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Autore: Oggetto: Fignon

Livello Greg Lemond
Utente del mese Gennaio 2009
Utente del mese Giugno 2010




Posts: 5660
Registrato: Mar 2005

  postato il 27/07/2009 alle 14:45
Nous étions jeunes et insouciants (I)

Otto secondi

"La riconosco, signor Fignon, lei è quello che ha perso il Tour per 8 secondi!"
"Nossignore, io sono quello che ne ha vinti due "

Noi non avevamo paura di niente ...
Sacrilegio! Avevo scelto molto tempo fa queste parole per introdurre il libro, poi ho esitato prima di ... per il rischio che si trasformassero in pseudo *parole d'ordine* invece che la pura testimonianza di una certa realtà: quella della mia epoca.
Questo libro è nato da un mondo ormai perso, ove esistevano gli uomini e non soltanto gli sportivi e quel che voglio dire è che in me il primo ha sempre avuto il sopravvento. Fuori da un mondo di sogno, con gli occhi bene aperti e sempre consapevoli della propria vita, altrimenti a che serve l'esistenza? E sempre avere l'orgoglio dell'essere libero e anche ... rispetto a chi adora invece le proprie catene d'oro.
Il ciclismo è un'attività per uomini liberi e chi dimentica ciò è di già in letargo! Vale molto di più rischiare di farsi male per vincere che accontentarsi di una sconfitta onorevole, ma passiva. Io non le volevo queste sconfitte, perché vedevo/vedo la vita nel saper cogliere il presente e non nel saper pianificare il futuro.
Certo si può anche dire che la penso così, perché ho avuto fortuna, perché negli anni ottanta (che fanno da cerniera a due universi ciclistici antagonisti) io ho potuto vivere l'ultimo periodo di un un ciclismo "incosciente".
Forse sì, e per me la carriera è stata la vita e se la bici dice tutto sul carattere degli uomini, è probabile che abbia detto anche quasi tutto su di me.
Io ho vissuto senza saperlo allora, la fine di un'età d'oro. L'età d'oro? E' una grande parola, ma a me pare una definizione adeguata, anche se la mia è:"Il punto finale della dignità umana".
Tuttavia nessuna nostalgia, tutt'al più un po' di malinconia, perché non ho mai pensato che i miei tempi ... erano differenti, voilà .
Ed ho la sensazione di aver attraversato il periodo "hippie" del ciclismo e credo anche di esserne stato uno dei principali istigatori ed alcuni infatti mi paragonano ad un capo banda. Uno strano capo, direi ed ancor più strana la banda .
Per noi la vita non cessava mai di essere tale ed in sintesi si può dire che non ci sottomettevamo mai, anche se moribondi non siamo mai stati dei robot! Pazzi, ma degni; troppo giovani talvolta, maturi in altri casi.
Il punto di svolta della mia storia si situa esattamente l'ultimo giorno del Tour 1989: giorno di tristezza, l'unico nel quale qualche secondo diventò l'eternità. Molti vedono, d'altra parte, in questa data il *segno* del passaggio fra due ciclismi affatto differenti, in sintesi l'individuo e la massa.
Otto secondi, Champs-Elyées, Avenue del martirio, pavé d'inferno

 

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Fanno festa i musulmani il venerdì
il sabato gli ebrei
la domenica i cristiani
...
e i barbieri il lunedì

"Per principio rifiuto di sottopormi a questi controlli. Non sono ostile alla lotta al doping, che ritengo indispensabile tra i dilettanti, ma nel caso di professionisti è differente. Dopo 12 anni di carriera io so quello che devo fare e non voglio che una mia vittoria venga messa in dubbio dalla fantasia delle analisi".

(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

Non riesco a comprendere perché Morris non sia assunto da nessuna rete telvisiva come opinionista

 
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Livello Greg Lemond
Utente del mese Gennaio 2009
Utente del mese Giugno 2010




Posts: 5660
Registrato: Mar 2005

  postato il 28/07/2009 alle 15:44
Nous étions jeunes et insouciants (II)

Questo libro nasce dentro di me, un io messo a nudo per rifiutare l'idea stessa della cicatrice. Lasciamo che la ferita sanguini, ancora per lungo tempo.
Il Tour è il punto di riferimento della storia del XX secolo, io nell'ottantanove ne conoscevo già ogni sapore ed anche il prezzo da pagare per la mancanza di ...
Avevo vinto un mese prima il Giro e mi sembrava di essere ritornato il corridore che amavo essere, ma potevo anche sperare in quella doppietta che mi era stata *rubata* (l'asterisco è mio) nel 1984! (anche il punto esclamativo è mio). Ed infine vincere tre volte il Tour mi avrebbe messo all'altezza d'un Louison Bobet (nota mia: quest'ultimo solo dopo che è diventato Grande ha avuto diritto al diminutivo, perché i primi anni tutti lo chiamavano Louis Bobet).
E tuttavia alla vigilia mi sono ricordato di una frase bisbigliata all'orecchio del mio amico Alain Galloppin: "Credimi, l'ottantanove sarà l'ultimo anno per me. Come se io sentissi che il mio "canto del cigno" si sarebbe udito ben presto e che io dovevo proprio affrettarmi se volevo ...
La mia squadra (Super U) mi pareva una delle migliori del mondo, perché, secondo me, Guimard era stato capace, come pochi, di sapersi adattare ai cambiamenti apportati dalle nuove generazioni, egli sembrava avere sotto controllo anche ciò che non sapeva.
Ed io rispondevo presente, nonostante che mi avessero sotterrato (vivente) almeno cento volte .
Prima de "Le grand départ" dal Lussemburgo avevamo concluso un magnifico allenamento in altitudine (sui Pirenei) ed avevo proprio "fame di correre" (Nota mia: fra i suoi gregari figurava anche Biarne Rijs).
Nel prologo arrivo, secondo (insieme a Lemond) a 2 secondi da Breukink e realizzo subito che Greg, che non aveva quasi più corso dopo il colpo di fucile ricevuto nell'ottantasette, sarebbe stato per me, probabilmente, l'uomo da battere. Mentre Delgado era già fuori, perché un professionista non si comporta come lui. (Arrivò in ritardo di tre minuti alla partenza)
Rammento che in quel giorno i fotografi era pazzi per me, ero un vincitore più che possibile e quindi facevo tiratura. Come d'abitudine non sono stato troppo simpatico con i giornalisti e fotografi, ma perché poi uno deve dimostrare di essere felice per il fatto di essere sottoposto ad una simile pressione?
La II tappa (cronosquadre) mi permise di accrescere la fiducia in me, perché mi presi volentieri quasi la metà del lavoro ed arrivai con 40 secondi di vantaggio sull'ADR di G.L. che, è il meno che possa dire, non era certo alla testa di una grande squadra. . Quanto a Delgado confermò quanto avevo pensato il giorno prima.
Il mio avversario aveva solo un nome: Greg Lemond, vincitore del Tour 1986 e la dimostrazione si ebbe nella V tappa, crono di 73 Km, una distanza da titani. Avvantaggiato dal fatto di essere partito un'ora prima, con un clima migliore, mi dette 56 secondi di distacco.
Lo svantaggio non era eccessivo comunque, perché Greg era un passista ben migliore di me ed inoltre aveva una bicicletta con la c.d. protesi da triathlon che gli assicurava una migliore penetrazione nell'aria. Secondo i regolamenti d'allora sarebbe stata vietata, ma, per ragioni che non so spiegarmi neppure ora, noi non abbiamo presentato reclamo e questo nostro atteggiamento avrebbe avuto conseguenze che certo non potevo immaginare allora.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Fausto Coppi
UTENTE DELL'ANNO 2009
Utente del mese Luglio, Novembre e Dicembre 2009




Posts: 15932
Registrato: Jul 2007

  postato il 28/07/2009 alle 16:37
Che persona straordinaria, Fignon.
Ti ringrazio, Carlo, per il tuo lavoro di traduzione, oltremodo gradito.

La definizione degli anni '80 come periodo "hippy" del ciclismo è da antologia. Grandiosa!


