dell'inaccettabile sono state superate, come possiamo spiegare, senza giustificarsi? Comunque proverò a spiegare.
Se prendessi, dato il distacco dagli eventi, la cosa alla leggera, potrei anche sostenere che il colpevole indiretto si chiama Alain Gallopin e potrebbe anche testimoniare. Sua moglie stava per partorire ed io ero in piena preparazione per il G.P. delle Nazioni e quindi, insieme ad Alain, sostenevamo delle sessioni di allenamento pittosto forti: molti km, un numero notevolissimo di sprint e parecchie "cotes".
Dieci giorni prima dell'appuntamente di Cannes, un mercoledì, avevamo previsto uno di questi allenamenti di c.d. "interval training" dietro la moto, ma arriva una telefonata e Alain deve andare in clinica per il felice avvenimento. Niente da dire, salvo che mi sono ritrovato solo con la mia bici, con il morale "sotto i tacchi", perché non avevo nessuna voglia di farmi male "tutto solo", mi vedo ancora esitare ad inforcare il mezzo meccanico ... insomma non avevo nessuna voglia di andare.
Da solo, di fronte alla mia stupidità, per darmi coraggio ho, in effetti, preso una dose di anfetamine, non soltanto per spingermi a partire, ma soprattutto per percorrere i km. supplementari, affinché l'allenamento fosse duro e servisse allo scopo. Quelle dosi. si chiamavano già allora "pot" , la sola differenza era che all'epoca questi "pot" erano puri, senza additivi, contrariamente a quelli che circolavano alla fine degli anni novanta, per esempio, nei quali si poteva trovare tutto un miscuglio di sostanze dopanti.
La mia stupidaggine è stata aggravata dal fatto che avevo sentito dire che quelle anfetamine non lasciavano traccia nelle urine dopo 48 ore ed il G.P. della Liberazione si sarebbe disputato quattro giorni dopo: nessun rischio, mi sono detto.
Nessuna inquietudine, tanto più che il giorno prima avevo disputato anche il Giro del Lazio ed al controllo sono andato a mingere senza preoccuparmi di niente, perché avevo proprio dimenticato l'episodio del mercoledì.
Quando ho appreso la notizia, ero costernato, ma cosciente delle mie responsabilità e la conferma ufficiale non tardò ad arrivare.
Che aggiungere di più, se non che mi sentivo un po' miserabile e sporco? Certo, potevo dirmi che un'anfetamina non era gran cosa, dopo tutto, ma la depressione era comunque dentro di me, perché l'onta della debolezza manifestata non trovava origine nell'atto in se stesso, ma nella sua motivazione: così immotivata, così stupida!
Poco dopo, mi sono ritrovato al G.P. delle Nazioni, motivato come mai, da settimane e settimane non pensavo che a quello e il giovedì avevo addirittura festeggiato senza ragione e Gallopin mi aveve messo in guardia: "Laurent, stai attento, ma che fai?" Ma lui, meglio di tutti, sapeva che mi ero ben preparato ed io pensavo, anche se confusamente e senza osare confessarmelo, che il 1989 era forse l'ultima occasione di vincerlo ed in maniera tale da restare nella memoria. Fino a quell'anno, C. Mottet deteneva il record sul percorso e io non ho fatto le cose a metà, abbassandolo di 1'49", riuscendo a realizzare la media di 45,6 km/h. Chi si ricora al giorno d'iggi quanto quel circùito fosse sellettivo e difficile?
Posso dire che quel giorno ho espresso una tale violenza fisica che, riflettendoci dopo, posso ben convincermi che certi osservatori omniscienti vi avrebbero potuto ben percepire quasi un "canto del cigno", l'ultima traccia di autentico eroismo di un campione che aveva vissuto quel giorno al limite del suo orgoglio e delle sue possibilità umane. La mia forza ero io, non c'era più distinzione fra l'atleta e l'uomo, riunite infine in una esplosione ultima.
Ma io allora non lo sapevo ed Alain mi aveva detto quel giorno: "Quando sei in forma, per te è tutto possibile." Ed infatti, finivo l'anno come numero uno al mondo.
Occorre sapere che questo non rallegrava per niente qualcuno ed infatti durante la sei giorni di Paris-Bercy fui uno degli attori di una storia mediatica piuttosto spegevole. Il ministro dello sport, l'ex campione R. Bambuck, aveva proposto una nuova legge antidoping, che autorizzava i "controlli a sorpresa". Durante quella sei giorni, non dubitavamo che ci sarebbe stato quel genere di controllo, ma fummo invece molto traumatizzati dalla presenza delle telecamere di TF1, che erano venute per filmare le gesta del medico federale, G. Dollé, rappresentante del ministero. Immagini prese all'insaputa dei corridori, ma con l'avallo del ministero che voleva farsi grande pubblicità! Per la prima volta nella storia del doping, le telecamere erano state ammesse a filmare lo svolgimento del controllo, profanando l'intimità dell'atleta in questione. Eravamo disgustati dal procedimento ed abbiamo tutti deciso che non sarebbe mancata la nostra reazione!
Fra parentesi, va detto che i miei rapporti con Bambuck, attraverso nostre interviste alla stampa, non erano troppo cordiali, anche se non ero stato io a colpire per primo. Dopo il controllo positivo a Eindhoven, il ministro aveva detto: "Questo povero ragazzo ..." Ero stato offeso e ormai conoscete il mio carattere, per cui ho risposto: "Quando non si conoscono le cose, è meglio tacere." In effetti avrebbe dovuto star zitto, vista la sua funzione di ministro, invece di dare lezioni, degne di essere destinate a dei bambini delle elementari!"
Non ho mai amato le cattiverie ed ancora meno il "voyeurismo", d'altra parte J. Goddet in persona, che era il direttore del palazzo omnisport di Paris-Bercy, era insorto contro la presenza di quelle telecamere attirate "dall'odore di piscio"
Goddet aveva dichiarato ai giornalisti di TF1: " Voi siete in un luogo privato e quindi, a prescindere dal mandato del ministero, non darete alcuna versione filmata (in immagine) di quanto accadrà fra poco nella stanza del medico federale. Per ogni altra emissione, sarete i benvenuti da noi, ma per quanto pretendete oogi, è un NO fermo e definitivo, voi non metterete in ridicolo i corridori! "
Non si poteva toccare impunemente Goddet e il suo intervento fu decisivo.
Eravamo alla prima ora del mattino (circa) [nota mia: a Monterappoli (una frazione di Empoli) avrebbero detto alle 25 ] ed eravamo impegnati in una caccia; io ero in testa dall'inizio della serata ed insieme ad altri nove corridori, fra i quali il mio compagno Freuler, Mottet, De Wilde, Doyle etc, siamo stati convocati, appena scesi dalla bici, in infermeria, precisamente nei sottosuoli, dove G. Dollé aveva installato il suo quartier generale. Le telecamere non c'erano, sotto la pressione congiunta dei corridori, di Goddet e del presidente della Federazione ciclistica francese, F. Alaphilippe. Avevamo giusto un'ora per presentarci al controllo ed io mi sono presentato volutamente all'ultimo minuto legale: erano le 1 e 50, mi pare, precise quando ho aperto la porta dell'infermeria. In questo locale, dagli ampi soffitti, con i muri decorati da manifesti rari, il dottor Dollé ha tentato di stabilire un dialogo, ma io, sprofondato nella lettura di un giornale che avevo portato allo scopo, sono rimasto muto. Infatti avevo deciso di prendere tutto il tempo ed anche di più, volevo proprio prolungare il mio soggiorno lì, lasciandogli credere che non riuscivo ad urinare.
Ben dopo le tre, Dollé a cominciato ad assopirsi ed allora, appena ho visto che sfiorava il naso sul tavolo, ho urlato: "Non si dorme qui, altrimenti potrei truffare!"
Era veramente molto tardi (o molto presto ) quando mi sono deciso a riempire il flacone, infatti, quando sono rientrato a casa, era l'alba.
Non avevo niente contro i controlli a sorpresa, ma sopportare quel miserabile colpo mediatico era al di sopra delle mie forze, perché in quel caso non si trattava più di prevenzione, ma di repressione-spettacolo. La lotta al doping non giustifica tutto, ma non avevamo ancora visto niente, né dal punto di vista delle pratiche dopanti, né da quello dei modi di cercarlo.

 

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"Per principio rifiuto di sottopormi a questi controlli. Non sono ostile alla lotta al doping, che ritengo indispensabile tra i dilettanti, ma nel caso di professionisti è differente. Dopo 12 anni di carriera io so quello che devo fare e non voglio che una mia vittoria venga messa in dubbio dalla fantasia delle analisi".

(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 14/10/2009 alle 16:15
Nous étions jeunes et insouciants (IL)

Il leader e l'appannamento


Gli anni della diversità si stavano per aprire davanti a me, anche se non lo sapevo, o meglio non lo volevo sapere, rifiutavo di ammetterlo. Comunque non ho veramente memoria, nei dettagli, di questo processo di invecchiamento del campione, appena rimesso da un infortunio sportivo che, ad opinione di molti, poteva anche essere mortale. Lo scivolamento progressivo verso ciò che si poteva chiamare la fine della mia carriera era, in ogni modo, cominciato e di questo ero affatto cosciente. La fine della collaborazione con S.U, ai miei fianchi per quattro lunghi anni, non avrebbe di per sé significato un rovesciamento importante, perché con Cyrille eravamo riusciti ad anticipare la transizione e ben prima dell'inizio della stagione 1990 avevamo il sostituto all'altezza: Castorama, perché in effetti già prima del Tour 1989 conoscevamo il nome del nuovo compagno di strada. Quanto a S.U. i dirigenti avevano di che mostrarsi sodisfatti: nel 1986 il tasso di notorietà del marchio era dello 0%, perché tutti credevano fosse il nome di una colla e non di un supermercato! Quando la collaborazione cessò il tasso era passato al 40% e quindi il ritorno era considerevole ed infatti gli sponsor dell'epoca non si lamentavano certo di aver investito nel ciclismo, anzi ...
Nella fase preparatoria avevamo immaginato (insieme) una maglia stile "salopette" che avrebbe richiamato l'abbigliamento dei venditori della nuova ditta che era il leader francese nel "bricolage". In seguito questa tenuta farà scuola nel ciclismo. Il P.D.G. J.H. Loyez si sentiva sulle nuvole, tanto più che quell'epoca era favorevole dal punto di vista sociologico ad uno sviluppo del "bricolage" nelle case dei francesi. Castorama in qualche mese si sviluppo dal punto di vista mediatico in maniera direi fenomenale: noi eravamo la miglior squadra dell'esagono, io ero il numero uno mondiale e la coppia Guimard-Fignon attirava sempre e comunque su di sé i riflettori.
Un episodio fece tuttavia raffreddare le nostre relazioni, fino allora eccellenti col signor Loyez. Ufficialmente avevamo loro venduto l'integralità dello spazio pubblicitario disponibile sulle nostre tenute o, per lo meno, era quanto avevano capito alla fine delle discussioni, ma Guimard la pensava diversamente. Il giorno in cui abbiamo presentato maglie e pantaloncini non vi dico quale fu la reazione dei rappresentanti del nostro sponsor quando si accorsero che noi avevamo continuato la nostra collaborazione con Raleigh, il cui nome figurava sui "cuissard". Cyrlille non gli aveva detto nulla ed io credo che non avesse osato informarli: era ridicolo e rischoso, ma lui ...
Questi bravi responsabili di Castorama, di fronte al fatto compiuto, hanno di sicuro creduto ad un imbroglio e quindi già all'inizio la fiducia era venuta meno e i nostri rapporti furono sempre condizionati dai loro sospetti e qualunque cosa gli proponessimo, ci pensavano sempre due volte, prima di dare il loro avallo.
La mancanza di trasperenza di C.G. simbolizzava in pieno la situazione del momento fra noi due: i legami diventavano meno solidi, ogni giorno un po' di più, le discussioni si ampliavano e la cosa più grave si affievoliva l'amicizia, quella specie di mutua lealtà, alchimia curiosa fra due uomini che permette loro di parlare di tutto a qualsiasi ora del giorno o della notte, senza calcoli, né tabù. Stavamo entrando in un tunnel oscuro, fatto di incomprensioni e non sapevamo ancora dove ci avrebbe condotto.
Per delle questioni poco importanti, che occasionarono uno scontro sproporzionato, Guimard si sbarazzò di Guy Gallopin, il fratello di Alain, che in due anni era riuscito a mettere il giusto olio nelle ruote di tutta l'organizzazione, con una competenza ed altruismo che non non aveva uguali e quindi, subito dopo, riapparvero i problemi che avevamo avuto nel 1986 e '87. Tutto ciò mi faceva arrabbiare in maniera feroce, ma appena provavo a discutere con Cyrille, egli subito si dava alla fuga, rifiutando di ascoltarmi.
Il debutto dei nuovi colori, molto visibili nel gruppo, fu accellente. Gerard Rué vinse il Giro del Mediterraneo ed io avevo finito al quarto posto la classifica generale della Parigi-Nizza e per me la stagione sembrava dovesse assomigliare a quella precedente, quindi non potevo sperare di meglio.
Però la mia superiorità alla MIlano-Sanremo non si riprodusse, malgrado la cura che avevo messo nei miei allenamenti, del tutto identici ai miei due anni precedenti. Ma gli italiani volevano che questo dominio cessasse in tutti i modi e ci avevano riservato una brutta sorpresa fin dall'inizio della corsa. Allorché, come sempre, ero in fondo al gruppo, un numero molto alto di corridori ha preso il largo. Non la consueta fuga della mattina, era una sostanziale parte del gruppo, con dentro grandi nomi e buona parte dei favoriti, che mi aveva lasciato indietro. I nostri sforzi furono vani e Gianni Bugno, giovane gloria nascente del ciclismo italiano ha concluso da vincitore, facendo in modo che l'Italia potesse tornare a ... respirare. Anch'io ho potuto farlo, perché poco dopo ho trionfato al Criterium Internazionale, prova che avevo già vinto, come neo-pro nel 1982. Fu una corsa di gran movimento e la vittoria la devo soprattutto alla mia esperienza e regolarità, perché non vinsi neppure una tappa. Era digià la seconda vittoria di prestigio per Castorama e per me fu anche l'ultima in una corsa a tappe di primo piano. Come avrei potuto pensare allora che fosse possibile una cosa simile !?
C'era qualcosa che non andva più in me, ma cosa? Per es. alla Ronde 90, allorché mi sembra di volare ed il tempo era bello, ero riuscito con uno sforzo violento a riprendere il gruppetto in fuga, ma appena rientrato, tutti, proprio tutti, rifiutarono di collaborare con me. Naturalmente ero in collera, perché non capivo il loro atteggiamento, però la mia reazione, rispetto al passato fu diversa: invece di tentare subito di distanziarli, pronto anche a pagarne le conseguenze, mi sono fermato e sono subito sceso dalla bicicletta, in altre parole ho abbandonato la corsa
Di fronte a quell'atteggiamento collettivo, che avevo percepito come il segno di un grande cambiamento, per me non c'era più possibbilità di riconoscermi in quei costumi, che relegavano l'onore e il sacrificio fra le anticaglie!
Devo aggiungere che quell'episodio lasciò molte tracce.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 15/10/2009 alle 18:52
Nous étions jeunes et insouciants (L)