"La riconosco, signor Fignon, lei è quello che ha perso il Tour per 8 secondi!"
"Nossignore, io sono quello che ne ha vinti due "


 

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« La superstizione porta sfortuna »
(Raymond Merrill Smullyan, 5000 B.C. and other philosophical fantasies, 1.3.8)


Fantaciclismo Cicloweb 2010

Piazzamenti sul podio:


Omloop Het Nieuwsblad Élite: 3°
E3 Prijs Vlaanderen - GP Harelbeke: 2°
GP Miguel Indurain: 1°
Ronde van Vlaanderen / Tour des Flandres: 3°
Rund um Köln: 1°
Liège-Bastogne-Liège: 1°
Giro d'Italia: Carrara - Montalcino: 2°
Tour de France: Sisteron - Bourg-lès-Valence: 1°
Tour de France: Longjumeau - Paris Champs-Élysées: 1°
Tour de France - classifica finale: 3°
Gran Premio Città di Peccioli - Coppa G. Sabatini: 1°

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Asso di Fiori

 
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Livello Greg Lemond
Utente del mese Gennaio 2009
Utente del mese Giugno 2010




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Registrato: Mar 2005

  postato il 29/07/2009 alle 14:56
Nous étions jeunes et insouciants (III)

Lemond era in giallo con pochi di secondi di vantaggio ed io mi immaginavo che lui non avrebbe preso nessun rischio, ed infatti la prima tappa dei Pirenei fu conforme alla mia previsione: stette sempre dietro, quasi come uno spettattore , d'altra parte non aveva una squadra molto solida.
Quando la Reynolds attaccò con Delgado ed Indurain, Greg non baté ciglio, fui io costretto a limitare i danni, con lui sempre dietro e, a dire la verità, ciò mi fece parecchio arrabbiare.
Nella decima tappa c'erano il Tourmalet, l'Aspin e il Peyresourde ed io quel giorno ebbi una crisi, in particolare sul Tourmalet dove non avrei potuto rispondere ad attacchi portati con determinazione, però i miei avversari non si sono accorti di niente e, ironia della sorte, meno male che l'avversario era Greg che era incapace di attaccare .
La salita verso Superbagnères dimostrò ciò ancora una volta: mi pare che in quel giorno non sia venuto nemmeno una volta ai miei
fianchi e questo fatto mi innervosiva. E quando ero nervoso, dovevo reagire in qualche modo. A pochi Km dalla vetta partirono insieme "i fratelli olandesi del siam " Rooks e Theunisse ed ho guardato Lemond per vedere se reagiva, perché io ero incapace di farlo. Tuttavia che Greg potesse ancora una volta restare alla mia ruota, mi rendeva pazzo e allora, all'ultimo Km mi sono spinto al di là delle mie possibilità di quel giorno e ... mi concesse 12 secondi, sufficienti per riprendere la maglia .
Io ero contento di portare ufficialmente il "peso" derivante dal simbolo del primato, tanto anche quando l'aveva Lemond, si rifiutava di farlo .
La sera, in conferenza stampa, dichiarai che il comportamento di Greg mi irritava e che l'opinione pubblica non si era sbagliata, trattandolo da "succhiatore di ruote". Ciò detto, per dimostrare che nessuno è al riparo dalle critiche, un tifoso sulla strada, urlò al mio indirizzo: "Meno chiacchere e più fatti". Questo spettatore aveva ragione, infatti era da sempre quella la concezione del mio mestiere.
Certamente qualche osservatore attento, mi fece osservare che Lui non aveva la squadra adatta per assumersi responsabilità, ma per me, anche tenuto conto di ciò, esagerava.
La mattina dopo Egli è venuto da me e mi ha urlato "Come osi dire cose simili!" La sua immagine ne usciva immiserita e non gli piaceva per niente, perché lui ha sempre fatto attenzione alla popolarità e con i giornalisti è sempre stato in rapporti buoni, al limite del ...
Io non sapevo/volevo farlo e perché poi? Ho sempre preferito restare me stesso: tacere magari, ma non mentire.
Fino alle alpi la corsa rimase calma, salvo il fatto che il mio amico V. Barteau vinse la tappa del 14 luglio 1989, cioè 100 anni da ...
Nella XV tappa c'era una cronoscalata e, sui trentanove Km, gli concessi una cinquantina di secondi e la maglia con quaranta di vantaggio ed io sapevo che nelle Alpi dovevo attaccare, altrimenti non ci sarebbe stato altro che la sconfitta assicurata.
Il giorno dopo si arrivava a Briançon, passando per l'Izoard e in cima non riuscii a tenere le ruote di Theunisse, Mottet, Delgado e ... Lemond . Mi sono buttato giù in discesa, ma ho perso 14 secondi. Per gli spettatori, sul momento, questi secondi non parevano gran cosa, se però avessero saputo ... o
La XVII arrivava all'Alpe-d'Huez ed insieme a Guimard abbiamo messo in essere una tattica tipo "o la va o la spacca", costretto, ma anche felice perché ciò corrispondeva alla mia voglia profonda di osare: prendere cioè la prima curva dell'Alpe come se l'arrivo fosse a 100 metri .
Nota mia: L.F. descrive nei dettagli quasi tutti i tentativi dei due, prima Fignon, poi Lemond, poi ancora Fignon e così via, a me pare sufficiente la parte finale:
"Eravamo (lui et moi) totalmente senza fiato, incapaci di alzarci sui pedali ... era o la vita o la morte".

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
Utente del mese Gennaio 2009
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Registrato: Mar 2005

  postato il 30/07/2009 alle 15:16
Nous étions jeunes et insouciants (IV)


Per quelli che hanno visto questa serie di scatti continua, deve essere stato uno spettacolo emozionantissimo, mentre la TV non mostrò quasi niente nella diretta, con nostro grande stupore Eravamo rimasti solo noi due, però esausti, ma io non potevo rimproverarmi niente, per far cedere Lemond bisogna spingerlo verso le sue ultime difese, costringerlo al rosso subito, per poi poter ricominciare un po' più tardi se ... si poteva.
Evidentemente qualche corridore rientrò da dietro: Rondon, Delgado, Lejarreta, Rooks ... poi a 6 Km dalla vetta, Guimard viene a dirmi: "Attacca, è cotto." Ma io ero incapace di farlo e quindi dovetti mormorargli: "Moi aussi!"
Continuai al ritmo che potevo, ma l'intervento di Guimard mi ossessionava. Passati ai 5 Km, il ritmo si abbassò ed io cominciai a sentirmi un po' meglio, il vecchio duraccio che ero stava riprendendo la meglio, progressivamente ed ai 4 Km ho provato e ... Lemond non poté seguirmi. In meno di 4 Km gli ho ripreso 1'19''. Guimard aveva avuto ragione e se avessi potuto seguire i sui consigli il Tour l'avrei vinto.
In che modo C.G. si era potuto accorgere che Greg era in crisi non l'ò mai saputo con certezza, ma penso che Guimard se ne fosse accorto dal modo come stava in sella.
Avevo ripreso la maglia con 26" di vantaggio, ma temevo che non fossero sufficienti per affrontare con sicurezza l'ultima cronometro di 24,5 Km sur les Champs-Elysées e quindi cercai di approfittare del mio vantaggio psicologico ed il giorno dopo, al plateau de Vercors, allorché la PDM conduceva ad un ritmo molto elevato, ho piazzato un attacco terrificante, tanto che nessuno, sebbene Lemond e Delgado fossero coalizzati, ha potuto seguirmi. Arrivai ad avere 52" nella discesa, ma una brutta sorpresa mi attendeva nella valle: un maledetto vento contrario! Dietro erano in quattro: i due alandesi, Delgado e Lemond, ma furono i primi a fare tutto il lavoro, mentre il mio avversario non dovette dare "un colpo di pedale". Vittoria di tappa, ma solamente 24" di vantaggio e 50" in classifica, tuttavia la sera in Albergo era piuttosto l'euforia a prevalere, mi sembrava di essere sicuro di aver vinto il Tour.
Il giorno dopo, verso Aix-le-Bains su dei colli minori, come le Granier o il Porte mi sentivo "le ali" ed a un certo momento sul Porte ho accelerato e nessuno mi ha seguito. Guimard è venuto e mi ha detto: "Che fai?" Mi diverto ho risposto. "Allora continua"
Dilemma del tipo "essere o non essere"? Restavano 70 km e l'ultima valle ancora con il vento in faccia ed ho finito per concludere: "Ho abbastanza vantaggio per vincere, non si sa mai, potrei prendere un rischio inutile, mi rialzo".
Quando ripenso alla situazione mi viene da chiedere: "Che sarebbe succcesso?" Mah!
Lemond ha vinto la tappa allo sprint, perché era il più veloce di noi e per essere precisi, dopo la linea d'arrivo, sono andato a dargli un colpetto sulla spalla per congratularmi. Ero veramente sincero e gli ho detto "Ci siamo veramente battuti bene". Dentro di me era tutto terminato, avevo vinto il mio terzo Tour.
La sera però mi sono reso conto di avere un dolore piuttosto acuto sotto la coscia; si sarebbe visto trattarsi di un indurimento muscolare proprio dove la coscia sfrega di continuo con la sella, però secondo me non era tale da preoccuparmi ed infatti non mi preoccupavo. Invece avrei dovuto!
La sera dell'ultima tappa in linea avevo talmente male da non poter andare al controllo antidoping e i controllori ebbero la gentilezza di aspettare che io fossi sul TGV per procedere al prelievo.
Nessuno, oltre Cyrille e il medico ne era a conoscenza e durante il viaggio non mostrai la mia inquietudine.
Alla gare de Lyon c'era un caos incredibile: dozzine di fotografi e di cameramen, era allucinante. D'altra parte un francese era sul punto di vincere il Tour (nota mia - e loro non sapevano che non ce ne sarebbero stati più in seguito e ad oggi non si vede ancora ...).
Appena sceso sul marciapiede mi hanno messo una telecamera sotto il naso, facendomi in più domande aggressive. Era la 5, l'ex canale francese di Berlusconi, che era di continuo alla ricerca di qualcosa di sensazionale.
Loro mi dicono: "Perché ha rifiutato il controllo antidoping?" Io non avevo voglia di rispondere ad una domanda così ridicola e cercai di camminare senza farmi troppo impressionare da que tohu-bohu.
Il giornalista insistè veramente troppo, secondo me, e ... ho sputato sulla prima telecamera che mi intralciava il passo!
Sfortuna nera: era quella di una televisione spagnola che non c'entrava per niente!
Poco dopo ci furono parecchie spintonate ed il cameraman della 5 buttò Jérome Simon addosso a me, ed io, senza riflettere, ho dato uno spintone violento al tipo che, alla fine dell'anno sporgerà querela contro di me per colpi ricevuti e conseguenti ferite.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Fausto Coppi
Utente del mese Agosto 2009
Utente del mese Gennaio 2010




Posts: 2761
Registrato: Dec 2004

  postato il 31/07/2009 alle 13:43
Spero mi si possano perdonare questi 5 minuti di pensieri scritti di getto, per quanto ruvidi, in controtendenza e quasi imbarazzanti.