A partire da quel giorno, potrei quasi cessare di scrivere sulla fine della mia stagione 1990, tanto i fatti che seguirono furono catastrofici. Uscendo dalle classiche totalmente "prosciugato" (27° a Parigi-Roubaix, per esempio), ho quasi avuto la pleurite e quando mi sono lanciato nel Giro d'Italia con il numero uno, avevo uno stato mentale poco conforme a quello che avrei sperato. E, contrariamente allo stesso periodo di un anno prima, si impadroniva di me il riflesso della mia ombra che mi spingeva a credere di trovarmi nella peggiore situazione possibile.
I primi giorni, quando non mi pareva di essere ridicolo, anzi, ho comunque perso del terreno sul futuro vincitore, Gianni Bugno: 29 secondi nel prologo e 47 secondi nell'ascensione al Vesuvio. Poi la cattiva fortuna, che mi aveva risparmiato l'anno prima, doveva incrociare di nuovo la mia ruota e disegnarmi un brutto destino. Nella quinta tappa, fra Sora e Teramo, al 150° km esatto, fummo in molti ad essere sorpresi nella traversata di un tunnel; non si vedeva niente! Ho vagamente inteso dei colpi di freno, dei rumori secchi e sordi, poi, dopo un volo alla cieca, mi sono ritrovato a terra, senza comprendere niente di ciò che mi stava capitando, mi sono solo accorto di essere caduto pesantemente. Eravamo al buio, sentivo urla da tutte le parti e quando mi sono rialzato ho "visto" i pantaloncini tutti insanguinati ed ho subito capito, dal dolore che mi paralizzava tutta la parte inferiore del corpo, che mi ero fatto veramente male. Sono rimontato sulla bici ed ho finito la tappa, pensando che sarei potuto .., ma laverità fu violenta: avevo lo spostamento del bacino. La sofferenza non mi lasciò più e quattro giorni più tardi, durante la nona tappa, sono arrivato alla fine di me stesso ed ho abbandonato sul le rive del mar Tirreno, mentre c'era una nebbia spessa. Il Gruppo neppure mi vide e quando detti un ultimo sguardo, era già lontano.
Ero "moribondo" e chi mi stava intorno, molto inquieto e mi ricordo che, al mio ritorno a Parigi, Alain Gallopin tentò di rassicurarmi, di proteggermi, invitandomi alla più assoluta pazienza per evitare di farmi prendere dall'irritazione. Ma il mio morale era distrutto, parlavo poco e niente accadeva come previsto: il mio fisico in seguito a quella caduta, si rifiutò di funzionare per diverse settimane, e mi avrebbe mai concesso un momento di respiro?
Partendo dal Tour 1990 a Futuroscope, nel centro del parco di attrazioni aperto tre anni prima e interamente dedicato alla modernità ed alle nuove tecnologie, fu invece un uomo affaticato e senza spirito a presentarsi. Senza illusioni. Thierry vinse il prologo, mentre io giunsi al 15° posto, poi cominciò la Beresina! Certi specialisti del ciclismo hanno spesso spiegato che i più deboli cadono più facilmente; vai a saperlo?! Quello che mi ricordo è che in effetti non ero al meglio psicologicamente e quando mi sono ritrovato di nuovo al suolo, nella terza tappa verso Nantes, ho sentito la folgore dell'ingiustizia abbattersi su di me, come una nuvola d'inverno. Non ho detto niente, ho solo sopportato il mio supplizio fisico, non accordando alcun credito a quelli che mi volevano "consolare", perché si apettavano che mi lamentassi.
Mi sono dovuto quasi subito arrendere all'evidenza. Il giorno dopo, fra Nantes e M. Saint-Michel sono stato incapace di evitare di farmi distanziare in una frattura del gruppo per una caduta collettiva ed ho concesso una ventina di secondi. La vittoria nel Tour non era ormai che una lontana illusione, ma il colpo di grazia avvenne subito dopo e, lo confesso, fu più mentale che fisico. Fra Avranches e Rouen, sotto una pioggia che uccideva le speranze, il gruppo, per una oscura ragione, andava ad una velocità sostenutissima e gli attacchi si succedevano l'un l'altro. Ma io non c'ero, al mio posto il dolore e il mio corpo si sgonfiava, mentre la mente vagava. Perché avevo tanto male a restare me stesso? Perché il "dio" de ciclismo sembrava abbandonarmi cosi repentinamente? Perché la sfortuna e i contraccolpi si accanivano su di me? Insomma perché la sorte mi tormentava tanto più degli altri?
La mia rivolta fu silenziosa, al Km. 124, mentre ci avvicinavamo al rifornimento di Viller-Bocage, senza forze, e già nel limbo della piccola storia del Tour, mi sono lasciato distanziare da un plotoncino che era alla caccia del gruppo principale, poi ho frenato, sono sceso dalla bici ed ho strappato il mio numero, senza una parola, solo la fierezza del gesto: strappare il proprio numero, non era un abbandono ordinario e neppure una capitolazione. No, era un gesto, insieme disincantato e orgoglioso, a un vai a fare in c... al destino.
Secondo me non bisogna mai rifiutarsi di fare un gesto simbolico, quando se ne presenta l'occasione, anche nella tristezza infinita. Altrimenti, dopo gli si corre sempre dietro, cercando confronti o scuse, come un supplemento di coscienza o, in altre parole, un'eterna corsa contro il tempo. E questo tipo di gara noi ciclisti la conosciamo e si disputa sempre in solitudine.
Mi ricordo che la sera, in uno stato di depressione molto pronunciata, ho ripensato alla frase detta ad Alain più di una anno prima: "Il 1989 sarà l'ultimo anno per vincere il Tour." E quello del 1990 andava via senza di me e non potevo togliermi l'idea che la mia premonizione si sarebbe avverata. Era assurdo pensarci di già, ma totalmente realista per uno come me.
La fine della stagione ha lasciato pochi ricordi in me e pure senza interesse, perché assomiglia alla traversata del deserto.

 

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Livello Greg Lemond
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  postato il 16/10/2009 alle 14:38
Nous étions jeunes et insouciants (LI)


All'inizio del 1991 avevo una sola idea in testa: non rivivere una stagione come quella dell'anno precedente, *MAI PIU'*.
Era comunque arrivato il momento del dubbio e l'interrogativo riguardava anche la mia vita, non solo la carriera. Cominciavo a domandarmi se avevo ancora voglia di soffrire perdutamente su una bicicletta, sapendo che non ero più l'atleta del 1983 e che mi conveniva smettere di scimmiottarlo. Non era solo una questione di coraggio, ma riguardava soprattutto il desiderio di continuare o no a vivere l'esistenza del corridore ciclista, con tutti i sacrifici per l'uomo che essa comporta.
Qualche settimana prima mi rivedo molto bene mentre confido a C. Guimard l'ampiezza della mia amarezza-delusione-depressione ed al contempo proporgli, nel modo più serio possibile, le mie idee riguardo allo sviluppo dei nostri affari con Maxi-Sports.
Avevo 30 anni e lui 13 di più e mai prima di allora avevo mai creduto di potergli fare tanta paura!? Ripensandoci, credo che Guimard abbia pensato che volessi prendere il suo posto, perché l'idea di due "manager" a gestire i nostri affari per lui era inconcepibile.
A me sembra che fosse stupida la sua reazione, perché non avevamo nessuna ragione di pestrarci i piedi e poi ci conoscevamo molto bene, ma, istantaneamente, ho sentito che in lui si formava, come dire, un nodo alla gola, e da quel giorno non mi ha più guardato nella stessa maniera. Vedeva in malo modo il mio desiderio di partecipare di più alla gestione della squadra!
Quanto a me, dopo dieci anni di professionalismo, ero arrivato alla fine del mio ciclo naturale di rigenerazione: ogni dieci anni è per me necessario che qualcosa di fondamentale cambi. Guimard non era d'accordo, ma si è ben guardato dal dirmelo chiaramente, guardandomi negli occhi. Luc Leblanc aveva firmato per la squadra in quell'anno ed io ho subito visto che Guimard cercava di utilizzare contro di me la sua megalomania e il suo arrivismo. Cyrille lo manipolava e Leblanc senza scrupoli, contrariamente a quanto dichiarava davanti ai microfoni, non desiderava altro e si prestava al gioco della perversione con un piacere che mi confondeva.
Guimard non assomigliava più a Cyrille; l'uomo che avevo tanto amato si allontanava irrimediabilmente, spinto anche dai dirigenti di Castorama. In effetti, contro ogni aspettativa, costoro cominciarono a metterlo sotto pressione; non solo volevano conoscere i nostri conti, sapere quanto erano pagati i nostri corridori, ma la cosa più grave fu che cominciarono ad esigere un'altra cosa, oltre ai risultati: la mia presenza alla TV! Sì, avete letto bene !? L'ingranaggio degli "anni di piombo" cominciava sotto i miei occhi sbarrati. Fino allora non era mai accaduto niente di simile ed pure Guimard era stupito e se anche non mi ha mai detto niente al riguardo, ho comunque l'intima convinzione che mai prima avesse avuto simili pressioni, né da Renault, né da S.U.
Dovevamo rispondere ad una nuova domanda di ritorno dell'investimento fatto da Castorama, il nostro "universo" cambiava e questo non mi piaceva, perché mai avrei immaginato che uno sponsor potesse immischiarsi nei nostri affari sportivi fino a quel punto e quindi trovavo la cosa degradante per la squadra e per la nostra integrità. Ma Guimard, che si era sempre trovato male con loro, ma che aveva anche perso già dall'inizio ogni credibilità, non aveva le armi per resistere in un modo o in un altro e rifiutò di rispondere picche.
Mi pareva di camminare su un terreno sconosciuto e Guimard si allontanava sempre più da me, prendendo decisioni senza nemmeno riferirle al suo "socio" (io), il quale, in mezzo a tutto ciò, cercava invano il suo colpo di pedale e le motivazioni, senza le quali, era impossibile immaginare il meglio.
Nella Parigi-Nizza che finivo ad un 10° posto, poco conforme alle mie ambizioni, avevo avuto un'enorme scontro con Guimard. Nel corso di una tappa dove dovevamo restare piuttosto sulla difensiva, tutto ad un tratto, avevo visto parecchi miei compagni di squadra prendere la testa del gruppo e tirare come se avessero dovuto difendere la maglia gialla. Non comprendendo niente, sono andato a chiedere il motivo del loro comportamente e uno di essi mi ha gridato: "Ce l'à chiesto Cyrille." La spiegazione era semplice: costui aveva messo a punto una tattica machiavellica contro la Toshiba, senza nemmeno avvisarmi, era impensabile! Fino allora avevamo sempre discusso insieme della tattica di corsa, scambiato i nostri punti di vista; questa era la prima volta che agiva così e ... mi sono sentito tradito.
La sera in albergo volarono della parole fra Cyrille e me, per essere più esatti, delle grosse "parole" di reciproca violenza e per la prima volta della nostra vita fu chiaro che non ci amavamo più.
Una cosa incredibile accadde alla Parigi-Roubaix, Guimard venne da me in un momento per niente strategico e mi chiese di andare in testa al gruppo, perché nessuno della squadra era davanti. Non avevo ben compreso sul momento, perché voleva una simile vigilanza, ma ho tenuto conto dei suoi "desiderata" ed ho applicato pedissequamente la sua tattica. Ho saputo la verità solo dopo. Verità oscura, che non avrebbe potuto confessarmi in diretta, sapendo quale sarebbe stata, altrimenti, la mia reazione!
I dirigenti della Castorama avevano reclamato una presenza alla TV, ed esattamente qualche primo piano all'ora precisa nella quale sarebbe cominciata la diretta, in modo che proprio all'inizio del collegamento le telecamere potessero filmare i colori della lora marca. Io mi sarei rivoltato all'uso di una simile pratica, l'importante nella Parigi-Roubaix era di essere davanti nel finale, non di mostrare il filmato della TV per non si sa quale "show"! Era la prima volta che si esigeva e si otteneva (a tradimento) da me una *presenza pubblicitaria*!
Inutile dire che Guimard ha sentito il suono alto delle mie lamentele quando sono venuto a conoscenza di questi ... negoziati con lo sponsor e dopo questo nuovo scambio verbale molto violento, mi sono convinto, sebbene con emozione ed amarezza, che le nostre divergenze erano diventate insanabili e che avevamo deciso, senza nemmeno dircelo, di non parlarci mai più e anche, meglio, di evitarci.