Quando poco più di un mese e mezzo fà mi sono inevitabilmente imbattuto nelle anticipazioni del libro di Fignon, devo ammettere che rimasi terribilmente perplesso da alcuni passaggi. Mi riferisco chiaramente a quelli relativi alla Colombia, a Lucho Herrera, al Clasico RCN 1984, alla Vuelta 1987, alla cocaina, alla mafia e via dicendo.

Diciamo che una mezza idea me l'ero già fatta, ma ho preferito "sospenderne il giudizio" in attesa che la bomba deflagrasse (chissà se Laurent l'aveva messo in preventivo) tra la gente direttamente interessata, spedita dritta dritta sul loro orgoglio, se non altro per avere la versione dei fatti dell'altra sponda in questa sorta di diatriba. E dopo un fisiologico ritardo dovuto probabilmente alle distanze ed alle traduzioni, la bomba è esplosa ieri.

Fignon secondo me ne esce male, molto male, pure peggio di quanto un campione come lui, a maggior ragione nel difficile momento che stà attraversando, meritasse, e la mia mezza idea è diventata purtroppo qualcosa di molto più concreto e delineato.

Personalmente la storia mi è sempre piaciuta e questa sua recente autobiografia, sia per contenuti che per contesto, mi ricorda incredibilmente il "Memoriale di Sant'Elena" di un tale suo illustre connazionale.

Il contenuto. Un mucchio di idiozie autocelebrative, per la morale dell'epoca ovviamente, fino al punto di stravolgere i fatti più indiscutibili. L'autocelebrarsi nella stessa maniera oggi verrebbe percepito come patetico, molto meglio invece improvvisarsi personaggi da romanzo, "fieri, coraggiosi, spavaldi e poetici" per l'appunto. Il tutto può evidentemente risultare più credibile se condito con qualche tormento o segreto che l'interessato ha avuto la cortesia e l'onestà di rivelarci in anteprima. Più fa scalpore, meglio è.

Il contesto. Certamente non ho né i titoli né la capacità per inquadrare esattamente in quali circostanze un atteggiamento del genere può essere più frequente, ma per esperienza diretta mi sento di dire che quando una persona viene anche soltanto accarezzata dall'idea della morte e non è in pace con sé stessa, le sue frustrazioni, nella vita come nello sport (tipo aver beccato 47 minuti in classifica all'RCN dell'84 -> notte brava alla vigilia dell'ultima tappa salvo poi vincerla nonostante fosse un circuito cittadino pieno di curve ed insidie, o ancora, aver perso nettamente ad Avila la Vuelta dell'87 a tre tappe dalla fine -> ci hanno comprati per non attaccarli più, quando Fignon non era neanche più l'avversario principale della Café de Colombia) possono degenerare in certi sproloqui, gli episodi magari anche veri diventare una presenza costante, il "nemico" sporco, puzzolente, giallo e magari spacciatore e mafioso.

Concludo sottoscrivendo in pieno le parole del suo DS dell'epoca, Cyrille Guimard: "Mi dispiace che sia malato e spero che guarisca per tornare ad avere la lucidità del gran campione che fù ai suoi tempi". Per una buona volta credo non siano macchiate dalla sostanziale ipocrisia di fondo che regna nell'ambiente.

 
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Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




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Registrato: Oct 2003

  postato il 01/08/2009 alle 17:41
Originariamente inviato da faxnico

Spero mi si possano perdonare questi 5 minuti di pensieri scritti di getto, per quanto ruvidi, in controtendenza e quasi imbarazzanti.



Non sono per niente in controtendenza, ma perfettamente sincronici al conformismo che vuole far passare lo sport, SEMPRE, come un’isola felice ed immacolata delle azioni umane e delle società. Non è per niente così, ma guai a dirlo!

Ed ha ragione chi dice che la verità da sempre fastidio, crea nemici, fa apparire peggiori, supponenti, ed è meglio non dirla, limitandosi ad ometterla, o a dribblarla come fossimo Garrincha. Aveva ragione quel mio professore: “Meglio non scrivere la propria autobiografia, perché da una parte senti il dovere di dire e, dall’altra, sai già che fra i lettori ci saranno sempre quelli che faranno di tutto per disprezzare e ferire l’eventuale tua scelta di raccontarti senza omissioni. Se proprio la si vuol fare, meglio farla scrivere ad altri, così almeno una parte degli strali andranno in direzione di chi ha steso quelle righe, ovattati dalla giustificazione di una spinta dettata dalla volontà di chi ha scritto, di mitizzare il personaggio raccontato”.
Parole sante, professore, che ti sia lieve la terra, ancora una volta!

Strano che gli “sproloqui”, le “idiozie auto-celebrative” e i contenuti in termini di tipologia qui letti come prova o pseudo-prova, si poggino sulle falsarighe di chi, magari più anziano o contemporaneo, in separata sede, può testimoniare come confidenze da tenere per intimi, per non rischiare quello che si può immaginare….
Ed è strano poi che venga portata, come spinta agli “sproloqui” e/o “idiozie celebrative”, magari su fatti veri, e nemmeno unici, anzi tutt’altro che unici aggiungo, la causa di un equilibrio non più tale, in quanto arrivante una probabile morte (tiè!). E manco passa per la testa l’idea che di fronte alla possibile morte una possa dire, perché non ha più niente da perdere in vita, anche quello che, in condizioni normali, lascia scorrere per salvarsi da reazioni possibili a tutto.

E non si tratta di una “presenza costante, del "nemico" sporco, puzzolente, giallo e magari spacciatore e mafioso”, perché simili figure, nello sport, direttamente o a pressione, sono state e sono presenti, più di quanto si pensi. Basta coi prosciutti interi sulle diottrie! Lo sport non è un’isola felice, ma una zolla che riflette ciò che c’è attorno a noi! Basta con gli atteggiamenti da bimbi che credono di essere nati sotto i cavoli.
Nella fattispecie del riportato poi, si è giunti ad uccidere e a rapire. Nel calcio, in maniera lapalissiana e nel ciclismo pure insistono tracce grosse come solchi.

In quanto a Cyrille, il suo, è un atteggiamento da paraculo. Meglio far passare uno in chemio (che ha comunque scritto prima di sapere cosa c’era nel suo corpo) per un allucinato, piuttosto che starsene zitto e magari ritrovarsi a dover spiegare come fece, assieme al suo primo rampollo consolidato, a comprare mezzo gruppo (quindi anche chi non era più il principale avversario di un noto), per vincere la medesima corsa di lingua ispanica.


Caro Laurent, leggendo ogni giorno come un’immanenza, gli spezzoni del tuo libro che ci propone Carlo Lemond, piango come un vitello. Nel ciclismo, ho tifato, forte della comprensibilità più piena venuta dalla maturità, per tre corridori: Eddy Merckx, tu e Marco Pantani. Oggi, vecchio, cerco di spiegarmi la molla che mi ha portato a voi e la vedo in tre momenti propulsivi: la forza e la determinazione violenta capace di disintegrare la logica, in Eddy; la poesia, l’istinto artistico che circondava ogni poro, in Marco; l’intelligenza, il non conformismo e l’alone che, dall’apparente normalità, giunge agli orizzonti lontani, in te.
Non dimenticherò mai quel tardo pomeriggio e quella sera, passati al Velodromo di Forlì col vecchio Adriano De Zan, quando, dopo aver bevuto qualche Averna in più del solito, intervallati da acqua minerale, che finiva solo in parte nel bicchiere, mi raccontò di te. Già, in quello stato di confine, che non è sbronza, ma quel brillio che porta ogni uomo ad esternare senza reti di ipocrisia ciò che pensa, il vecchio ed indimenticabile Adriano, mi disse: “Laurent Fignon è il corridore più intelligente che abbia mai incontrato. Dopo tutto quello che, giusto o non giusto, aveva passato nel 1984, mi si presentò quattro anni dopo stringendomi la mano e parlandomi in italiano corretto. Nessuno sapeva che lui conosceva l’italiano e nessuno sapeva che, approfondendo, ti poteva parlare come un intellettuale anche di storia del pensiero filosofico. Mi prendono in giro perché lo giudicavo e lo giudico un professore di filosofia, ma lo penso veramente. E poi quelle due vittorie a Sanremo e quel Tour del 1984, non vengono così, solo perché era il più forte, Laurent è un Hors Categorie nella testa”.
Ed oggi, continuo a pensarti ogni giorno, come fosse la preghiera che non so recitare, sperando di stringerti quella mano che ho inseguito per anni. Per dirti: “Caro Laurent, come per Eddy e per Marco, ti ringrazio per aver scelto di essere quello che ho visto e che vedo”.