 

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Livello Greg Lemond
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  postato il 17/10/2009 alle 17:35
Nous étions jeunes et insouciants (LI)


Fino a che punto l'interruzione dei rapporti umani con l'uomo con il quale avevo diviso, fino ad allora, tutta la mia vita sportiva, dunque la parte più importante, ebbero conseguenze oltre il lato sportivo? Non saprei dire, anche perché proprio in quel periodo ho cominciato ad avere seri problemi personali anche con mia moglie. Avevo sempre più difficoltà a ritornare a casa con gioia e leggerezza; la quiete e la pace che mi sembrava giusto aspettarsi dal domicilio domestico si stavano trasformando (anche lì) in momenti di tensione. E non vedevo possibilità di rimedio.
Rammento la sensazione dolorosa dei dubbi che mi pervadevano: tutta la mia vita sembrava andare in pezzi e, più il tempo passava, più tutto quello che mi circondava richiamava la più totale sconfitta personale e senza che io mi potessi dichiararmi colpevole, se non per le mie controprestazioni sportive. Credo di essere stato completamente svuotato da tutto quanto mi accadeva: dalla vita a cento all'ora ed anche dalla ripetitività che era divenuto il mio lavoro in quegli anni; la stessa squadra, stessi dirigenti ed anche mia moglie faceva parte dello ... *stesso*.
Era delicato da ammettere per l'uomo che ero, ma avevo bisogno di cambiare, addirittura di una rivoluzione e quel che doveva arrivare ... arrivò.
C. Guimard, non contento di non poter più parlare con me, aveva finito per complottare contro e per il Guimard dell'epoca, che godeva di un credito supremo sia dalla stampa che dal grande pubblico, non era molto difficile convincere chi voleva lui. Ad es. per spiegare alla stampa le mie cattive prestazioni, inventava malattie ed infortuni immaginari, anche piuttosto grotteschi e certi giornalisti ci credevano pure, assistendo da lontano alla rottura dei nostri rapporti. Non sapevo dove si sarebbe spinta la perversità di C.G. in questa storia, ma quando al Giro di Puglia ho vinto una tappa ed ero contento, mi son reso conto che lui invece no, indovinate perché? Se non avessi mai ... il suo piano machiavellico aveva previsto di non selezionarmi per il Tour (appena quello )
Quel giorno ebbe sfortuna, perché non soltanto ero riuscito ad elevare le braccia al cielo, ma mi sentivo anche ben preparato per la "Grande boucle". I suoi piani non erano più ... almeno fino ad un certo punto.
Prima del campionato di Francia, in effetti sono stato convocato da C. G. e J.H. Loyez. Durante la stagione avevo chiamato proprio lui per spiegargli a viva voce che la collaborazione con Guomard era in un periodo complicato e che non sarei rimasto nella squadra l'anno seguente, a prescindere da quello che poteva succedere e dalle mie decisioni sul proseguio della carriera. Ero però lontano dall'immaginare quello che si sarebbe verificato in quella riunione, che assomigliò più che altro, dall'inizio alla fine, ad un processo.
Appema seduto c'è stato subito un attacco in piena regola di Cyrille, che mi accusava di non fare più il mestiere, di ammorbare la la vita della squadra e di non prendere in considerazione le esigenze della stampa e dei media in generale, etc. E poi aggiunse: " Occorre a questo punto che tu dica pubblicamente di rinunciare al Tour."
Sono rimasto "sur le cul" (nota: mi sembra giusto, riportare l'espressione in francese, tanto la capiscono tutti ), è proprio il caso di esprimersi così! Ma ho replicato immediatamente, con calma, e con fermezza: " Che cosa!? Io farò il Tour, punto e basta!" Poi mi sono rivolto a Guimard, fissandolo negli occhi: " A pertire da questo momento non ti rivolgerò più la parola, tu non sei altro che un uomo di paglia, sulla quale Loyez può ben asciugarsi i piedi, onta a te! "
Contrariamente alle mie previsioni, Loyez fu molto impressionato dal mio atteggiamento, perché di sicuro non si attendeva quella reazione, alla quale neppure Guimard era preparato ed ha solo tentato di contrattaccare, esigendo alcune condizioni che pensava fossero inaccettabili per me:
primo - scusarmi con la stampa e rispondere con garbo alle loro sollecitazioni;
secundo - abbandonare le mie prerogative di "leader" e correre per la squadra.
Mi sono allora rivolto a Loyez: " Se lei si rifiuta di farmi correre il Tour, sarete voi a dovervi spiegare pubblicamente! Altrimenti sarei io a farlo e racconterò a tutti come vi siete comportati con me. Lei deve sapere comunque che non sarò mai io a dire che non voglio correre!
Si sono guardati in silenzio. "Sono io che pongo una condizione!" ho proseguito, ma Guimard mi ha dato sulla voce: "Tu non puoi porre condizioni!" Ed io l'ò guardato: "Tu non puoi dirmi più niente, perché non parlo con i tappetini-scendiletto", poi, rivolto a Loyez: " La mia condizione è che, dopo il Tour, che io farò comunque, lei non dovrà più chiedermi nulla, riguardo alla corse da fare, sceglierò io, Guimard non m'imporrà più niente. Fino al Tour, siamo d'accordo, farò tutto quello che serve per essere conciliante, ma dopo è tutto finito con Casto!"
Guimard ha urlato: "Sono io il patron!!!" , ma non gli ho risposto, perché era patetico.
Il lettore avrà compreso che ero pronto a delle concessioni per partecipare al Tour, ma la mia determinazione gli aveva "ghiacciato il sangue". Cyrille, che non era più il mio maestro, era ebbro di collera e tremava convulsamente, ma non poteva fare altro che cedere.
Dopo le esortazioni verbali, le proclamazioni e i giuramenti davanti alla storia, mi sono ritrovato solo con J.H. Loyez che cercava in tutti i modi di parlarmi "testa a testa" e mi ha detto proprio: "Complimenti, signor Fignon."
Ho trovato la sua reazione strana, perché non dimostrava nessuna inimicizia nei miei confronti, solo stupore, come se fosse stato impressionato. Ma perché? Che pensava che io mi potessi inginocchiare davanti a uno scendiletto?

 

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  postato il 18/10/2009 alle 13:58
Nous étions jeunes et insouciants (LII)

Con Guimard, va a finire sempre male



Arrivando a Lione per la partenza del Tour 1991, mi accorsi che tutti sapevano del "punto di non ritorno" esistente fra me e Guimard, anche se gli articoli dei giornali evocavano solo un possibile divorzio e con un linguaggio misurato e abbastanza edulcorato. Ciascuno insomma si teneva dentro tutto ciò, per non compromettere una "Grande boucle" ormai imputridita dalle circostanze. Però il meno che si possa dire è che il buon umore non si aggirava da quelle parti.
Guimard, che aveva naturalmente un accesso privilegiato ai miei compagni di squadra, perché costoro pensavano prima di tutto alla loro carriera (ed è anche comprensibile), non si lasciò mancare niente, alimentando le storie più scabrose e rocambolesche a cui poteva pensare. Oso appena immaginare, vista la sua posizione dominante, quello che abbia potuto raccontare su di me durante questo periodo di grande turbamento, tanto più che io, più solitario di sempre, non avevo né la voglia, né il gusto di lanciarmi in complotti contro Guimard; avevo altro da fare. C'era inoltre un prezzo da pagare alla mia onestà: andare a sparlare di Guimard non era degno di me, non m'interessava nemmeno.
Nostalgico del niente, il mio lato "coltello fra i denti" mi offriva lo spessore dell'uomo maturo che sa quel che fa e perché, ma non ero né triste, né lieto, né sereno, né rassicurato e navigavo fra due lati, entrambi poco confortevoli, nella posizione di "leader" storico contestato sia dai fatti (i miei risultati) sia dal direttore sportivo unico (in tutta la mia carriera). Dovevo essere ben solido per non cadere in depressione, accerchiato, com'ero, da tutte le parti.
Il risultato nel prologo fu poco rassicurante: 64° a 22" da T. Marie, a 20 secondi da Breukink e 19 da Lemond, ma, a dire la verità, le circostanze sfavorevoli mi avevano, come dire, rinvigorito, o meglio l'idea di abbassare le mie ambizioni, che mi era entrata in testa nei mesi precedenti, si era evaporata, come l'altra di smettere con il ciclismo. Avevo ormai capito che era impossibile per un atleta di alto livello di 30 anni mettere un termine preciso alla carriera, una volta entrato in un periodo così complesso. Diciamo che non avevo le stesse percezioni di prima e sopratutto nessuna certezza. Certamente avevo l'esempio di B. Hinault, caparbio, che si era fissato un limite preciso nel tempo e non aveva derogato, ma quello non sarebbe stato il mio caso.
Come terminare la carriera in apoteosi? E quando? Avrei dovuto smettere a 29 anni, quando ero ancora giovane? Ma come fare, se pensavo che la stagione seguente sarebbe stata altrettanto fruttuosa? Dall'altro lato, come potevo chiudere dopo una sconfitta? Non era il mio genere, il mio stile, la mia maniera d'essere. Volevo riscattarmi, sapendo anche che le questioni di ordine finanziario rientrevano nelle mie riflessioni: questo mestiere l'amavo veramente e poi non avrei saputo fare altro per guadagnarmi la vita molto bene. Non immaginavo che tutto ciò poteva significare la famosa "stagione di troppo", perché non ero preparato a quell'ipotesi.
Durante la seconda tappa, una cronometro a squadre di 36,5 Km, ho partecipato attivamente alla buona prestazione di Castorama: 8 secondo dopo l'Ariostea. Oltre a Leblanc, che faceva di tutto per rovinarmi l'esistenza, contavamo nei nostri ranghi C. Lavainne, D. Arnould, J.C. Bagot, B. Riis, P. Simon, F. Vichot e T. Marie e quest'ultimo dette una grande gioia alla squadra, vincendo la sesta tappa, dopo una fuga di 234 Km.
Le mie illusioni durarono poco, arrivai solo 16° nella crono individuale di 73 Km, fra Argentan ed Alençon a 3'39" da M. Indurain, che firmava allora, senza saperlo il lungo contratto della sua supremazia. Quanto a me, non sapevo che pensare del mio stato di forma, perché paradossalmente, non mi sentivo male, né per il fisico, né per quanto riguardava la mente, come gli avvenimenti seguenti avrebbero provato.
Il superamento dei Pirenei avrebbe cambiato i dati: nella tappa di Jaca, in effetti, Leblanc si inserì in una fuga con C. Mottet e prese la maglia gialla. Guimard era pazzo di gioia, perché non solamente il suo nuovo protetto riusciva in uno dei colpi di mano, di cui ha avuto il segreto in tutta la sua carriera, ma mi costringeva anche al gioco di squadra. Come non lavorare per la maglia gialla? Così nella grande tappa, fra Jaca e Val-Lauron, attraverso L'Aubisque, il Tourmalet e l'Aspin, ho lavorato lealmente per un tipo che voleva solo il mio male, svolgendo un ruolo di gregario e di protettore. Fino ad un certo punto, almeno. Dopo una "défaillance" limitata nel Tourmalet, compensata da una buona discesa, ero con i migliori nella scalata dell'Aspin. Là, Bugno ha attaccato e Mottet ha contrattaccato ed io li ho marcati immediatamente per proteggere Lebalnc, ma quest'ultimo non è riuscito a tenere il contatto. Malgrado la giovinezza e la grande forma, mostrava lo spessore dei suoi limiti (nota mia: chissà perché, ma a me sembra che G.B. Vico abbia ragione ) e un gruppo "regale" (Bugno, Chiappucci, Indurain ...) si staccò dal resto e sono diventato 4° in classifica generale, davanti a Leblanc.
Le tensione si esacerbarono, ma io avevo talmente pena di vedere che nessuno dei corridori presenti avesse memoria del mio passato, dimenticare chi ero e di quello che avevo fatto e purtroppo, una sera ad Albi, fui, durante un pasto, l'epicentro di un litigio memorabile, che ebbe per attore principale ... tutta la squadra . Soggetto della discussione: Luc Leblanc, tono: arrabbiato, protagonisti, con le parole più violente del vocabolario, Guimard e il sottoscritto. Si riscopriva il dispiacere di rivolgersi la parola (si fa per dire, perché era solo rumore e fracasso)
Dopo esserci trattai con "tutti i titoli" ho ben visto l'atteggiamento detestabile degli altri membri della squadra, perché tutti mi rivolgevano sguardi sena equivoci possibili. Ero lì, solo, a difendere il mio onore, il solo a dire a Guimard che cosa pensavo del suo modo di gestire la squadra ed il solo ad affermare, di passaggio, per ciascuno di loro che cosa pensavo di Leblanc, capace dei peggiori "tradimenti" come lo dimostrerà tutto il resto della sua vista di ciclista. Non ho nessuna stima di questa persona "Il piangina" come è stato soprannominato, non merita nemmeno qualche parola di un libro.
Nell'Alpe d'Huez avevo ritrovato una parte della mia potenza, che fu sufficiente a farmi arrivare 9° e quindi, se pur furtivamente e leggermente in ritardo, mi ritrovavo felice nella cerchia dei grandi, anzi ciò mi faceva un bene "pazzo". Tuttavia la tappa era stata ridotta ai minimi termini: 125 Km e la cosa non mi aveva certo avvantaggiato.
Mi dispiace soprattutto che in quell'anno si sia aperta definitivamente quella nuova era ridicola della riduzione delle difficoltà che, invece di frenare l'aumento del doping, permetteva al contrario a dei corridori medi di aiutarsi meglio e poter così superare degli "scogli" limitati e frazionati nel tempo. Ciò che si poteva ormai fare su 130/150 Km, non si sarebbe mai prodotto nelle tappe con più di 200 Km. La selezione naturale era ridotta quasi a niente. Nel ciclismo su strada non bisogna mai confondere la corsa dura con quella veloce ed invece simile "evoluzione" sarebbe stata mortifera, anche se nessuno, da vent'anni ha voluto ammettere questa realtà. Sei mesi prima, durante la presentazione del Tour, l'avevo detto chiaramente a J.M. Leblanc, direttore del Tour, che non condivideva però la mia opinione, evidentemente. E rammento che gli avevo anche descritto esattamente ciò che si sarebbe prodotto dal punto di vista sportivo, ma non mi aveva voluto ascoltare. (Nota mia: con due Leblanc non si fa neppure una persona )
A 11'27" da Indurain, ho finito il Tour al 6° posto, dietro Bugno, Chiappucci, Mottet e Leblanc, perché quest'ultimo era riuscito a superarmi nelle ultime tappe, ma quel fatto, secondo me, non aveva molta importanza, perché la mia prestazione era stata più che onorevole, basata soprattutto sulla mia caparbieta ed esperienza che erano aspetti ben visibili.
Rientrando a casa, mi sono sentito libero, da Guimard, da questa squadra diventata ostile, ero finalmente libero d'essere pienamente me stesso, lontano dagli sguardi di chi voleva il mio male.
Con Cyrille, dunque, finiva sempre male e, nonostante fossi stato una vittima, quei mesi rappresentano uno dei momenti più difficili della mia carriera/vita.
Per la prima volta non avevo più la preoccupazione della squadra di cui ero, in teoria, co-patron ed anzi era come se non avessi più squadra del tutto, anche se, nonostante tutto, non avevo corso il tour in maniera individuale. Avevo corso senza C.G. senza i suopi "consigli" e il suo "sostegno" ed ero comunque arrivato sesto ed in più nessuno mi poteva rimproverare di non avere rispettato le consegne in favore della squadra, in specie quando Leblanc portava la maglia gialla.
Ma la verità mi obbliga a dire che talvolta le "consegne" di Guimard erano così grottesche e così pregiudizievoli per me, che non potevo rispettarle "alla cieca". Ad esempio, nella tappa che arriva a Morzine, a 100 Km dall'arrivo Guimard avrebbe voluto che mi lanciassi in una fuga solitaria. Naturalmente avevo detto di no: voleva arrostirmi ed io non volevo invece bruciarmi inutilmente. E ripensandoci, non mi riesce di accettare ciò che è accaduto in quel Tour, dopo dieci anni di intimità con lui, qualche sentimento più nobile sarebbe dovuto restare a guidarlo. Ma no, Guimard era incapace di farsi portatore di sentimenti che lo sorpassavano!
Quindi mi sono lasciato con lui all'incirca negli stessi termini di Hinault otto anni prima, curioso no? Chi avrebbe potuto credere possibile una cosa simile? Ma con Guimard, ripeto, finisce, sempre male.
Tutte le separazioni sono brutali e crudeli e non gli do "tutti i torti", perché devo ammettere il mio errore supremo: per rispettare il mio ciclo psicologico e sportivo, avrei dovuto cambiare squadra ogni quattro anni.
Dopo il Tout ho fatto quello che volevo e sono andato dove volevo, però il mio avvenire restava incerto, anche se tutti sapevano che volevo/dovevo cambiare squadra. E in quel caso, anche se può sembrare impossibile, mi sono sentito ... come perso, completamente.
Ho creduto, in buona fede, che il mio nome, da solo, insieme al mio palmarès, sarebbe stato sufficiente e ... che le proposte si sarebbero susseguite, per me era una cosa sicura. E invece niente, niente di niente, il telefono non suonava, nessuno mi voleva.
Questo silenzio fu per me di una ferocia incredibile e non soltanto un sentimento di ingiustizia. Ma riflettendo meglio avevo finito per comprendere che facevo paura a tutti, a cominciare dai direttori sportivi che certamente Guimard aveva "scaldato" dietro le quinte.
Una mattina mi sono detto: "Bon, bah finisco qui la mia carriera!" Poi, però non volendo chiudere senza almeno reagire, sono stato io a prendere il telefono, perché in effetti non c'era niente di umiliante a cercare di "sminare" da solo il terreno; d'altra parte non mi potevo lasciar spingere verso la fine senza almeno tentare di reagire.
Dapprima ho avuto contatti con Panasonic, ma le loro condizioni economiche erano veramente troppo al di sotto di ogni ... per continuare i sacrifici fisici che il mestiere comporta, mi occorreva un "minimo" di considerazione. E poi lo sponsor Gatorade, che aveva interesse al mercato francese, mostrò interesse ... e l'affare si fece in un attimo ed io ero molto contento.
I rigori dell'inverno gelarono definitivamente le mie relazioni con Guimard: noi avevamo separato i nostri affari, ma lui voleva continuare con la squadra e pertanto conservò Maxi-Sports. Poiché mi doveva molti soldi e non aveva abbastanza liquidità, mi ha passato l'intiera proprietà di alcuni immobili societari. In nessun momento mi sono dovuto lamentare di questa divisione finanziaria e tutto fu fatto dai nostri avvocati, secondo le regole. Certuni ritrovano la loro serietà ... quando si tratta di soldi.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 19/10/2009 alle 14:43
Nous étions jeunes et insouciants (LIII)