 

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"Non discutere con gli stupidi, perchè scenderesti al loro livello e ti batterebbero per la loro esperienza".

 
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Livello Fausto Coppi
Utente del mese Agosto 2009
Utente del mese Gennaio 2010




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Registrato: Dec 2004

  postato il 01/08/2009 alle 19:37
Un mondo imperfetto a tutti i livelli, appunto. E Fignon ne ha fatto e ne fa ancora parte.

Io non c'ero, non ho avuto modo di conoscerlo in modo approfondito né direttamente né indirettamente, resta il fatto che diversi suoi ex-colleghi, alcuni dei quali in palese antipatia tra loro per colpa di insanati e radicati regionalismi, oltre a giornalisti che c'erano, che sono stati protagonisti, organizzatori e relatori di quell'epoca, persone che non esito a definire serie, appassionate e senz'altro molto più competenti della media delle loro controparti europee, gente che tra l'altro rischia la vita tutti i giorni per raccontare il ciclismo, che s'è ribaltata giù per i burroni d'alta montagna ed ha perso amici (mi riferisco in particolare ad Hector Urrego), hanno tutti ribadito a più riprese ed a chiare lettere che nei confronti dei sudamericani Fignon in gruppo s'è sempre mosso con fare sprezzante, per non dire peggio. Anche le persone più intelligenti e filosofiche a volte possono rivelare inspiegabilmente dei lati oscuri. Provato sulla mia pelle. In ogni caso li reputo molto più credibili di chiunque vada in giro dicendo che i colombiani scorazzano per il mondo a comprare le corse dai... e occhio, non solo corrompendo gli avversari più pericolosi, ma pure quelli staccati e cotti per benino a più di 3 minuti in classifica a 3 giorni dalla fine! Coi budget che dispongono mi pare ovvio, no? E se non ci arrivano con quello ci pensa la mafia, che non può non averci messo le mani con tutta quell'abbondanza di sponsor, televisioni, scommesse e via dicendo. Ora, io posso anche accettare che lui pensi quello che li pare, che lo scriva pure, ma che passi per oro colato solo per le grandi cose che ha fatto in sella ad una bici, non mi riesce. Urrego ha detto che proverà senz'altro ad invitarlo alla sua trasmissione radiofonica "La Hora del Ciclismo" che và in onda quotidianamente (da un 20-25 anni mi pare) su Antena 2 (RCN). Mi auguro ci siano gli spazi per un chiarimento, anche parziale. Speriamo ce ne sia il tempo.

Ciao.

 
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  postato il 02/08/2009 alle 03:10
Avendo un pò più di tempo a disposizione ho notato ora che in questa discussione sono stati riportati alcuni pezzi della biografia,con il racconto del Tour del 1989,cosicchè mi sono messo a leggere il tutto,anche perchè è sempre molto interessante sapere cose di cui non si è potuta avere testimonianza diretta perchè troppo piccoli e quindi non ancora appassionati come nel mio caso (del resto sono nato qualche mese dopo che Fignon conquistò il suo secondo Tour de France).

Mi sembra interessante anche il dibattito nato tra Faxnico e Morris riguardo alcune vicende che avrebbero coinvolto Fignon.

 

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"...L'importante non è quello che trovi alla fine di una corsa.L'importante è ciò che provi mentre corri." (Giorgio Faletti in "Notte prima degli esami")

 
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Livello Greg Lemond
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  postato il 02/08/2009 alle 09:51
Nous étions jeunes et insouciants (V)

Il giornalista della "5" voleva negoziare con me un risarcimento, ma ho rifiutato.
Al processo dichiarò che lo avevo colpito ai genitali e che ciò gli aveva procurato un'ernia inguinale. Secondo me il suo avvocato era veramente grottesco, perché quasi tutti sanno che quel tipo di ernia è congenita e che non ha niente a che vedere con un eventuale colpo subito. E quindi ha perso il processo "ça va sans dire". Anche se, invece c'è da dire che, grazie alla mia notorietà, il processo l'avevo vinto prima di cominciare.
La vigilia dell'ultima tappa ero cosciente di una cosa: per fortuna non restava che una sola tappa (corta), perché per un'altra ... non sarei stato capace di restare in bicicletta; la ferita era più grave del previsto: un dolore insopportabile. La notte non ho quasi dormito e la mattina dopo ero affaticato e, soprattutto, inquieto, ma ciò si rivelò quasi niente rispetto alla mia fase di allenamento!
Appena montato, mi sono accorto che era impossibile pedalare, ma non mi sono fatto prendere dal panico. Mi ricordo bene quel che ho pensato:" Bon, non è così grave, resta soltanto una crono, soffrirò, ma dopo, tutto sarà dimenticato.
E invece, come si può dimenticare ciò che sarebbe successo? Come dimenticare ciò che tutti gli appassionati di ciclismo non dimenticheranno mai!?
Dovevo farmi morale, cosa non facile in quelle condizioni, ma avevo il vantaggio di 50 secondi ed ero intimamente convinto che non potevo perdere. Con i miei calcoli *sapienti* sapevo che l'americano poteva riprendermi un minuto su 50Km, non su 24,5!
D'altra parte molti giornalisti della stampa scritta, l'ò saputo dopo, avevano già scritto i loro articoli. Sì era già scritto!
Sarei montato in bici in verità per la sofferenza finale, ma dopo sarei stato liberato e infine, fiero di me, vittorioso sulle strade del Tour, cinque anni dopo il mio lungo periodo di "fame". Questa sofferenza finale non rappresentava niente per me, poco più di un piccolo incidente di percorso.
Nell'area di partenza ci siamo girati intorno (lui ed io) e mentre ci scaldavamo egli non sapeva niente e non mi ha guardato una sola volta e la tensione era al massimo.
Greg era di nuovo "passato sopra" ai regolamenti, decidendo di ripartire con il suo famoso manubrio da triatleta e ciò non era un vantaggio tanto piccolo!
Io non dovevo perdere due secondi al Km e dopo le prime indicazione di Guimard era proprio quello che stava accadendo. Ho forzato per quanto mi mera possibile, serrando i denti, tentando in tutti i modi di concentrarmi sul mio sforzo, cercando di non considerare quel dolore lancinante, ma erano colpi di coltello che mi richiamavano all'ordine, fin dentro la parte più "inaccessibile" del cervello!
Ad un certo momento C.G. ha cessato di ragguagliarmi, non avevo più riferimenti e ciò non era un buon segno, ma la corsa ha preso il sopravvento ed io mi sono astratto da tutto il resto. Soprattutto spingevo a fondo, ma proprio a fondo, non sarei mai potuto andare più forte. Non sapevo qual era il mio ritmo cardiaco, ma mi accorgevo che mi mancava il respiro, mi pareva proprio di essere in apnea.
Chi ha visto le immagini di quando ho superato la linea d'arrivo, avrà notato che sono crollato; proprio per riprendere a respirare, un po' d'aria, nient'altro.
In quel momento preciso non avevo nessuna informazione ed urlavo "alors?" a chiunque si profilava vicino a me. Nessuna risposta, insistevo, ma nessuno voleva rispondere, farmi conoscere "gli occhi negli occhi" la verità, quella che ognuno conosceva tranne io stesso: avevo perso!
Per 8 secondi, otto secondi per andare all'inferno.
In un caos indescrivibile, qualcuno ha finito per confessare la verità "Hai perso Laurent". Non ci credevo, più esattamente non ci volevo credere, non pensavo fosse possibile, era come se l'informazione non potesse superare la soglia della mia immaginazione. Per un lungo momento la sconfitta restò al di fuori di me.
Camminavo con un pugile sonato, in un universo improbabile, fatto di rumore e furore e quei passi, che facevo, erano sensa senso. Non conoscevo dove andavo o chi/che cosa mi spingeva, sentivo soltanto braccia che mi sostenevano e mi aiutavano a restare in piedi. Intorno a me alcuni gridavano, altri erano molto tristi o ... invece gioiosi. Sì è così, c'era chi mi guardava con un odio divertito la contentezza di vedermi battuto, ma io non comprendevo perché e chi erano costoro?
Ho vagato per alcuni, lunghi, minuti e non ricordo che feci, poi il trauma ha cominciato a prendere forma a diventare reale a far realizzare l'immagine al mio cervello. Quando sono uscito dal "coma" mi stavo dirigendo al controllo antidoping. Là ho riconosciuto T. Marie che, senza riflettere, si è gettato verso di me in lacrime. Fra queste braccia accoglienti mi son messo a singhiozzare come un bambino, lacrime spesse, lunghe, calde e ciò non mi era mai accaduro in pubblico.
Dopo, mi ricordo vagamente, non volevo salire sul podium, perché tutto era rivoltante per me.
Ma Lemond, pensando che ciò gli conveniva, tentò di confortarmi "Laurent, tu hai vinto il Giro" mi ha detto in maniera, per me non bella. E gli ho risposto "Me ne fotto!" Però quello che aveva detto Greg era vero, i vincitori dei tre G.T. erano sul podium, perché Delgado aveva vinto la Vuelta.
Poi mi hanno accompagnato, quasi a forza, ad una conferenza stampa surreale: rispondevo senza rispondere, perché volevo andarmene prima possibile. Uno mi ha chiesto "Ci sarai l'anno prossimo?" Rammento bene di aver storto la bocca ed ho replicato seccamente "Le sembra questo il momento di porre una domanda così stupida?"
I festeggiamenti della sera, previsti da diversi giorni, ebbero (naturalmente) un sapore amaro; alcuni osavano appena incrociare il mio sguardo ed io ben comprendevo il loro stato d'animo ed allora ho cercato di fare quello che non dà importanza al fatto, che sa mettere fra parentesi le cose meno importanti, di fronte agli aspetti fondamentali: *dopo tutto si tratta di uno sport*
Poi ho bevuto, bevuto molto, l'unico modo, per me, per restare sveglio.
Da sempre il senso della sconfitta faceva parte di me, e perdere non era mai stato un problema, perché poi nel ciclismo chi non sa perdere non potrà mai diventare un campione, ma perdere in quel modo e principalmente a causa di un manubrio vietato dal regolamento, NO, era troppo per un solo uomo. A 29 anni i tempi delle recriminazioni eterne non erano ancora venuti, infatti avevo già dimenticato la ferita, ma questa storia del manubrio mi ossessionava. Infatti dopo mi hanno descritto come Lemond potesse utilizzare tutta la sua potenza tirando su quel manubrio con un rapporto che sviluppava più di 9 metri. Ed io, d'altra parte, avevo realizzato la miglior crono della mia storia: a più di 52km. all'ora!!!
Ma perché i commissari avevano accettato, senza nemmeno storcere la bocca, un manubrio non omologato?
Per competezza i nostri fornitori l'avevano proposto anche a me, ma, d'accordo con Guimard non ho voluto "passare il Rubicone". Non volevo/amo giocare con i regolamenti, perché eravamo sostenitori del rischio zero e quel tipo non era stato testato prima della corsa.
Fra parentesi come giudicare quel che accadde al G.P. Eddy Merckx alcuni mesi dopo? Mi sono presentato con quel manubrio, ma il presidente di giuria ha rifiutato di farmi partire con esso! Non mi si può impedire di pensare di essere stato raggirato, ma il saperlo non è sufficiente a riconciliarmi con me stesso, perché il vittimismo non è mai stato il mio genere: tutto dipendeva da colpe mie, nel bene, ma anche nel male.