Rispetto del campionissimo


Due cose consolano gli uomini dalle vicissitudini dell'esistenza: la letteratura, che è stata inventata per lasciar credere che l'intelligenza e il destino degli altri sua accessibile a tutti e la bicicletta che l'uomo ha immaginato per provare che la piena felicità può essere di questo mondo. I sovrani destestano la fine, non si entra volentieri nella categoria degli "ex", dei venerandi, degli emeriti. Invecchiare è un'esperienza umana, per lo più, detestabile.
Firmando con Gatorade, avevo condotto con me Alain Gallopin: era una delle condizioni nell'accordo con gli italiani ed era per me il modo necessario di una tranquillità mentale, propizia a dei buoni risultati.
Dal mio arrivo in Italia, mentre la mia vita privata non stava per niente migliorando, ho potuto constatare in qual modo là il *campionissimo* è adorato. Vedere questo fu per me una grande novità. Per gli italiani un campione resta e c'è un immenso rispetto per chi un giorno ha vinto delle grandi corse. Lo sportivo che un giorno è stato considerato grande, lo rimarrà nel tempo e ci sarà per lui uno sguardo ammirativo per sempre.
Prima dell'inizio della stagione, lo sponsor aveva organizzato un soggiorno a Venezia, ove possedeva un palazzo, e poi a Treviso in un'immensa proprietà. La mentalità non cambiava da luogo a luogo: era un incredibile paese di sport e nella squadra, tutti i collaboratori ci aiutavano a comportarci al meglio, eravamo insomma coccolati. Giammai un problema di materiale sarebbe potuto arrivare a disturbarci, perché l'organizazione era perfetta, lo sportivo era Re ... che cambiamento .
Io avevo cominciato ad imparare l'italiano durante l'inverno e questo li aveva molto impressionati e poi sono arrivato nella nuova squadra modestamente, senza rumore, né pretese, anche se, naturalmente era fuori questione che potessi fare il gregario. D'altra parte nel contratto c'era scritto che sarei stato co-leader della squadra insieme a Gianni Bugno. In realtà non poteva essere così, perché Bugno aveva dalla sua parte non solamente l'età e il sostegno di tutto un popolo che puntava moltissimo su di lui per vincere il Tour, ma anche la classe fuori dal comune, folle di giovinezza. Il direttore sportivo Gianluigi Stanga desiderava che io avessi il ruolo di "regista" per Bugno, vale a dire che lo aiutassi con tutta la mia esperienza e che gli dessi tutti i consigli necessari, oltre che il sostegno morale. Bisogna in effetti sapere che Gianni era un essere fragile, che aveva paura della sua ombra ed era sempre in bilico fra il meglio e il peggio. Come atleta era un autentico *crack*, ma aveva uno spirito debole.
Purtroppo il seguito ha provato che questa brava gente mi ha ascoltato troppo raramente, secondo i miei gusti. E tuttavia ne avevamo parlato a lungo Stanga ed io, durante un incontro a Milano, ben prima che decidessi di firmare il contratto. Lui si era dimostrato ben sorpreso per tutte le domande che gli avevo posto quel giorno, perché forse credeva che fossi interessato solo ai soldi, mentre io soprattutto volevo avere certezze sul modo in cui la squadra era organizzata. Volevo sapere che ne pensavano gli altri corridori ed il ruolo che mi sarebbe stato assegnato, etc.
Il legame umano si creò rapidamente e fu vissuto in maniera simpatica da tutti ed rammento di aver diviso la camera con due corridori, entrambi deliziosi: Zanatta e Fidanza. Il primo conosceva qualche parola di francese, il secondo no.
All'inizio della stagione Stamga mi ha iscritto a numerose corse che non volevo fare a causa del freddo, ma se con Guimard avevo diritto ad un occhio di riguardo sul programma, con Stanga no. Però, in questo modo sono arrivato alla Milano-Sanremo senza essermi potuto preparare come lo facevo abitualmente.
Rammento che c'era stata una discussione a proposito della tattica da adottare ed il mio parere era importante per loro, perché ero un doppio vincitore e quindi ho detto che, secondo me, la cosa migliore era star nascosti il maggior tempo possibile. Mi hanno ascoltato attentamente e fino alla fine ho creduto che ne avrebbero tenuto conto, se non del tutto, almeno in parte. Ma già nel primo terzo di corsa tutti i piani furono sconvolti: un gruppo era in fuga e chi si mise a tirare dietro? Tutta la squadra Gatorade! Sono andato a trovare un po' tutti per chiedere il motivo del cambiamento di tattica e la risposta era "Bisogna tirare, bisogna tirare". C'era il panico a bordo :mad ed evidentemente abbiamo perso.
Sportivamente ho avuto difficoltà a ritrovarmi, perché se è vero che sul piano dell'organizzazione, come ho già detto, tutto era perfetto e non avrei potuto sperare di meglio, sul piano della tattica invece ... Quando si decideva di fare un'azione eravamo spesso in controtempo e poi, soprattutto, di solito, non si faceva assolutamente niente, anzi, più grave: " Non bisognava fare niente!"
Con Gatorade avevo la sicurezza di essere selezionato in tutte le più grandi prove come "leader" a "tempo parziale", ma la loro medestia in corsa, o, in altre parole, la loro mancanza di ambizione, mi toglieva il piacere di correre.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 20/10/2009 alle 16:22
Nous étions jeunes et insouciants (LIV)

Una fuga folle



Invecchiando, il ciclista si crede in pieno possesso di tutte le informazioni che provengono dal suo corpo ed immagina che ciò costituisca un vantaggio essenziale, una scienza supplementare generatrice di benefici per lui.
Durante la stagione 1992 mi ero reso conto di un un fenomeno (per me) certo: avevo perso l'aggressività e la spontaneità. In altre parole ero più prudente, non osavo "forzare oltre misura il mio talento" che, comunque mi pareva intatto, così come i miei mezzi fisici.
Arrivando a San Sebastiano alla partenza di quello che si chiamerà il Tour europeo, perché era l'anno del trattato di Maastricht e gli organizzatori ci vrebbero fatto passare per sette Stati, mi sentivo veramente in grande forma: ero arrivato quarto ai campionati di Francia e potevo ragionevolmente nutrire qualche speranza. Ma ci sarebbe stato ancora una volta uno iato fra il mio stato mentale e le mie vere possibilità?
I primi giorni furono conformi alle previsioni: buona forma e nessuna difficoltà particolare. Non avevo certo l'ambizione di lottare per la vittoria finale, ma potevo giocare il ruolo di "guasta-feste". La risposta mi colpì, purtroppo, in pieno, sotto forma di un'umiliazione.
La scena ebbe per teatro il Lussemburgo, durante la famosa cronometro di 65 Km. durante la quale M. Indurain "spostò il limite umano" nell'esercizio specifico e mi inflisse l'estremo affronto di sorpassarmi, pur essendo partito sei muniti dopo di me.
Incredibile "exploit" che non era però dovuto ad un mio giorno no, perché il navarro quel giorno là distrusse tutta la concorrenza, infliggendo al secondo più di tre minuti di ritardo, una cosa vista poche volte.
Fui colpito nel "vivo" ed è poco dire che non amavo quel genere di situazioni e se, nel frattempo, mi ero messo a disposizione di Bugno, che finirà terzo a Parigi, l'undicesima tappa (da Strasbourgo a Mulhouse) con un profilo di mezza montagna e con un chilometraggio ideale per me (249,5), mi dette l'occasione di mostrare a tutti che mi chiamavo ancora Laurent Fignon.
Avevamo subito notato questa tappa, che presentava un buon numero di colli, fra cui il Ballon d'Alsace e la mattina stessa, avevo preso la parola per dire: "Tentiamo qualcosa" Benché la vittoria finale sembrava impensabile per Bugno, tanto Indurain pareva fosse al di sopra di tutti, per lo meno si poteva provare ad assicuraci un posto sul podium e per far questo era necessario, in particolare, cercare di staccare Greg Lemond (nota mia ) che aveva dimostrato segni di stanchezza ed appunto pensavo che proprio in quella tappa si poteva eleminare quell'avversario. Avevo aggiunto: "Quando vi farò segno, passeremo all'offensiva." Erano tutti d'accordo, anche se poi fuggirono, davanti alle loro responsabilità! A 100 km dall'arrivo, sono andato a dire che quello era il momento. Sembrava fosse solo uno scherzo, perché tutti fecero "orecchi da mercante", per una ragione che, ancora una volta, proprio non capivo. Salvo che quel giorno, mi sono proprio arrabbiato, di brutto e sono andato da Stanga per avvertirlo che non mi importava niente degli altri, perché avrei attaccato comunque! E sono subito partito per una fuga parecchio "pazza". Ho raggiunto dapprima i fuggitivi della mattina, e nessuno di quelli mi dette un cambio, ma questo non era un problema per me, perché ad uno ad uno li ho lasciati nel salire il Gran Ballon, mentre nella parte restante dei Vosgi, la mia volontà fece la differenza.
Nel gruppo, la Banesto non smise mai di tirare ed io, contro di loro, ho fatto 100 Km a cronometro. In cima al Ballon avevo due minuti di vantaggio, mentre Fuerte, che avevo lasciato negli ultimi Km. della della salita era solo 30" secondi dietro e quindi C. Corti, il secondo direttore sportivo della Gatorade mi disse di aspettarlo. Ho rifiutato, perché il vantaggio sul gruppo era troppo poco; però restavano ancora 53 Km a Muljhouse e, per di più, con il vento in faccia. Ma ci ho messo meno di un'ora per terminare e malgrado la voglia del gruppo di riprendermi, sono riuscito a mantenere qualche secondo di vantaggio e alzare le braccia.
Questa vittoria giustificava da sola, la mia trasferta in Italia e nella squadra erano veramente contenti, perché era la loro prima vittoria al Tour.
Ma ho conosciuto solo la sera, la portata della mia vittoria, perché le circostanze del giorno avevano dimostrato a tutti che dovevo essere stato molto forte per resistere al ritorno del gruppo. Guimard aveva fatto di tutto per non farmi vincere, piazzando quattro dei corridori di Castorama nei contrattacchi durante la salita del Ballon, situazione che fece ridere tutti i commentatori. E l'ultimo stadio del razzo di Cyrille era proprio il mio acerrimo "amico" Luc Leblanc, che davanti ai microfoni non poté nascondere il motivo di quella tattica :" E' stato Guimard che ci ha detto di attaccare" spiegò ai cronisti, ben contento di essere se stesso e cioè sempre "coraggioso" nel poter scaricare sugli altri ogni tipo di responsabilità. Poi un giornalista, divertito, domandò al patron di Castorama: " Allora M. Guimard si corre contro Fignon?" E lui: "Andate a farvi fottere con le vostre domande." Naturalmente il "buon" Cyrille sapeva di mentire, perché aveva fatto proprio tutto il possibile per impedire che la mia progressione andasse a buon fine e nessuno ne dubitava.
Con in tasca una tappa di prestigio, mi sentivo come liberato da un peso ed ho voluto in tutti i modi aiutare Gianni Bugno a sparecchiare la tavola del Tour, perché, dopo tutto, non mi pareva totalmente impossibile. E durante la celebre tappa verso Sestrieres, dove Chiappucci divenne un eroe nazionale, al termine di un exploit in solitario stupefacente, io avevo messo su un piano anti Indurain.
Avevo notato che Miguel, quando era attaccato, non rispondeva mai subito agli attaccanti, aspettava sempre che essi ricercassero il loro secondo fiato per decidere di inseguirli in progressione. Avevo spiegato questa cosa a Bugno nei dettagli e poi gli avevo proposto: "Ad un certo momento ti avverto e mi metto a tirare ad un treno piuttosto sostenuto, ma non al massimo delle mie possibilità, poi tu partirai una prima volta, ma senza andare in rosso, perché è essenziale che tu mantenga delle riserve." Egli mi ascoltava come fosse mio allievo e quindi ho continuato: "Nel momento in cui tu vedrai Indurain mettersi al massimo per chiudere il buco, allora, in quel momento preciso, tu piazzerai il tuo vero attacco! E lo farai tante volte, quanto sarà necessario." Gianni ha sussurrato "Sì è giusto", ma ho visto sul suo viso un'assenza totale di convinzione, diceva di sì, ma, secondo me, pensava il contrario ed allora ho tentato di convincerlo, affermando: " In definitiva che rischi corri, comportandoti così? Di perdere il Tour? Di esplodere prima di lui? E che importa, tanto il Tour, se non fai niente, l'ài già perduto e ... allora *VAI*.
Nella salita programmata, come d'accordo, ho accelerato e Bugno è partito esattamente come l'avevo immaginato e dopo il tempo necessario Indurain è rientarto ed io ho guardato la scena, tristemente, non solo Bugno non ha proposto l'attacco vero, ma ha semplicemente smesso di combattere, piazzandosi "saggiamente" alla ruota dello spagnolo. Ero distrutto per l'italiano, ma il compito era troppo grande per lui.
Per concludere il "fiasco" tattico fino in fondo, Stanga ci ordinò di attaccare il giorno dopo sul Galibier e siamo partiti lui ed io. Una fuga regale? Nient'affatto, perché forzare il temperamento di Bugno era impossibile ed infatti cominciò subito a protestare che si andava troppo forte. Era incredibile vedere questo grande campione liquefarsi in diretta. Ed io, distrutto moralemente da tutte queste idiozie, ho finito il Tour senza voglia, a tal punto che ho quasi onta di raccontare quello che poteva accadermi l'ultimo giorno sui Campi Elisi. Affaticato dalla tre settimane, avevo scelto di dormire a casa mia, anziché in albergo, ma quando sono andato a prendere l'auto per recarmi alla partenza, non riuscivo a farla partire. Panico, perché era di domenica e non c'era un taxi disponibile; non riuscivo ad avvisare nessuno e vedevo di già il mio nome fra i non partenti della tappa. Per miracolo Alain Gallopin ha avuto il mio messaggio ed è riuscito a farmi arrivare in extremis alla partenza. L'esperienza non ti aiuta per niente contro le cose assurde, ma benché fresca e gioiosa, la mia "nonchalance" fu imperdonabile: non si scende da un battelo, prima di essere arrivati in porto .