 

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"Per principio rifiuto di sottopormi a questi controlli. Non sono ostile alla lotta al doping, che ritengo indispensabile tra i dilettanti, ma nel caso di professionisti è differente. Dopo 12 anni di carriera io so quello che devo fare e non voglio che una mia vittoria venga messa in dubbio dalla fantasia delle analisi".

(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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  postato il 06/08/2009 alle 11:10
Nous étions jeunes et insouciants (VI)


Il peggio, però, doveva ancora cominciare. Io contavo fino ad otto nella mia testa e più contavo, più mi rendevo conto dello spazio-tempo ridicolo che essi rappresentavano. Durante questo tempo non si può far nulla!
Mi sono ritrovato a casa mia, solo, spesso seduto, o a camminare senza scopo, gli occhi nel vuoto, concentrati su niente!
Poi ho cominciato a rendermi conto che si trattava di un evento nazionale e che la "tragedia Fignon" figurava in prima pagina su tutti i giornali nazionali e regionali, però non rammento nemmeno se io avevo un giornale ...
Come avevo potuto perdere? Come potevo aver lasciato che ciò accadesse? Non avevo che questo in testa; ciò che mangiavo non aveva alcun sapore, il minimo gesto da fare richiedeva una sforzo, perché mi sembrava quasi di essere in coma. "Lasciar prevalere la tristezza è un vizio", diceva Flaubert.
E poi il tredicesimo giorno, uno come gli altri, mentre mi preparavo per la doccia, mi son guardato allo specchio, Uno squardo un po' ... che mi faceva apparire bianco il fondo dell'occhio, una maschera livida, una visione da incubo. Avevo i tratti troppo pronunciati, gli occhi sembravano trasparenti, una sorta di vuoto dentro di me, come se non avessi più l'anima. Ero lo spettatore impotente di un uomo che non ero più io, che non riconoscevo! I miei occhi erano rimasti dentro lo specchio, dove li avevo lasciati!
Era inutile che mi volessi convincere che esercitavo uno dei più bei mestieri del mondo, che avevo già vinto due Tour e che non avevo più niente da provare e che potevo permettermi un modo di vivere che non avrei mai immaginato neppure nei miei sogni più pazzi; non arrivavo in nessun modo a togliermi quel male che mi logorava!
Mi ci son voluti tre giorni per rimettermi "in piedi" e quando dico ciò, uso un eufemismo, perché non si supera mai un avento così violento, al massimo si arriva ad attenuarne, psicologicamente, le conseguenze più devastanti.
Tuttavia, ero pienamente cosciente che esistevano cose ben più gravi nella vita e poi avevo talmente sognato di ritornare al massimo livello e questo l'avevo comunque ottenuto.
Mi sono di nuovo guardato allo specchio e ho pensato che c'era una sola alternativa: o continuavo a lamentarmi e terminavo la mia carriera; o tentavo di andare oltre il dolore ed ogni sentimento di ingiustizia e così sarei potuto ripartire per una nuova avventura.
Ero in buona salute e nella pienezza dei miei mezzi, va bene non avevo vinto il Tour, ma il mondo non poteva smettere di girare per questo. Perché dunque autoinfliggermi altre sofferenze?
Quel giorno ho telefonato ad A. Gallopin, che era ansioso di sentirmi e gli ho detto: "Alain si riparte per preparare il campionato del mondo".
Ho sentito che mormorava "Bene, Laurent".
Poi ho aggiunto "Ma ti chiedo una cosa, non si parla del Tour; se ne parlerà un giorno, ma non ora".
Ha risposto: "Certamente e ti abbraccio".
A causa della mia ferita avevo evidentemente annullato qualche criterium, così quando sono rientrato fu un piccolo evento.
Pensavano: "Eccolo, è lui, il perdente". Sentivo su me questi squardi palesi, ma cercavo di mostrare tutta la mia dignità.
Vedendo per la prima volta Greg Lemond con la maglia gialla ho stretto i denti, ma il sangue mi si è raggelato. La mia avversione per lui, già molto sviluppata prima, era divenuta ancora più grande. Riconosco l'ingiustizia di questo sentimento, ma era così ...
Ai bordi della strada qualcuno gridava cose poco simpatiche: "Ad es. tu hai ancora otto secondi di ritardo!" L'asprezza dei propositi mi faceva male al cuore, ma la gente non parlava che di questo, talvolta senza neppure volermi ferire. Nessuno si rendeva conto che non volevo parlarne finché la piaga non si fosse richiusa. E quindi a chi ... voltavo le spalle senza rispondere. Agli occhi di molti non devo essere stato troppo simpatico, ma d'altra parte?
In questo periodo penoso, non ricordo di aver avuta nessuna discussione con C. Guimard. Me ne sono dimenticato o il grande D.S. si era evaporato?
Era uno dei suoi "difetti" : in queste circostanze non sapeva parlare con la gente, non era un grande psicologo.
Però che avrebbe potuto dirmi in effetti? Perché poi sapevo di non avere un carattere facile; la prova: una giuria mal intenzionata mi aveva comunque assegnato "le prix citron" del Tour 1989.
Avevo comunque vinto qualcosa!