 

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  postato il 21/10/2009 alle 14:04
Nous étions jeunes et insouciants (LIV)

Doping generalizzato



Come parlare di una deriva alla quale ho assistito all'inizio, diciamo di persona, seguendo con superficialità i costumi del tempo, come se si trattasse di fazzolettini per pulirsi le dita? Ho compreso, ma non volevo vedere, ho visto, ma mi rifiutavo di capire, poi ... fu patente ed in modo tale che questa evidenza si inserì nel mio modo di ragionare quotidiano.
Il doping? C'era sempre stato ed io stesso ne ho avuto esperienza in qualche occasione. Doping di massa? Non capivo che cosa significasse concretamente. Nuovi prodotti non rintracciabili? I rumori più folli di solito erano smentiti dai fatti ed io potevo ben saperlo. Ma in quel periodo stava accadendo qualcosa di anormale, benché sembri incredibile, ho dovuto, per comprendere "sbatterci la testa" di persona. Nessuno era venuto da me per spiegarmi ciò che stava accadendo in quel caso, mai nessuno osava affermare che questa volta cominciava ad essere una cosa molto grave.
Il passaggio in Italia accelerò, per me, il precesso di rivelazione, perché gli italiani possedevano una "cultura della cura" che sconfina talvolta nelle medicine ad oltranza. Attenzione, non parlo di doping, ma di medicina, però gli anni novanta stavano mostrando fino all'assurdo che la frontiera fra il lecito e l'illecito era molto grigia. Ad es, dopo la mia vittoria a Mulhouse al Tour, ho avuto molto male a recuperare e, per evitare di essere uno "straccio" il giorno dopo, i medici della Gatorade vollero assolutamente farmi ingurgitare tutta una serie di prodotti per il recupero, a base di vitamine, di minerali etc. Fra essi, alcuni erano buoni, ma altri alquanto pericolosi.
Quando sono arrivato la prima volta nella nuova squadra, tutti erano sbalorditi per la mia incultura in materia e che volessi rifiutare certi trattamenti. Ma come fate voi in Francia? mi domandavano molto sorpresi. Quando gli ho spiegato che prendevo soltanto vitamina C, perché, psicologicamente, avevo bisogno di sentire le reazioni intime del mio corpo, c'è stato. per risposta, un grande silenzio fatto di incomprensione, ma forse non mi avevano creduto.
Per quanto riguarda i prodotti per il recupero, ho finito per acconsentire, ma c'erano alcune condizioni, perché volevo sempre essere presente nel momento in cui i medici aprivano i flaconi. Volevo controllare e verificare che si trattasse di vitamine e non ... Che le cose fossero chiare, perché proprio non si può dire che avessi una fiducia limitata, perché in effetti non avevo nessuna fiducia nei medici: fiducia zero!
1991,1992,1993 furono gli anni cerniera, quelli in cui tutto quasi si capovolse e coincisero anche con i miei ultimi anni, per cui mi si potrebbe ben considerare come un testimone "privilegiato", tranne che, paradossalmente, me ne tenni fuori, per volontà personale, con una caparbietà quasi prodigiosa.
Salvo essere smentito, non credo di sbagliarmi dicendo che alla Gatorade circolava l'EPO nel 1993 e forse anche un po' prima; ancora una volta sapevo, senza sapere; diciamo che erano parole vaghe che arrivavano sommessamente alle mie orecchie, niente di più.
Per essere precisi, quando ero ancora alla Castorama (nel 1991) e poco dopo il mio arriva in Italia, comprendevo certe cose per deduzione o per intuizione, talvolta. Oggi parlo di EPO, per esempio, ma è stato molto più tardi che ho saputo come si chiamava veramente questo prodotto "miracoloso" di cui si parlava a "porte chiuse" così come di un altro modo: utilizzare gli ormoni della crescita.
Nel corso della stagione 1992, penso che questa forma di doping, che aveva poco in comune con quanto avevamo conosciuto negli anni ottanta, non fosse ancora generalizzata; solo qualche "leader" sembrava avesse avuto accesso all'EPO, forse uno o due per squadra, ma di sicuro non so niente.
E poi, verso la fine della stagione 1992, un ex corridore, divenuto un aggiunto di G.L. Stanga venne da me e rivedo la scena come se fosse ieri. Corti ha cominciato a parlare attraverso metafore, per mettermi a mio agio, ma, anche dopo, non si è mai fatto capire chiaramente, non mi ha detto: "Ecco l'EPO, se lo vuoi!" Si è espresso invece con queste parole (cito a memoria) :"Laurent, tu sai che esiste un super prodotto per la preparazione, bisognerà forse vedere ciò che si può fare per provare con te." Ma era fuori questione che prendessi qualcosa di illecito, soprattutto se non sapevo di cosa, di preciso, si trattasse ed era proprio questo il caso. Prima di prendere una medicina, per curarmi, volevo sempre sentire il parere del medico e, nel corso della mia carriera, quando il loro consigli mi parevano affidabili e legittimi, li seguivo, perché sapevo precisamente, nei dettagli, che non rischiavo niente né riguardo alla salute, né sportivamente. Ma lì, si trattava di EPO, intorno al quale non si sapeva molto di certo, se non che si trattava di una manipolazione sanguigna e per me il solo fatto di pensare al sangue, mi faceva venire il panico. Una vera fobia! Rammento tuttavia che gli ematologhi dell'epoca affermavano che, preso con precauzione, non c'erano rischi. Era evidentemente l'argomento preferito dei "dopeurs", anche se io sapevo bene che con certe forme di doping era soltanto l'esagerazione ad essere pericolosa ed in materia di esagerazione fino all'ora non avevo ... ancora visto niente.
Ritorniamo al 1993, dove, secondo me, tutto divenne diverso; di passaggio chi si ricorda che la mia ultima vittoria nel professionismo fu la Ruta Mexico? Anche se sono stato l'unico europeo ad iscrivere il suo nome nel palmarès.
In quei tempi, dopo pochi giorni, molti dei miei compagni di squadra cominciarono a andare in un modo piuttosto stupefacente (nota mia: qui si potrebbe fare un gioco di parole ), nel senso che mai prima avevano mostrato un talento capace di impressionarmi. Dei ragazzi, che vedevo correre tutti i giorni con me, avevano cambiato le loro prestazioni da un giorno all'altro. Diventavano migliori, senza bisogno di allenarsi più di prima, talvolta anche meno, per me era flagrante, non potevano sussistere dubbi.
Lo stesso fenomeno l'ò potuto constatare anche in gruppo, dove i comportamenti si modificavano rapidamente: nuovi corridori stavano regolarmente in testa a "menavano" ad un treno d'inferno, al di là di ciò che sarebbe sembrato normale l'anno prima. Dopo qualche mese, alcuni hanno finito per parlarmi e confessare che Stanga in persona faceva da intermediario e, vedendo che io restavo volontariamente fuori, domandò ad alcuni suoi collaboratori di mettermi un po' di pressione. "Così fan tutti"! (nota mia: bel film francese, molto divertente )
Era un modo di incitamento che trovavo ben strano, perché non avevo mai visto tale comportamento da Guimard.
Ho resistito, non volevo saperne di EPO ed ancor meno di ormoni della crescita, che mi facevano orrore e la verità mi obbliga oggi a dire: "Nella Gatorade nel 1993 ero uno dei rari a rifiutare il prodotto!" Ma, devo anche confessare, che potevo permettermelo, perché avevo una reputazione da difendere ed un contratto a "prova di bomba". Il mio "status" mi offriva una libertà sovrana e, d'altro lato, il carattere mi permetteva di "tenere duro" e nulla e nessuno mi poteva far paura.
Ad anni di distanza, una domanda merita di essere posta: come avrei reagito se avessi avuto cinque o sei anni di meno ed un palmarès ancora da formare? Senza dubbio bisognava avere un grande coraggio per resistere alle perversità dell'epoca ed io il coraggio l'ò avuto, ma avevo 31 anni! Fino allora avevo sempre avuto l'idea di "fare il mestiere" nel modo migliore possibile, anche se al riguardo occore aprire una parentesi. Nell'epoca "mia", cioè gli anni ottanta, molti potevano "imbrogliare" senza averne coscienza, perché tutti si comportavano nella stessa maniera, prendendo gli stessi prodotti ed in più mai un qualsivoglia "medicinale" aveva trasformato un asino in un puro sangue!
Da Coppi ad Hinault, passando per Anquetile e Merckx, mai la scienza era stata capace di far sì che i mediocri potessero rivaleggiare con i campioni. Gli essere eccezionali, come i loro exploit straodinari, erano in qualche sorte "doc". Posso testimoniare insomma che fino al 1989 (circa) il doping era ancora ... artigianale (nota mia: come Castorama ), dopo ...
Giorno dopo giorno, vedevo che non era più la mia storia, perché questa metamorfosi dei ciclisti intorno a me, con la freddezza dei loro laboratorii, trasformava gli individui in macchine per pedalare. Quale macchina sarebbe stata mia, se avessi dato l'assenso ai dottori di Gatorade?
Prima del Tour 1993, G.L. Stanga mostrò irritazione verso di me, a causa della mancanza di risultati ed andò da A. Gallopin per dirgli che dovevo fare qualcosa subito. Era insidioso e del tutto rappresentativo di quegli anni, ma non mi fece molta impressione, anzi, perché nei rapporti di forza non avevo paura, però immagino bene come poteva influire su corridori più deboli psicologicamente o in una situazione di quasi precariato, oppure in quelli semplicemente arrivisti.
Dopo, evidentemente se un ciclista si faceva prendere nella rete del controllo, era naturalmente un paria, l'unico sporco e subito la squadra si separava da lui, gridando allo scandalo ed accusandolo di ogni turpitudine.
Ma spesso chi era il vero malfattore???

 

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"Per principio rifiuto di sottopormi a questi controlli. Non sono ostile alla lotta al doping, che ritengo indispensabile tra i dilettanti, ma nel caso di professionisti è differente. Dopo 12 anni di carriera io so quello che devo fare e non voglio che una mia vittoria venga messa in dubbio dalla fantasia delle analisi".

(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 22/10/2009 alle 15:06
Nous étions jeunes et insouciants (LVI)

All'angolo di strada



Malgrado la volontà più accanita di resistergli, il tempo finisce sempre per diventare il passato. La stagione 1993 non fo conforme a quanto mi sarei aspettato e, più inquietante ancora, quando sono arrivato al Tour, avevo anche un inizio di bronchite, che, in altre circostanze mi avrebbe dovuto tener lontano da una corsa così esigente ed infatti non avrei potuto cominciare peggio: 67° del prologo a 43" da Indurain. La situazione era grave.
Quattro giorni dopo, vivemmo, come squadra, una caricatura di prestazione collettiva : durante un'interminabile crono (81 km) Gianni Bugno, che era di gran lunga il più forte, non seppe adattarsi al ritmo degli altri, facendo delle "tirate" che riuscirono quasi subito a "liquidare" la maggior parte dei compagni. In meno di 50 km la squadra era "bruciata" e lui continuava a spingere a tutta, non si comportava per niente come un "leader".
Aneddoto significativo, un giorno quando il gruppo era molto lontano dall'arrivo ed era in corso una fuga mattinale senza importanza, ci fu un'accelerazione brutale. In qualche minuto il gruppo si trovò in fila indiana a più di 50 Km/h. Ciascuno resisteva come poteva. Non so bene, ma dovevano restare ancora tre o quattro ore di corsa ed io non ci capivo niente e mi sono detto: "Non è possibile." Ho rimontato il gruppo come potevo ed ho visto uno spettacolo allucinante. C'era in testa, tal Laurent Pillon, un francese "esiliato" in una delle grandi squadre dell'epoca (GB-MG). Il fatto che quel corridore si trovasse in testa al gruppo non costituiva, in sé, una sorpresa, perché c'era stato altre volte. Ma era la maniera di pedalare che si rivelava stupefacente: si aveva l'impressione che non forzasse nemmeno, eppure andava a più di 50Km/h, tutto solo con le mani nella parte alta del manubrio, nonostante il vento di 3/4 in faccia!
Ero costernato e gli ho gridato: "Ma lo sai che siamo a 100 km dall'arrivo? Hai visto a quanto vai?" E lui mi ha risposto, con il suo accento nordista molto pronunciato: "Bah, mi hanno detto di tirare e io tiro!" Non credevo alle mie orecchie, povero ragazzo, non si rendeva nemmeno conto di ciò che faceva; non era certo colpa sua, era solo sottomesso all'epoca.
Si poteva proprio pensare che stesse accadendo ... qualcosa di serio.
Il giorno dopo, verso Amiens, il belga J. Bruyneel, che diventerà in seguito il D.S. di Armstrong, vinse una tappa condotta anch'essa ad un treno d'inferno: 50 km/h di media. Tutto il gruppo gli era corso dietro a fondo, ma, pur in un percorso vallonato, guadagnava comunque su di noi, tutto ciò a me pareva incredibile.
I giorni si susseguivano ed il mio stupore si accresceva sempre più, nessuna cosa mi sembrava normale. In ogni tappa stavo sempre all'erta e non mi mancava certo l'esperienza per inserirmi in una fuga, ma non ci riuscivo mai: mi mancava sempre qualcosa, il colpo di reni che avrebbe fatto la differenza e lo spettacolo, che si presentava ogni giorno intorno a me, sembrava quasi irreale. Ero come un'anima in pena, sperso in una terra sconosciuta.
Poi arrivò l'episodio più terrificante, quello che spense definitivamente ogni mia illusione. Fra Villard-de-Lans e Serre-Chevalier, allorché era prevista la scalata del Galibier, avevo deciso di attaccare a partire dal Télégraphe. Non rappresentando un pericolo in classifica, mi hanno lasciato andare e francamente avevo un buon ritmo. Per un momento scivolò su di me il soffio fresco di un simpatico miragggio: l'illusione di poter ... Ma era davvero solo un'illusione, perché prima della sommità, allorché stavo "pestando" sui pedali come ai miei più bei giorni, o almeno lo credevo, vidi venire a "prendermi" almeno una trentina di corridori (o quaranta ). Nessuno aveva l'aria di forzare ed io non riuscivo a tenere le ruote. Dire che quel giorno ho avuto un trauma psicologico è molto inferiore a quello che sentii in realtà.
Fu un colpo di arresto, qualcosa che andava al di là della semplice umiliazione, una piccola morte. Percepivo una sorta di deprivazione di quello che ero stato: annientato, distrutto. Suonava la campana della fine della mia carriera e, mentre scollinavo mi sono detto: "E' finita, suono cotto, sarà bene smettere di farsi massacrare." Perché davanti a me non c'erano solo i migliori, ma ormai troppi corridori, anche della mia generazione, che non avevo mai visto andare così forte in montagna.
Niente era più normale e, d'altra parte, la normalità non aveva più senso per me e più niente avrebbe potutto stupirmi, anche se sul Galibier, mentre proseguivo con il mio ritmo, chi sono riuscito a riprendere? Accidenti, un Gianni Bugno completamente svuotato. Il Tour era perso per lui e per me finiva la storia che, dopo aver vacillato un po, terminava appunto nel silenzio maestoso delle alpi.
Sapevo in quel momento che era finito, ma non mi sono mai detto che era a causa dell'EPO, anche se ciò può apparire strano ed incomprensibile. Ma allora rifiutavo l'evidenza, pur avendo tutte le informazioni per analizzare fredamente la situazione. Ma non serviva, perché ero abituato, quando perdevo le corse, a non mettere mai tali sconfitte in conto al doping e quindi ho semplicemente pensato: " E' finita, hai fatto il tuo tempo!
La sera sono rimasto piuttosto sereno in quanto non c'era alternativa al fatto che il ciclista invecchiato dovesse lasciare il posto all'uomo maturo.
Il giorno dopo, nella tappa di Isola 2000, abbiamo scalato l'Izoard e poi la Bonnette (il tetto del Tour) e di quel giorno ha un ricordo molto preciso: sono rimasto in ultima posizione durante tutta la salita, volontariamente e con le mani alte sul manubrio ed ho apprezzato pienamente il "respiro" degli ultimi momenti "i miei" nell'eternità del ciclismo. Nessuno doveva, né poteva rubarmi quegli attimi: salire a 2700 m. in quelle circostanze mi dava delle ragioni per apprezzare, attraverso quei lunghi minuti di evasione mentale, tutto quello che la mia persona aveva vissuto in bicicletta. Un frammento poetico e di me stesso: respirare e andare alla mia cadenza e sentire nient'altro che armonia. Appoggiavo sui pedali in tutta leggerezza, guardando il paesaggio il più lontano possibile, misurando in ciascun istante il visto e non visto di un tempo fuggito, vedendo in quegli orizzonti, pieni di picchi e del blu del cielo, un universo nuovo da scoprire e, soprattutto una maniera diversa di considerare il futuro. Il ciclismo sarebbe continuato senza di me, ma la vita ... (nota mia: ma la vita no, la vita mia non può dissolversi con l'oro dei capelli )
Avevo solamente dei rimpianti? No, era un autentico momente di tristezza e felicità riunite.
Prima dell'ultima salita a Isola2000, dove sarei anche potutto arrivare fuori tempo massimo, ho deciso di scendere: dovevo farmi carico della fine della mia storia, riconoscerla e guardarla lucidamente in tutta la sua ampiezza. Senza tragedie, ma con grande coscienza di me stesso, ho abbandonato. Disperso all'angolo della strada, come quando ci sembra di gettarsi nel vuoto ... a corpo perso ........

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 23/10/2009 alle 15:01
Nous étions jeunes et insouciants (LVII)

"Tu non puoi immaginere quello che fanno"



Il ciclismo, infinita fonte di beautidine, aveva perso molti punti di riferimento; i miei si erano addirittura evaporati con le siringhe di EPO, di cui non comprendevo né l'uso, né, tanto meno, gli eccessi. D'altra parte si poteva di già parlare di "generazione EPO?" Probabilmente, sì.
Mettendo piede a terra definitivamente sul Tour del 1993, annunciando logicamente la fine della mia carriera, non avevo ancora compreso la realtà delle cose e non immaginavo neppure "l'orrore": Di certo avevo capito l'emergenza che avrebbe prodotto questa nuova sostanza, di cui si cominciava a parlare sui giornali e nei "corridoi" del ciclismo, ma, malgrado ciò che potevo vedere in Italia, non avevo percepito fino a che punto poteva essere generalizzata la sua utilizzazione. E poi c'era un'altra cosa che mi rifiutavo di ammettere: la sua incredibile efficacia. Con l'Epo tutte le barriere si sbriciolavano e non mi riusciva di ammettere che la maggior parte dei ciclisti, che correvano con me, carburavano con questo prodotto.
Così, dopo l'abbandono al Tour e in seguito ad attenta riflessione, ero arrivato ad una conclusione che mi pareva evidente: io non andavo più!
Bisogna precisare che il mio universo mentale di allora aveva come riferimento solo il ciclismo degli anni ottanta e che un prodotto potesse "fabbricare" un campione o potesse quasi permettere "a colpo sicuro" una vittoria in una corsa, era per me un'idea talmente assurda da ...
un non senso, insomma.
Qualcuno si stupirà nel leggere queste parole e penserà: "Non poteva non sapere!" E' bene, dunque, essere precisi: comprendevo le cose, diciamo, nelle linee generali, ma non nei dettagli. E poi la mia mentalità era la seguente: non mi interessava quello che potevano fare gli altri, per me contavano soltanto i miei progressi personali, il mio lavoro ed i miei risultati, nient'altro.
Certo, A. Gallopin mi metteva spesso in guardia: "Tu sai, Laurent che molti fanno stupidaggini, esagerano veramente e tu non puoi nemmeno immaginare quello che fanno, c'è chi è diventato proprio pazzo ed ed è pronto a *tutto*"
Ma questa realtà non riuscivo a comprenetrarla, come se fossi ormai ad una distanza troppo ... da essa, come se fossi già altrove.
L'ultime corse alle quali ho partecipavano mi annoiavano profondamente e rinforzavano la mia voglia di distacco da un mondo strano, meno vivace e più chiuso. Certi comportamenti mi parevano addirittura incomprensibili, ad es, quando vedevo che corridori di poco talento riuscivano a recitare improvvisamente i primi ruoli, e quindi non era più il caso per me di ...
IL dopo Tour fu piuttosto anodino e gli sguardi della gente mostravano tanto compassione, quanto indifferenza, perché ormai si rendevano conto che avevo girato pagina. Ho lasciato trascorrere i giorni lasciando la mia bici in garage, ma un mattino di agosto, sono ritornato ad allenarmi. Fino a quel giorno, durante tutta la mia carriera, avevo sempre messo un grande rapporto: 53X15 o 53X16 e dunque anche quel giorno sono partito come d'abitudine, ma dopo pochi chilometri ho dovuto cambiare e sono passato al 42x18 e mi sono sentito finito, non avevo più voglia e con un solo colpo di "scopa" ho spazzolato le ultime tracce che mi legavano ancora allo sport più bello del mondo
L'io ciclista non era più il mio io interiore ed ero preparato da sempre a questo, ma il viverlo concretamente faceva uno strano effetto.
Allo scopo di non anticipare sul mio anno fiscale seguente e non dover pagare troppe imposte, non ho partecipato a nessun "criterium" (nota mia: non ho capito niente, ma non so come funziona il sistema fiscale in Francia) ed ho annunciato che la mia ultima partecipazione ad una corsa sarebbe stata al G.P. di Plouay, dove sono andato a "cuor leggero".
L'ambiente era, però, particolare, perché in molti, prima della partenza, sono venuti a dirmi "grazie" e per augurarmi "buona ventura".
Io, naturalmente ero in condizioni disastrose e benché volessi veramente terminare quella corsa, quando si andava a tutta, non potevo seguire e allora ho raggiunto con grande sforzo la testa al gruppo per dire loro "Addio" con una voce mesta. Marc Madiot ha urlato: "Guardate bene e guardate tutti, è l'ultima volta che vedete Laurent Fignon in corsa!" Una grande emozione si è impadronita di me e la gola si è seccata; i muscoli si sono irrigiditi e ... sono sceso di sella.
Tutti i mattini del mondo sono senza ritorno.
G. Stanga mi ha lasciato tranquillo, e, poco tempo dopo, la società Gatorade annunciava la fine degli investimenti nel ciclismo, ma io avevo firmato un contratto di tre anni e sono "saltato" sull'occasione, annunciando che avevo deciso di rispettarlo e che avrei corso anche nel 1994. Un profitto insperato per me, riscuotevo anche il terzo anno, senza dover correre e perché avrei dovuto averne onta? Per due anni ero stato l'ambasciatore di Gatorade in Francia e lo avrei fatto un altro anno, anche se non in bicicletta! Mi pareva logico.
Cominciarono allora dei giorni di riflessione intensa. Avevo smesso in piena coscienza e senza alcun rimorso, ma la cosa non era così facile come mi volevo convincere che fosse. Qualsiasi corridore, che sia stato un grande campione o no, quando gira pagina è evidente che non possiede più la passione della sua vita. Era appunto questo che mi stava accadendo e prepararsi mentalmente non è sufficiente a non subire, ma nemmeno ad attenuare, il trauma. Per noi il ciclismo non è un mestiere, ma un qualcosa che ti divora dentro.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 25/10/2009 alle 12:21
Nous étions jeunes et insouciants (LVIII)