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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  postato il 07/08/2009 alle 13:32
Turbolento, ma dotato

Mi chiamo L. Patrick e sono nato il 12 agosto 1960 alle 3 e 10 del mattino. All'epoca l'orgoglio della velocità era un valore sicuro, una prova di libertà! [Confrontare I. Ilic "L'elogio della bicicletta" ] Renault, Citroen o Peugeot rivaleggiavano per offrire alle "coppie moderne" il grande brivido sulla strada. Era talmente importante la velocità che io sono nato un mese prima del termine previsto .
Fu subito chiaro che ero un ragazzo agitato, anzi molto agitato, diciamo dinamico. "Dal momento che hai saputo reggerti in piedi, non hai mai camminato, tu ha sempre ... corso " mi hanno sempre ripetutto i miei genitori. Ancora sono incapace di restare fermo su una poltrona e su un divano. Da ragazzo la sola idea di non far niente mi rendeva "isterico" (anche senza utero ). Avevo paura dell'inazione, avevo paura del vuoto e più mi agitavo e meno ero stanco. [Nota mia: anch'io sono un po'/parecchio come lui, con l'unica differenza che: "sono sempre stanco" ].
I professori non sapevano come comportarsi e così era un continuo "richiamarmi all'ordine"!
Intendiamoci, non è che la scuola non mi piacesse, anzi ... ed in certi momenti della mia adolescenza ho mostrato anche parecchio zelo.
Vivevamo a 35Km (Est) da Parigi, nel cuore di quella che ora chiamano pudicamente la "grande periferia", ma allora era solo campagna.
Avevamo affittato un appartamento al terzo piano, senza ascensore, ma bastava scendere le scale per ritrovarsi in "piena natura": a un centinaio di metri alberi e campi mi tendevano le braccia. Con i compagni costruivamo capanne, per poi ... demolirle e questo ... tutti i giorni. All'ora del pranzo, mia madre mi chiamava dalla finestra, ma la maggior parte delle volte doveva avere pazienza, perché avevo altre cose da fare: felice di essere fuori, con dentro il gusto dell'avventura e dell'indipendenza.
Non c'era nessuno sportivo praticante nella mia famiglia, lo sport è dunque legato alla mia sola storia e a scuola ho provato di tutto, ciò che si poteva, lo facevo: ero il ragazzo ideale per il professore di ginnastica.
Però a scuola lo sport era riservato soltanto al giovedì, mentre ogni fine della settimana vivevo un vero trauma: il pranzo di famiglia!
Si svolgeva in particolare la domenica dai miei zii o dai miei nonni, che abitavano a Parigi in tre stanze strette, dove non potevo muovermi senza picchiare nei mobili. Era l'orrore integrale che mi lasciato una certa avversione per la famiglia. Mio fratello, invece, più giovane di tre anni, è tutto il contrario di me.
Mio padre era capo reparto in un'industria di teleria-meccanica e guadagnava piuttosto bene e lui, uscito dal ceto operaio, incarnava tutti i valori che si può immaginare in una famiglia modesta di questo tipo: il gusto del lavoro, lo spirito di sacrificio, una certa durezza nell'essere e nel comportarsi. Io lo vedevo poco, perché partiva presto la mattina e tornava tardi la sera, ma quando era presente, lo era insieme alla sua severità. Anche le sue mani erano piuttosto pesanti tutte le volte che compivo qualche ... Un giorno ha deciso di punirmi per una settimana di seguito (a sculacciate). Io stringevo i denti e quando aveva terminato lo guardavo negli occhi e dicevo "" E' finito?" Senza un pianto, senza sudore sul viso: sopportavo bene il dolore.
Per quanto mi ricordi, ho sempre portato gli occhiali e questo per un corridore ciclista non è un dettaglio senza interesse, perché quando non esistevano ancora le lenti a contatto era un vero e proprio handicap. Da bambino li perdevo spesso nel boschetto vicino e quante volte ho visto mio padre partire con una torcia per ritrovarli. Stranamente ha sempre avuto successo.
Con la mia banda, giocavameno parecchio al calcio, che era la mia unica passione sportiva; però alcuni di loro correvano in bicicletta e, non rammento come, però mi hanno messo la voglia di provare.
Eravamo nel 1975 ed io andai a prendere la vecchia bici di mio padre che lui mi ha rimesso in buono stato ed ho avuto fortuna, perché era molto leggera ed io l'ò amata questa vecchia macchina che sembrava mi conferisse uno "status" particolare. Qualcuno rideva di me, perché ad es. aveva ancora due porta borracce davanti: un'antichità. Ma non m'importava.
La prima volta che sono uscito con i compagni fu quasi una rivelazione, non soltanto mi è piaciuto subito, ma sono anche riuscito (con sorpresa generale) a seguire il ritmo degli altri.
Ero piuttosto messo male nello stile e nalla padronanza del mezzo, ma quando occorreva spingere sui pedali non ero l'ultimo a farlo.
Un giorno hanno voluto mettermi alla prova, ma non sono riusciti a staccarmi e nei mini-sprint che organizzavamo fra noi, riuscivo sempre più spesso ad arrivare vicino al primo posto ed anzi qualche volta riuscivo a mettere la mia ruota davanti.
Perché non prendi la licenza, mi ha detto Rosario? Ed io ho risposto: "Sì".
Era il 1976 e il presidente del club, Mons. Dumahut mi ha detto: "Devi sapere che il ciclismo è uno sport molto difficile, non si può più scherzare, ne fare stupidaggini". Altri, di fronte a simili discorsi, potevano anche tornare indietro, ma io invece ero ancora più motivato e l'indomani facevo parte del Club "Combs-la-Ville" con il mio amico Rosario e un allenatore, Mons. Lhomme, che mi ha lasciato un ricordo imperituro. Forse senza di lui la mia passione non sarebbe ingigantita. [

 

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  postato il 08/08/2009 alle 14:34
Nous étions jeunes et insouciants (VIII)

La voglia di partecipare alle corse si manifestò subito, ma i miei genitori si opposero, perché per loro sarebbe stato un sacrificio troppo grande rinunciare al pranzo domenicale! Soprattutto per cose futili come il ciclismo ... Essi avevano una sola ossessione: i miei studi.
Allora, a loro insaputa, mi sono messo d'accordo con i miei compagni affinché i loro genitori mi prendessero con loro i giorni di corsa.
Messi così, con le spalle al muro, i miei non hanno potuto ... d'altra parte essi sapevano che quando mi intestardivo su qualcosa, era difficile convincermi a fare il contrario.
Nella mia prima corsa ufficiale feci, quello che si chiama "un colpo da maestro". Era una corsa di 50 Km e senza sapere nemmeno perché vedevo che si andava a strappi, ma ciò conveniva al "cane pazzo" che ero allora. Quando mancavano pochi Km al traguardo sono scappato con due miei amici ad altri tre o quattro avversari. Ad un certo punto, come facevamo durante gli allenamenti, ho piazzato un attacco secco, per vedere che succedeva ed anche per divertirmi. Con mia grande sorpresa mi sono ritrovato solo . Ho guardato indietro diverse volte, ma alla fine ho deciso di tirare diritto e nessuno mi ha raggiunto . Non ho nemmeno alzato le braccia, perché non sapevo se mi fossi comportato nel modo giusto e quando l'allenatore mi ha raggiunto, gli domandato se avessi avuto il diritto di far ciò? Egli ha sorriso .
Una cosa era sicura: avevo vinto, giocando e giocare è stato per me sempre importante, la corsa è seria, a partire da certi momenti, ma in fondo al mio animo c'è sempre stato il desiderio del gioco, altrimenti mi annoio. Una bella corsa è tale solo quando c'è del movimento .
Dopo questa vittoria inattesa fui spinto irresistibilmente verso l'attacco, in tutte le corse (ne ho vinte solo altre tre in quell'anno) mi sentivo bene solo se ero in testa al gruppo, non riuscivo proprio a restare dietro.
Inutile dire che i miei genitori hanno deciso di seguirmi e hanno rinunciato per sempre alle domeniche in famiglia. Il loro appendimento fu veloce e quasi subito appresero ad amare quel mondo.
1977, mio primo anno da junior mi sono messo in testa di diventare un esperto in meccanica. Col mio amico Scolaro avevo fatto una scommessa stupida su chi avesse avuto la bici più bella, lucida e meglio oliata. Per questo tutti i sabati la smontavo pezzo per pezzo, però non ero un meccanico e di conseguenza nella dieci o undici corse successive ho rotto sempre qualcosa! Senza saperlo io mi mettevo in pericolo e c'è voluta l'arrabbiatura di mio padre perché io smettessi di "trafficare" sulla mia bici. Risultato: ho vinto la corsa successiva, senza incidenti meccanici e fu la sola vittoria in quell'anno.
Devo ammettere che non ero un granché come tecnica: cadevo spesso, correvo senza cervello, ero solo un apprendista, senza peraltro sapere che stavo imparando il mio futuro mestiere. Ciò comunque mi piaceva enormemente e quando ero in pieno possesso dei miei mezzi mi sentivo avvolto da momenti di grazia asoluta. Fra virgolette, devo confessare che ero felice.
Nel 1978 ho un ricordo preciso del campionato dell' Ile-de-France a cronometro per squadre ((42 Km). Almeno per 25 Km nessuno ha potuto darmi il cambio, mi pareva proprio di volare. Quel giorno, però, non ho assolutamente pensato ad un possibile avvenire nel ciclismo.
Poco dopo tuttavia si è prodotta una metamorfosi completa: un giorno mentre mi allenavo, ho avuto un presentimento allo stesso tempo meraviglioso, ma anche del tutto strano; guardando gli altri intorno a me mi sono detto : "Ma io sono migliore di loro!" Non sapevo spiegare ciò, ma ne avevo la certezza dentro di me e questa convinzione mi ha spinto da allora a cercare di progredire il più rapidamente possibile.
Nel 1978 ho partecipato ad una quarantina di corse e ne ho vinte diciotto e, alzando le braccia, tutte le volte mi compiacevo di aver avuto un destino così simpatico. Mi riusciva tutto, infatti vincevo allo sprint, da solo, in pianura o sulle cotes. Un giorno un allenatore mi ha gridato: "Tu sei ben dotato". Infatti avevo vinto la quinta gara di seguito.
Fortunatamente ero ben protetto dai sogni di gloria, mai mi son detto che avrei fatto carriera o che sarei diventato chissà chi, la mia voglia di vivere mi serviva anche da scudo contro tutti i castelli in aria.