Mi sono infilato in una specie di buco, perché la mia "preparazione" non prevedeva niente di concreto, ad es. non sapevo che fare della mia vita, delle mie giornate ... ormai. E cosa ancora più grave non riuscivo neppure a capire che cosa avessi voglia di fare! E, poiché l'inattività non è mai stata il mio forte, bisognava che mi affrettassi a pensare a qualcosa. Ma ne ero incapace, perché nei mesi successivi al mio abbandono mi accorsi di essere ancora *dentro* un corridore. Il bioritmo, le abitudini, la maniera d'essere e perfino i riflessi: tutto reagiva come ... sempre. Bisognava che passasse l'inverno.
Un mattino, all'inizio del 1994, mi sono fermato a pensare che gli altri, tutti gli altri, avevano ripreso ad allenarsi e mancava poco alle prime corse ed io invece chi ero diventato? Niente, se non un *non-ciclista*. Ma questa volta, mi resi conto, che il mio corpo non era soltanto "in vacanza", in attesa cioè di riprendere la sua vera attività organica, no, il taglio era stato irreversibile e gli altri erano ripartiti senza di me.
Quale futuro?
Mi rivedo in quel giorno, un certo giorno di puro panico. Ero seduto su una poltrona a casa mia e ho sentito un gran vuoto, una sorta di nodo alla gola, una paura insidiosa che mi rodeva il ventre e risaliva fino alla schiena. Mi sembrava una piccola morte! Mi sono alzato, colpito da una tremenda angoscia e sentivo il bisogno di respirare forte. Ho cambiato poltrona, ma l'impressione era rimasta e non mi riusciva di riflettere veramente, e più mi accorgevo di essere ridicolo, più la mia ansia cresceva.
Ma non potevo lasciare che la depressione trionfasse e mi sono costretto a pensare in maniera logica, prendendo ogni cosa per ordine.
I soldi? Ne avevo abbastanza, tanto più che l'anno precedente, per prudenza, avevo rimborsato ogni mio debito. Alla fine della mia carriera, versavo 1,5 millioni di franchi alle imposte, vale a dire il 60% dei miei guadagni e Gatorade mi pagava 500.000 franchi al mese e il mio patrimonio ammontava a circa 2 milioni di franchi liquidi, ai quali dovevo aggiungere alcuni beni immobili. Fra parentesi, tutto ciò non era niente se confrontato a quanto guadagnavano già allora i più grandi calciatori, tennisti e addirittura i golfisti.
Le mie occupazioni? Giocavo proprio a golf, uno sport che mi aiutava a concentrare ed a scoprire un mia interiorità molto strana. Partecipavo altresì a viaggi avventurosi di ogni sorta. Tutto ciò mi aiutava a mantenere uno stato psicologico accettabile e ... poi mi ha telefonato il giornalista P. Chassé, per chiedermi se volessi commentare le corse su Eurosport. Quest'idea mi piaceva molto e mi ci sono buttato, ma devo essere onesto, per me non rappresentava un progetto per il mio avvenire.
Più riflettevo, più capivo che non sapevo fare quasi niente al di fuori del ciclismo. Investire in qualche affare? Perché no, ma in quali precisamente? Nel settore immobiliare, no ed in altri ... nemmeno ed ho finito per confessarmi che non avevo speciali attitudini e, più inquietante, non avevo nemmeno voglia di imparare.
Ero la vittima, alla mia maniera, dell'inevitabile abrutimento del ciclismo professionista? Anche ad uno come me, che aveva continuato a leggere ed a cercare di istruirsi un po', a restare insomma informato sul mondo, il ciclismo aveva imposto la propria "bolla" che lo divide dalla realtà di tutti gli altri. Eppure sentivo che potevo anche interessarmi di altre cose, ma il ciclismo fofessionista aveva cancellato queste mie disposizioni e mi aveva "accaparrato" completamente. E, a differenza ad es. di un calciatore, il ciclismo prende tutto di te e non ti lascia che un minimo per il tempo libero: l'allenamento è lungo e le corse numerosissime.
Un po' mi dispiace per "l'isolamento" di quegli anni, perché mi rendevo conto di aver perso quindici anni di vita sociale, fuori da tutto, come ho detto, preoccupato solo dello specifico e quasi mai del resto. L'attualità è passata senza di me e mi sentivo (nota mia: con Moretti ) autarchico.
Sono ben cosciente che non si poteva fare altrimenti: essere ad alto livello richiede moltissima concentrazione ed un'attenzione quasi esclusiva e, come la mia carriera me l'à mostrato, quando mi lasciavo prendere dalle preoccupazioni del quotidiano, in particolare quelli della mia vita privata, i miei risultati ne soffrivano.
Essere ciclista al cento per cento è un'obbligo, spiacevole, ma indispensabile.
Uscendo da quella spirale infernale, ho preso coscienza che il mio universo assomigliava ad una prigione dorata, perché c'era una specie di paralisi in quella "bolla" (nota mia: in matematica si chiamerebbe sotto-insieme) ciclistica e, secondo me, rappresenta uno dei problemi del ciclismo. Siamo fuori da mondo, concentrati nel nostro universo e si finisce per credere di essere superiori e che il mondo reale sia il nostro! E viviamo in questa illusione.
Ripensandoci, mi sento gelare, per tutto ciò che non ho fatto del tutto o troppo raramente, come andare a passeggio con mia moglie, a divertirsi, a far spese etc. Impossibile, perché troppo faticoso, perché il mestiere ... sempre una buona scusa.
Ho espresso il mio rammarico, se ora devo fare un bilancio preciso, obiettivo, autentico, continuo a pensare che la mia vita ha avuto più lati buoni che cattivi. E come dimenticarsi che noi eravamo anche degli uomini liberi ed emancipati e, come tali, potevamo prendere l'auto di un D.S. ed andare in piena notte a trovare una ragazza, fare 200 Km per un semplice sfizio e ritornare la mattina dopo, per la tappa del giorno. Questo non era certo fare cultura generale, ma era pur sempre vivere e, mentre ci sono, devo confessare che anche per quanto riguarda l'alimentazione, non mi sono mai imposto delle restrizioni. Ci stavo attento, ma nulla di più, salvo nei grandi appuntamenti della stagione, anche se già allora si stava cominciando a scoprire l'importanza del peso-potenza. Ma io, senza voler paragonarmi ad Anquetil, che del mangiare ne aveva fatto quasi "un'arte" ed un modo quasi obbligatorio di vivere il suo ciclismo, ho fatto la mia parte in quanto a eccessi. Non ero certamente un fanatico della dietetica e dell'essere in peso forma sempre e toujours.
Ecco perché, senza dubbio, non ho mai aspirato a diventare direttore sportivo, un mestiere che richiedeva qualità che, chi ha letto fin quin, può ben capire che non possedevo. D'altra parte, la verità mi obbliga anche a dire che mai uno sponsor mi ha proposto di formare una squadra. Con Alain Gallopain l'idea ci ha anche sfiorato una volta o due e ad es. alla Caisse d'Epargne avremmo anche potuto proporre un progetto semplicissimo: trovare il prossimo francese capace di vincere alcune volte il Tour.
Noi sappiamo che i grandi vincitori riescono sempre ad imporre un ciclo. Dopo Armstrong, c'è dunque un vuoto, anche se Contador possiede un talento naturale evidente. Ma prendiamo Carlos Sastre, vincitore del Tour 2008, in termine di classe, quest'uomo non mi arriva alla caviglia!
Scoprire un giovane francese d'avvenire, in una struttura francese, con uno sponsor francese di grande nome, sarebbe stato un bel progetto ambizioso. E qual è stata la scelta della Banca? Investire in una squadra spagnola! E la cosa più incredibile in questa storia è che non c'è stata la minima reazione emotiva in Francia (nota mia: per una volta sono in disaccordo totale con Laurent, mi sembra proprio giusto che uno sponsor vada al di là del becero nazionalismo :mad).
Nessuno ha gridato allo scandalo, allorché invece c'era di che avere il "voltastomaco". Io per lo meno era molto arrabbiato ed è stato un altro esempio che mi dà il disgusto, se penso di voler dirigere una squadra.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 26/10/2009 alle 16:34
Nous étions jeunes et insouciants (LIX)

Contestare i potenti



Fare qualcosa tanto per farla, era al di là delle mie possibilità e per me il ciclismo restava sempre davanti, anche se provavo a girargli le spalle. Era impossibile fuggire, dunque; d'altra parte le mie competenze in quella materia erano indiscutibili e nessuno osava contestare questa mia autolegittimazione.
Allora, più ci riflettevo, più mi accorgevo che l'organizzazione (in senso lato) mi tentava sempre di più ed alla fine ho deciso di creare una struttura: "Laurent Fignon Organisation". In un primo tempo mi sono occupato del livello più basso e cioè, cercare di interessare i ciclo-amatori ed ho proposto la mia prima innovazione nel 1996, con il trofeo de l'Ile-de-France cicloturista. Era composto da quattro cicli nei quattro dipartimenti e poi una sorta di gran finale intorno a Parigi.
Il mio intento era quello di mischiare cultura, famiglia, sport e ciclismo ed infatti, ogni volta, ci riunivamo in un grande castello del dipartimento ed elaboravamo un programma gastronomico, in presenza di un grande cuoco e di una scuola alberghiera. Ci sono state tre edizioni di questo trofeo con 300 partecipanti il primo anno e 1000 gli altri due.
Finiti i privilegi! Alain ed io facevamo di tutto: mettevamo i cartelli indicativi, a posto i tavoli e preparavamo le "toilettes". Il primo anno abbiamo anche sistemato le barriere la mattina presto, dopo una nottata di lavoro. Ed, in seguito, ho pure inforcato la bici per i primi settanta km. con i partecipanti. Ero cotto!
Ma non era che una tappa, perché la mia "folle voglia" si chiamava Parigi-Nizza e molte ragioni mi portavano a credere che fosse fattibile.
In primis, perché l'irganizzatrice storica dal 1982, Josette Leulliot, che era alla testa della società Monde 6, arrivava al termine della sua "avventura" personale con la corsa e la voleva vendere. Dipoi, la Corsa al Sole, che ha origini anteriori alla seconda guerra mondiale, era l'unica grande prova a tappe del calendario francese ad essere rimasta indipendente, che non apparteneva cioè ad un grande gruppo, come la S.d.T.d.F (A.S.O.). Infine P-N ha sempre beneficiato (legittimamente) di una rinomanza internazionale, come attesta la sua lunga storia.
Nel 1997, totalmente preso da questo ardente desiderio e talmente convinto della mia scelta, sono andato a trovare la signora per esporle le mie proposte e il progetto. Ella si dimostrò calorosa, ma anche molto indecisa; del resto sapevo che la S.d.T.d.F. di J.M. Leblanc era interessata ed è inutile dire come avesse i mezzi per una simile "ambizione".
Intanto io ho moltiplicato l'esperienze di organizzatore: la Polymultipliéè (ex Trofeo degli scalatori) la riportai a Chanteloup-les-Vignes dove aveva avuto inizio e, dove, storicamente furono utilizzati i primi "cambi moderni". Poi Parigi-Bourges. In seguito ho creato delle prove per delle grandi imprese, come Point-P e per far ciò bisognava darsi da fare tutti i giorni per avere le autorizzazioni, per convincere gli sponsor prima e mantenerli poi.
Alain, che era ritornato con me, dopo essere stato inquadrato in una squadra che durò lo spazio di un mattino (Catavana), fu di nuovo attratto dal mondo del professionismo, perché nel 1997 Marc Madiot lo ingaggiò alla F.d.J. come direttore sportivo aggiunto. "Non posso rifiutare", mi aveva detto ed aveva ragione, ma io ero proprio in collera! Siamo stati a lungo senza parlarci, anche perché ero in una fase di attività intensa e stavo sempre a pensare al mio progetto su P-N; ne inventavo i contorni, li sviluppavo, per me era quasi diventato un'ossessione.
Sapevo che J. Leulliot aveva fatto la promessa di non cedere mai la corsa al Tour de France, mentre suo fratello (J. Michel) l'ex giornalista di TF1, non pensava che ai soldi e faceva di tutto per convincere la sorella a non pensare a chi fosse l'acquirente, ma a far sì che il prodotto riuscisse ad ottenere il prezzo più alto. Per diversi mesi mi trovai in una situazione di stallo, poi un giorno Eric Boyer, che aveva smesso di correre e che lavorava ogni tanto per Josette, mi telefonò: "Paris-Nice è sul punto di essere venduta al Tour, se tu la vuoi veramente, sbrigati, perché è ora o mai più." Allora ho subito ripreso il mio "bastone da pellegrino" ed ho rifatto il "forcing", scommettendo tutto sui grandi princìpi che ella stessa mi aveva illustrato. E Josette ha accettato la proposta di 4,5 milioni di franchi ... una grossa somma per me, anche se non sarebbe stato niente per l'altra società.
Con la Parigi-Nizza avevo acquistato anche le altre corse collegate a Monde 6 che avevano un buon suono per tutti gli amanti del ciclsmo: L'Etoile des Espoirs, la Route de France, la Grand Prix de France etc.
Fin dall'inizio di questa avventura, o quasi, sono cominciate le preoccupazioni; all'inizio con la banca, che mi ha veramente messo "i bastoni fra le ruote". Avevo concepito un piano-finanziario su tre anni, ma essi lo hanno respinto e mi hanno obbligato a mettere tutti i miei due milioni di franchi subito nell'acquisto, il che mi privava di ogni liquidità. Ciliegina sulla torta, rifiutarono l'ammortamento del prestito in quindici anni e lo portarono ad otto. Tutto ciò ha molto complicato il lancio della corsa. Era duro per i nervi, anche perché, poche settimane dopo l'accordo, la banca mi chiamava quasi tutti i giorni, una specie di "vessazione" continua, un vero e proprio inferno, tanto che sono pervenuto alla conclusione che le mie difficoltà con la banca non fossero dovute al caso.
Ero ancor più inquieto, perché conoscevo le mie lacune: non ero mai stato un buon commerciante, non sapevo vendere la mia immagine, mentre P-N aveva proprio bisogno di un professionista del "marketing" ed io non potevo permettermelo. Dopo il primo anno, ho capito che dal punto di vista finanziario non potevo uscirne indenne. A parte Phonak, con la quale avevo firmato un contratto, non era possibile trovare altri "partner" ed ho compreso solo più tardi quali fossero le ragioni: c'erano Havas Sports da un lato e il Tour dall'altro e fra i due sussisteva un patto di non aggressione (nota mia: una specie di Molotov-Ribbentrop). Pertanto i miei tentativi di annodare rapporti con Hava erano nulli in partenza e tutti gli altri grossi sponsor che avevo contattato, ci pensavano due volte prima di impegnarsi, perché non volevano inimicarsi né l'uno, né l'altro. La potenza del Tour de France, che non voleva certo il mio bene, diventò per me il principale handicap: nessuno osava mettersi contro i dirigenti del gruppo Amaury.

 

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"Per principio rifiuto di sottopormi a questi controlli. Non sono ostile alla lotta al doping, che ritengo indispensabile tra i dilettanti, ma nel caso di professionisti è differente. Dopo 12 anni di carriera io so quello che devo fare e non voglio che una mia vittoria venga messa in dubbio dalla fantasia delle analisi".