 

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  postato il 09/08/2009 alle 11:19
Nous étions jeunes et insouciants (IX)


I miei cari studi

I grandi saggi non sono, di solito, anche dei grandi sportivi; bisogna forse concludere che gli sportivi sono raramente saggi?
Fino alla fine dell'adolescenza, la timidezza fu il mio "tallone d'Achille": arrossivo per niente e mi richiudevo in me stesso.
Progressivamente, sport e notorietà mi hanno guarito e mi hanno inculcato un metodo semplice: per vincere la timidezza bisogna osare. Ed il "memento audere semper" non è una della qualità essenziali affinché uno sportivo possa relizzare qualche "exploits"?
Non conoscevo la storia del ciclismo: gionali in casa non ne entravano e la televisione per me era un mobile qualunque ed anche il Tour non mi era mai interessato e di questa corsa ho soltanto due ricordi, nella mia infanzia.
Il primo, il 15 luglio 1969 alla radio (in macchina) un commentatore raccontava in diretta le prestazioni eccezionali di un certo Eddy Merckx. Il tono della voce mi aveva impressionato, però poco dopo (sei giorni) relitivizzai parecchio, di fronte a Neil Armstrong che andava a posare il piede sulla luna.
Il secondo ricordo data all'incirca ai primi anni settanta, noi eravamo in Vandea e il Tour passava di là e devo confessare, anche si mi reca una certa pena, che non rammento il nome neppure di un corridore!!!
Solo quando ho preso la licenza e dopo aver vinto le prime corse ho cominciato a leggere la stampa specializzata, però il cambiamento fu rapido e, dopo poco, ho cominciato a "divorare" tutto quello che trovavo: l'Equipe tutte le mattine, Miroir du Cyclisme, Velo magazine etc.
Non solo ho colmato il ritardo, ma, in qualche mese, sono diventato un modesto specialista del genere .
Mi sono reso conto che il ciclismo era uno degli sport più antichi, dei più rispettati e popolari. Ho capito altresì che il Tour aveva qualcosa a che vedere con la storia della Francia del XX secolo.
Occora aggiungere che sono sempre stato un gran lettore, perché era un altro mio modo di evadere e durante questo tempo ho raggiunto il mio diploma, anche se lo studio scolastico non mi appassionava troppo. All'esame ho avuto parecchia fortuna, perché mi hanno chiesto le cose sulle quali ero più preparato. In spagnolo poi ... era previsto che io fossi fra gli ultimi, ma feci presente che quel giorno avevo una corsa molto importante per la mia carriera ed allora il professore mi concesse di cambiare la data, però mi sono accorto subito che non conoscevo l'argomento proposto e sono entrato nel panico. Anche il prof l'à compreso e allora è stato molto simpatico e mi ha chiesto di parlargli delle differenze fra il ciclismo francese e quello spagnolo.
In questo modo mi sono salvato ed ho avuto "le bac in tasca" e potevo andare a correre con l'animo tranquillo .
Però i miei genitori continuavano a mettermi sotto pressione, pensando sempre al mio avvenire e con un bac "D" non potevo fare granché, avevo bisogno di un D.E.U.G. (Diploma di studi universitari generali) che era il coronamento degli studi superiori. Ma quale? Fin dall'adolescenza ero attirato dalla natura e dagli animali. Amavo altresì l'elettricità e dunque ho scelto "Scienza delle strutture della materia". Un titolo pomposo che impressionava. .
Al ritorno dalla vacanze 1978 mi sono ritrovato all'Università di Villetaneuse ed ero piuttosto lontano (mi occorrevano due ore per il viaggio) ed in più quell'anno il ministero voleva delocalizzare l'Università e spesso quando arrivavo io, i corsi erano annullati per sciopero. Ed io affrontavo il viaggio di ritorno, molto nervoso ed arrabbiato.
Era un brutto periodo anche perché non avevo nessun controllo da parte dei prof e la mia natura troppo libera, se lasciata a se stessa, non prometteva nulla di buono.
Infatti ho pensato al ciclismo sempre più e questo stato d'animo si incrementava giorno per giorno.
Il mio scacco "matto" all'Università è dovuta ai lunghi viaggi o alla passione per il ciclismo che andava ... progressivamente?
Allora ho preso il "coraggio a due mani" ed una sera ho parlato ai miei genitori: "Smetto di studiare!" "Alla fine dell'anno farò il servizio militare".
Dopo una discussione serrata, hanno avuto l'intelligenza di accettare la mia decisione, anche se il loro mondo stava affondando.
Mio padre ha risposto: "D'accordo, ma se non andassi militare, come previsto, tu andrai a lavorare!" Era la sua "sentenza" e una porta sconosciuta si apriva davanti a me, la cosa più bella, però, che ci fosse: la vita.

 

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"Per principio rifiuto di sottopormi a questi controlli. Non sono ostile alla lotta al doping, che ritengo indispensabile tra i dilettanti, ma nel caso di professionisti è differente. Dopo 12 anni di carriera io so quello che devo fare e non voglio che una mia vittoria venga messa in dubbio dalla fantasia delle analisi".

(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 12/08/2009 alle 16:12
Nous étions jeunes et insouciants (X)


Vélo ou boulot?

Distruttori di vite, ladri del fuoco, ingannatori del tempo, pirati di generosità in sintesi l'ossimoro era quanto più ci rappresenta in quell'epoca benedetta. Il mondo faceva la faccia brutta nel dopo "choc-petrolifero", la Francia scopriva la disoccupazione di massa, ma, vai a sapere perché, la nostra (o meglio la mia) generazione viveva, seppure in ritardo, una specie di possibilità totale. Era tutto un pretesto per vivere al meglio l'esistenza: il minimo avvenimento, la semplice uscita insieme agli amici per noi significava qualcosa, eravamo montati sopra un elestico, quello della vita.
Essere pienamente, essere tutto, minuto per minuto, non era nemmeno un filosofia, bensì un modo di vivere.
E quando montavo sulla mia bici il richiamo del ... mi riempiva di soffi pieni di emozioni. Avevo l'impressione di voler comquistare tutto, senza neppure sapere come o perché, ero solo ispirato da questa semplice sensazione come un qualunque esploratore. Il nostro immaginario era forse più incontaminato, rispetto ai nostri figli ove il virtuale è diventato norma quotidiana, mentre noi, per forza di cose, eravamo legati alla realtà. E poi, meravigliosa bici, grazie ad essa soltanto e alla forza propulsiva della gambe, ci potevamo concedere quei grandi spazi di libertà (nota mia: confrontare sempre I.Ilic "L'elogio della bicicletta").
Proprio le gambe, ecco il piccolo miracolo della bicicletta che resta una delle invenzioni uniche nel suo genere: fusione dell'uomo con se stesso.
Epoca benedetta, ho detto, soprattutto per gli apprendisti ciclisti.
Alla fine degli anni settanta i club erano pieni di giovani corridori e c'erano una quantità imprecisabile di corse in Francia, per tutte le categorie. Nel periodo estivo la Francia assomigliava nei "fine settimana" ad una corsa gigante! Il sistema di partecipazione era estremamente semplice: ci si divideve per dipartimenti o per regioni. Ora questo metodo non esiste più, perché la selezione avviene attraverso i club ed è un peccato. Perchè il sistema precedente permetteva una maggiore eguaglianza in partenza, qualunque fosse il club di ciascuno ed inoltre era più facile confrontarsi con nuovi corridori, ci si mischiava di più.
Fu in questa temperie che dovevo onorare la parola data ai miei genitori e dunque feci la domanda per entrare al Battaglione di Joinville e, con mia grande sorpresa, fui subito accettato.
Ero un 79/10, cioè incorporato nell'ottobre del '79 e lì ritrovai alcuni compagni ciclisti e quindi non fui per niente spaesato. D'altra parte fu proprio lì che conobbi Alain Gallopin, che sarebbe diventato più tardi uno dei miei amici più intimi. Lui era caporale-capo e era soprannominato "la rampouille" (nota: non so tradurre questo termine, presumo soltanto che derivi da "ramper", arrampicarsi).
In bici, aveva un talento mostruoso, ma non sapeva che il destino avrebbe ben presto rovinato i suoi sogni e distrutto la carriera alla quale era sicuramente destinato.
In questo "universo particolare" ho quasi subito compreso che si sarebbe trattato di un anno un po' bastardo per me. Tuttavia fui sorpreso dal fatto che, sebbene installato in un quadro militare con regole strette ed una disciplina di ferro, paradossalmente mi sono sentito subito libero di me stesso, non troppo sorvegliato (come all'università).
Non esagero, certo rientravo a casa mia solo nei fine settimana per partecipare alle corse, certo dovevo rispettare il programma di allenamento previsto specificatamente per i ciclisti (e lo facevo). Ma, al di fuori di questi imperativi, il meno che si possa dire è che ci lasciavano in pace anche troppo!
Proprio per questo è accaduto ciò che doveva fra militari della nostra età: facevamo gli stupidi, non in maniera esagerata, ma abbastanza comunque per divertirsi ed evadere.
Tutte le volte che i superiori avevano la schiena girata, cioè ogni giorno (!), si indava in giro per Parigi e cominciavamo a frequentare qualche bar etc. etc. Però restavamo attenti a non esagerare con l'alcool, ma in ogni modo tutte queste uscite erano piuttosto contoindicate per degli aspiranti sportivi di alto livello, tanto più che mangiavamo qualunque cosa e a tutte le ore.
Ho comunque mantenuto dei bei ricordi di queste uscite giorno-e-notte.
Dal punto di vista ciclistico la squadra del battaglione formava un insieme piuttosto coeso, una bella banda di compagni e per me fu un anno di transizione che mi mise ben in testa lo "spirito d'équipe", anche se le mie caratteristiche erano rimaste le stesse: un po' cane pazzo, attaccante incessante, ma poco portato per la tattica.
Posso raccontare quale fu il mio solo momento di grazia al Battaglione: una magnifica corsa sull'isola di Man, una cronosquadre a tre con A. Galopin e P. Guyot. Fu un'intesa perfetta e una grande armonia di giovinezza. (nota mia: non c'entra nulla, ma mi viene in mente la canzone fascista che ho sentito in un film, molto bello, che ho visto da poco "Il leone del deserto").
Avevamo vinto, ma soprattutto avevamo letto nei nostri occhi, qualcosa che andava al di là della vittoria, ma è difficile spiegare che cosa sia a chi non ha mai fatto dello sport ...
Quando finii la ferma, l'incertezza della vita albergava ancora dentro di me, ma non nella stessa maniera, perché il mio amore per la bicicletta si era enormemente accresciuto e questa è la sintesi della discussione con i miei genitori.
"Allora, come vedi il tuo avvenire?" "Farò il ciclista, è deciso e definitivo!" Mio padre ha precisato "D'accordo, ma occorre che tu ti trovi un lavoro".
Non fu difficile né trovare un nuovo club, né trovare un lavoro che si accordasse con esso, perché la mia piccola notorietà nell'Ile-de-France mi aveva preceduto e firmai un buon contratto con l'U.S. Creteil, che, fra l'altro aveva formato, in passato, campioni comeTrentin e Morelon.
Il contratto si adattava perfettamente alle mie esigenze: il mattino svolgevo un'attività impiegatizia al comune di Creteil, il pomeriggio era riservato all'allenamento. Nei primi tempi in comune non facevo quasi niente ed allora per passare il tempo andavo a parlare con le segretarie finché un funzionario se n'è accorto e mi hanno assegnato un servizio vero e proprio. Si fa per dire, perché mi hanno mandato a misurare la lunghezza degli attaccapanni nelle varie scuole del comune, assicurarmmi della morbidezza dei tappeti nellle palestre etc. Certo il mio orgoglio non mi faceva apprezzare ciò al massimo, ma c'era il lato buono della cosa e cioè che potevo concentrarmi esclusivamente sul ciclismo.
E riuscivo ad andare di meglio in meglio e la voglia di altre cose si allontanava e all'inizio del 1981 sono riuscito ad entrare nella nazionale dilettanti. Non mi ricordo di essere stato particolarmente orgoglioso di questo onore, era per me la logica conclusione: il mio ciclismo interiore raggiungeva la maturità.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 13/08/2009 alle 14:55
Nous étions jeunes et insouciants (XI)