(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 27/10/2009 alle 15:49
Nous étions jeunes et insouciants (LX)


I fatti purtroppo sono testoni e tutti i miei rapporti con le città, i consigli generali o regionali erano complicati. Con la voglia di innovare dal punto di vista sportivo, volevo assolutamente trovare dei percorsi mai fatti, con delle salite non ancora affrontate e, se possibile, non troppo lontane dagli arrivi per offrire ai corridori dei profili adatti a rispondere alle loro velleità di attaccanti,. Volevo evitare a tutti i costi una corsa monotona e che si assomiglia sempre, di anno in anno, come quelle che avevo disputato io. Ho bene in mente il ricordo di cinque o sei P-N nelle quali le tappe erano sempre le stesse. Una caricatura di corsa!
Un giorno sono andato a trovare il sindaco di Macon per proporgli l'arrivo di una tappa, perché questo mi avrebbe permesso di avere un finale del tutto nuovo con una "cote" molto interessante. Il sindaco mi ha risposto che non ci sarebbero stati problemi, lo propongo al consiglio comunale e sarà votato certamente. Sorpresuccia (nota mia: questa parola la usa mio nipote, il Sardino ), tre giorni dopo, la proposta è stata bocciata.
Ho compreso/saputo che i dirigenti dell'A.S.O. avevano fatto pressione affinché la città non accordasse questo arrivo; come per caso, l'anno seguente (2002) Macon fu scelta per l'arrivo di una tappa del Tour. Occorre aggiungere che questo esempio si ripeté più volte, perché quasi sempre si diceva loro: "Se voi accettate P-N, non pensate più al Tour". Che grande dignità!
Nel 2000 e 2001 P-N fu dal punto di vista sportivo molto buona, mi sembra, e non c'è stato niente da ridire sul piano organizzativo: belle partenze e begli arrivi, ma dovevo battermi in permanenza con tutte le città, anche quelle acquisite alla corsa, come Nizza. I nizzardi avevano anche pensato, come accade ormai, che l'ultima tappa arrivasse in città, anziché sul col d'Eze, ma io non volevo toccare questo "mito" ed ho combattuto con tutte le mie forze questa idea di "innovazione". Sono riuscito a vincere temporaneamente questa battaglia simbolica, ma lo stesso successo non ha avuto chi è venuto dopo di me.
Per organizzare P-N impiegavo sei persone in tutto e due di loro, F. Lemarchand e Valérie, che ho sposato qualche anno dopo, si occupavano anche di altre attività della L.F. Organisation. Ma già dal secondo anno non c'erano più dubbi sulla mia impossibilità a reggere finanziariamente, salvo se non volessi andare verso il fallimento. La seconda edizione si era svolta in modo quasi perfetto, ma sapevo benissimo che per me non ci sarebbe stata la terza. Dovevo vendere! E quale fu la mia strategia? Ho aspettato il maggior tempo possibile per obbligare il Tour ad acquistare. Dato che mi impedivano di "respirare", bisognava che essi capissero che era quasi un obbligo morale per loro e quindi ho aspettato gennaio per telefonare, ossia appena tre mesi prima della partenza!
"Se siete sempre interessati all'acquisto, sappiate che vendo."
J.M. Leblanc mi ha fatto avere la risposta dieci giorni dopo, ma le condizioni erano tali che il risultato personale è stato un deficit totale di due milioni di franchi!
Devo precisare che, oltre a rimetterci, mi sono anche lasciato da "nemico" con loro. J.L. Leblanc non ha voluto negoziare direttamente con me ed ha delegato questa "missione" a Daniel Baal, l'ex presidente della federazione francese, che era allora il numero 2 e successore virtuale del capo (ma resterà tale ). Poco competente e troppo sicuro di sé, venne accompagnato da J.F. Pescheux, direttore sportivo del Tour, che in questo caso avevo il ruolo di spulciare i conti. Mi domandavo quale belle idee si facevano sugli altri, per pensare che volessi imbrogliarli non si sa come o dove. Dubitare fino a quel punto della gente mi sembra molto ... Non hanno trovato niente, ma avevano tentato comunque di umiliarmi.
Ma non era ancora finito, perché il giorno della vendita sono arrivati in cinque, allorché io ero solo con il mio avvocato. E, con sommo mio stupore, volevano rinegoziare. In specie i termini di pagamento venivano allungati! Inutile dire che "bollivo" sulla sedia e l'avvocato, che mi conosceva bene, temeva una reazione ... Che non è mancata.
Dopo due ore di trattative, ho colpito il tavolo con tutte le mie forze e ho detto loto: "Voi volete sporcare tutto, mi prendete per un bandito o non so che altro nome usare!? La trattativa finisce qui, non vendo più! Levatevi di torno!
Il loro atteggiamento non era stato onesto ed anche J.M. Leblanc, che dopo la fine della mia carriera aveva fatto di tutto per allontanarmi dalla famiglia ciclistica, lo confessa (almeno a metà) nel suo libro "Le Tour de ma vie" :"Comprendo, fra le righe, che il clima delle discussioni non sia stato troppo buono per il suo (di Fignon) amor proprio. Non bisogna mai "ferire"i propri interlocutori."
Toccante quanto scrive il signor Leblanc, per una volta capace di un po' di umiltà, lui che, come giornalista prima e come direttore del Tour dopo, non ha mai mostrato molta franchezza. Ha sempre conosciuto ogni tipo di accomodamento e con R. Legeay e T. Cazeneuve ha tirato tutti i fili del ciclismo francese per troppo tempo.
La reazione di fronte a D. Baal e agli altri era dunque legittima ed essi ripartirono a testa bassa. L'avvocato mi disse che temeva che lle cose finissero in tal modo.
Frattanto Tony Rominger, portavoce di una finanziaria svizzera, si era detto interessato e quindi, perché no, l'ò subito chiamato, ma, con mia grande sorpresa, non poteva fissare un appuntamento prima di una quindicina di giorni ed allora mi sono sentito "preso alla gola".
Dopo ho saputo che l'A.S.O. aveva costretto anche lui a far rientrare le proprie ambizioni.
Avevo messo Baal KO, certo, ma sapevo anche che Leblanc non si sarebbe certo mosso e quindi sono stato costretto a chiamare direttamente P. Clerc, il grande patron di Amaury Sport Organisation e gli ho detto in tutta sincerità: "Le mie parole hanno oltrepassato il pensiero, ma non trovo corretto che si cerchi di rinegoziare ciò su cui eravameo d'accordo e che mi si voglia pagare a delle scadenze assurde." Lui mi ha risposto in tono conciliante e mi ha chiesto se ero sempre disposto ... "Certo, ma non con Baal." Patrice Clerc ha fatto allora quello che doveva, nominando un altro portavoce e tutto fu sistemato in poco tempo e come era stato previsto.
Mi rammento di aver pensato: "Con Baal a la testa del Tour, avranno dei grossi problemi, non solamente non sa condurre gli affari, ma non conosce neppure niente di una corsa ciclistica." Ed avevo visto giusto, perché il gruppo si è separato da lui, prima che potesse succedere a Leblanc.
In tutta obiettività, se avessi insistito con P-N avrei potutto perdere tutto, anche perché non possiamo dimenticare che l'inizio degli anni 2000 era un periodo di grande crisi nel ciclismo, che non riusciva a rimettersi dopo l'affare Festina e continuava ad accumulare i casi di doping. Per un indipendente come me, aver osato comprare P-N a quell'epoca era stata un'audacia eccezionale, votata alla sconfitta; solo la potenza finanziaria della società del Tour poteva sopportare il fardello di questo periodo di buio.
Ciò detto, dopo gli scontri, furono corretti con me e mi permisero anche di collaborare nella corsa per due anni. Occorre dire che P-N era sana, malgrado tutto, perché ero riuscito ad installare un piano-mediatico assolutamente rivoluzionario in questa corsa: avevo negoziato la diffusione nel mondo per almeno un centinaio d'ore di televisione, allorché, prima, ne passavano, al massimo, una dozzina.
La pagina era voltata, dopo questa esperienza di organizzatore impedito, ho cambiato tutto, cessando teoricamente tutte le mie attività del genere, salvo, in pratica, Paris-Corrèze.
Avevo perso molti soldi, ma non era la cosa più importante: stavo concludendo il mio divorzio da Nathalie e il mio bel sogno di trasformare
P-N era ormai passato; un ciclo si chiudeva per me e, dopo dieci anni dalla fine della mia carriera sportiva, era vitale per me cambiare, come ogni dieci anni.
Sempre guidato dalla passione, ho avuto allora un'opportunità straordinaria: sono stato contattato per riprendere un affare che riguardava sempre il ciclismo e sono andato a Gerde, un comune vicino a Bagnères-de-Bigorre, negli alti-pirenei. Vedendo questi luoghi, ho sentito un brivido!
Immediatamente ho capito che avevo trovato il luogo ideale per il centro Laurent Fignon che è stato creato nel giugno 2006. Ai piedi del mitico colle del Tourmalet, nel dipartimento con dodici montagne e che erano stato tappa di arrivo del Tour innumerevoli volte a cominciare dal 1910, che domandare di meglio? Là ho immaginato una nuovo modo di fare "stage" e lanciarmi in questa avventura fu un vero e proprio colpo di fulmine.
Una confessione, tuttavia, ripensando talvolta a P-N posso solo dire che sono rimasto annientato da questa sconfitta. L'abito di organizzatore non era di una misura troppo grande per me, ne sono convinto, e mi rimane nel profondo la certezza che avrei potuto trasformare questa corsa in quache cosa di "unico", qualcosa che mi avrebbe assomigliato. Ma i dirigenti del Tour erano stati feriti dal fatto che ero passato davanti a loro e me l'ànno fatta pagare!
Anche i più audaci sono costretti a piegarsi davanti ai potenti ... talvolta.

 

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Livello Greg Lemond
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  postato il 28/10/2009 alle 16:51
Nous étions jeunes et insouciants (LXI)

Un profumo di autenticità



C'è una differenza fra il consultante televisivo, che sono diventato ormai, e l'ex ciclista che di questa passione viveva? A mio avviso, no, perché la passione mi guida tuttora e, secondo me, deve costituire il nutrimento intellettuale e il cuore stesso di un consultante, perché senza cultura ciclistica e passione questo lavoro non si può fare.
Dopo una lunga esperienza ad Eurosport e poi a France Télévision, posso proprio dire che *amo* commentare le corse alla TV, come consultante, ma soprattutto come appassionato.
Faccio questo mestiere sempre con grande piacere, anche se ci sono stati momenti difficili in una dozzina d'anni, anche se con tutti gli affari di doping, qualche forma di scoraggiamento si è insinuata nel mio spirito. Ho in effetti il ricordo di corse che non avevano più né testa, né coda e tutte le frontiere della comprensione erano state annullate, l'unica virtù da dimostrare era la pazienza.
A me piace spiegare le corse ai telespettatori, aiutarli a comprendere i fatti, analizzare le tattiche e ciò, secondo me, è un piacere raro e sicuramente un privilegio. Ma attenzione, io sono un consultante, non un giornalista e, contrariamente a molti altri, non cerco mai di essere consenziente: dico quel che penso in quel momento e credo che i telespettatori amino la sincerità, anche se poi, può capitare di essere smentiti dai fatti. Da quando commento il Tour per F.T. devo dire tuttavia che ho messo un po' d'acqua nel mio vino, nel senso che non posso essere così ironico come su Eurosport: bisogna un po' adattarsi al grande pubblico, senza però diventare altro da se stesso. Mi sforzo sempre di parlare solo se ho qualcosa da dire e posso anche stare minuti senza aprire bocca, se le circostanze le richiedono, non ho nessun preccupazione, riguardo al mio ego, in questi casi.
Ciò non mi impedisce di pensare e di dire che il ciclismo vive oggi la malattia dello sport in generale: la posta è molto più alta che ai miei tempi e quando dico posta, mi riferisco, naturalmente, ai soldi. I media hanno peso e potere e gli sponsor sono ancora più importanti di prima e fra loro si crea un circolo (viziosoo virtuoso?) nel senso che ciascuno alimenta l'interesse dell'altro.
Bisogna dire la verità ai nostri giorni quando un corridore fa un gran colpo al Tour, sembra che abbia inventato un nuovo sport! Il ciclismo infatti, si è trasformato in uno sport di difesa, dimenticando la sua ragion d'essere essenziale: l'attacco. Certo che occorre anche saper difendere una posizione, per esempio in un G.T, ma come fare a vincere senza attaccare? E' l'essenza del ciclismo, il suo spirito, l'anima, non si può solo sperare che l'altro ceda, perché questa è la mentalità dei piccoli, non dei campioni.
Chi si ricorda il nome del sesto o del settimo negli ultimi Tour, forse nessuno, perché è un piazzamento che non appassiona, ma per certi dirigenti del ciclismo attuale, sponsor o media, riuscire in tale "impresa" al Tour è più importante che vincere una grande classica ed io la chiamo la perversione del sistema. Arrivare terzo o quarto al Tour rappresenta di certo un valore sportivo, ma quando uno che è arrivato quinto o sesto e fa di tutto per dimostrare al suo "datore di lavoro" che avrebbe dovuto arrivare addirittura quarto, si può parlare allora di "valore di mercato". Quest'ultimo è il ciclismo vero? Per me, no.
Il primo che "incarnò" questa maniera di condurre la carriera si chiama Greg Lemond. Lui faceva solo due corse all'anno ed il resto non contava. Dopo la seconda vittoria al Tour e la conquista di una nuova maglia iridata, l'americano aveva fatto fruttare questo modello al di là di tutte le sue aspettative che, al riguardo, erano pur altissime.
Intorno a lui, l'imprenditore Roger Zannier, creò l'anno dopo la "Z" una squadra fatta apposta per lo scopo e Greg sarà pagato 1,5 milioni di franchi al mese. Il ciclismo non aveva soltanto cambiato epoca, ma anche scala di valori ed infatti, dopo, tutti hanno copiato l'originale, perché ci hanno visto il loro interesse. Miguel Indurain, Ian Ullrich ed anche Lance Armstrong.
A questo proposito, non sono nella migliore posizione per giudicare tutti questi campioni, perché le mie conoscenze sono limitate, però, se provo rispetto ed anche ammirazione per certe loro gesta, trovo tuttavia che hanno stravolto il ciclismo che ho sempre amato. Ed a questo riguardo sono in buona posizione per saperlo: sono gli uomini che determinano la natura profonda di ogni epoca.
Armstrong è, per esempio, uno dei simboli degli "anni di piombo"? Certi lo affermano, ma non sarebbe il solo. Per parte mia, la sola volta che ho incontrato l'americano è stato in una circostanza tragica, nel 1996. Malato di il cancro, dimagrito, calvo, annunciava in una conferenza stampa a Parigi che avrebbe messo la sua carriera fra parentesi, perché sarebbe stato operato al cervello ed i medici non potevano togliere la riserva circa la prognosi infausta. Devo dirlo: la sera, in attesa di prendere l'aereo la mattina dopo, tutti lo avevano lasciato solo e, sapendolo, sono andato con la mia ex moglie Nathalie ad invitarlo a cena e mi rimane di quella serata un ricordo emozionato ed anche sorprendente. Mi sono domandato allora se quella era l'ultima volta che lo vedevo vivo ed in effetti lui ci aveva confidato le sue grandi paure, ma al contempo dimostrava una volontà di battersi con tutte le sue forze.
Che dire di un uomo che vince il cancro in quel modo? Che dire di uno sportivo che ritorna e vince sette volte il Tour, la prova sportiva più dura che esista?
Da tutti i punti di vista ... le parole non mancano.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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