L'incontro con il "Tasso" (B. Hinault)

Eravamo dei grandi chiacchieroni, senza pudore ed ancora oggi ricerco lo spirito di quelle parole di uomini non ancora tali (in divenire), uomini che amavano tanto il senso delle parole che non aspettavamo mai le "calende greche" per trasformarle in fatti concreti.
Nel 1981 nella squadra nazionale ho ritrovato un amico che avevo già conosciuto nei cadetti: un grande compagno, che ben presto è diventato intimo: Pascal Jules. I ricordi furoni mmediati, fra noi esisteva quasi un'osmosi, anche se lui proveniva più di me dalla classe operaia. Eravamo della stessa generazione, entrambi parigini, ma sopratutto la nostra caratteristica essenziale: eravamo assetati di vita insensata! I nostri temperamenti si sommavano e avrebbero bruciato le tempeste.
Senza dire niente fra noi si creò un patto di amicizia così intenso ed inviolabile che si potrebbe addirittura definire sacro e che durerà fin tanto che la vita ... (anche se essa non è eterna).
Con nostra grande sorpresa, poco dopo il primo "stage" il selezionatore tricolore ci annunciò che avremmo partecipato al Tour di Corsica, una corsa "open" il che significava che avremmo trovato i professionisti: il grande salto!
Nell'isola di bellezza (in Francia la Corsica viene chiamata "ile de Beauté") il favorito era un nome conosciuto e rispettato da tutto il ciclismo mondiale, che aveva già vinto due Tour, un Giro, la Liegi e un numero incalcolato di corse prestigiose e in quell'anno non solo era rivestito dei colori dell'iride conquistati l'anno prima a Sallanches, ma a seguito del ritiro a Pau al Tour dell'ottanta, ciascuno pronostica per lui un anno di rivincite e per gli altri sarebbero state lacrime. Quest'uomo era Bernard Hinault (Il Tasso).
Davanti a noi non si mostrava spavaldo, mettava solo in evidenza la voluta potenza del suo mento e da tutto il suo essere traspariva sicurezza, era come un voler dire:" Io so chi sono".
Noi, da parte nostra, avevamo da far valere solo la giovinezza e la nostra squadra era formata di tutti compagni che non avevano paura di prendere "freddo agli occhi". Io avevo principalmente il desiderio di guardare, capire, imparare, approfittando il più possibile della presenza del "Tasso".
Dalla prima tappa, indovinate un po' qual è stato il mio atteggiamento? Mi sono messo subito alla sua ruota e se accadeva qualcosa che lo allontanava da me, subito cercavo di riprendere il mio posto di competenza. Ad un certo momento egli si è domandato che significava ciò? E mi è venuto accanto per dirmi: "Che fai tu, sempre incollato alla mia ruota?" Al che risposi. " Non ho mai corso dietro ad un campione del mondo, volevo sapere che cosa si prova".
Lo stesso genere di scena si è ripetuta, ben dopo la fine della mia carriera, quando durante una corsa per cicloturisti alla quale partecipava Eddy Merckx, mi sono incollato alla sua ruota per vedere se si distingueva ancora l'impero sotto la su bici ...
Arrivò la prima tappa di montagna, e due soli dilettanti seguirono il ritmo imposto dai prof negli ultimi km della salita, Rostolan ed io. Mi stavo comportando piuttosto bene, salvo che nellle discese prese in maniera ... Era impressionante, terrificante e, siccome la mia tecnica lasciava a desiderare, in ciascun tornante pensavo di morire e poi invece riuscivo a restare con i primi ed arrivai settimo in quella tappa: non male .
Gli organizzatori avevano concepito una cronometro notturna e poco prima della partenza accadde qualcosa di provvidenziale. C. Guimard in persona venne a trovarmi. Il direttore sportivo della Renault rappresentava allora la scienza del ciclismo e quando prendeva la parola, non si sa come, ma sembrava uscisse dal suo cervello un secolo di sapere accumulato [nota mia un po' come Morris nel nostro forum ] .
Egli aveva allora una tale "aura" che il minimo gesto era considerato un ordine da tutto il guppo.
Guimard mi parlò, ma non so di che, non lo rammento più, poi enigmaticamente mi guardò a lungo, come per sollecitare la mia curiosità e finì per mormorare: "Questa sera tu sai che cosa accade?" Io ho risposto "Più o meno ...".
Comunque ascolta il mio consiglio: "In una crono tu devi partire veloce, poi acceleri in mezzo e finisci in crescendo".
Che strano atteggiamento, non aveva saputo trovare di meglio? Ma non avevo osato ridere. Un'ora più tardi arrivai XV: piuttosto promettente.
Dopo quattro giorni mi ero veramente ben acclimatato nell'ambiente prof, al loro modo modo di comportarsi (almeno per quanto vedevo) al loro rigore e serietà (almeno apparente). Ma soprattutto il ritmo di corsa mi conveniva: all'inzio si andava tranquilli per riscaldare la macchina, ma d'improvviso, senza colpo ferire, si passava alla massima velocità e ciò sarebbe durato fino in fondo ed io che ero molto resistente capivo che quel ciclismo era fatto per me.
L'ultimo giorno Guimard è ritornato; Pascal Jules si era comportato anche lui molto bene e ad entrambi ha detto. "Volete che io segua la vostra stagione?" Noi eravamo pietrificati ed aggiunse "perché forse potrete passare prof con me un giorno".
Non c'era niente da rispondere a C. Guimard, egli comunque aveva voluto impressionarci e c'era riuscito.
Durante il Tour di Corsica era stato il solo D.S. francese ad essere vento a trovarci, era stato un caso? Probabilmente anche gli altri avevano notato che eravamo dei dilettanti a sangue caldo e quindi parecchio audaci, tuttavia solo Cyrille aveva avuto voglia di farlo e le sue parole erano per noi sinonimo di contratto, almeno morale.
Guimard ci aveva parlato e stava ormai solo a noi provare che non si era sbagliato. L'onore, in qualche modo, ci obbligava.

 

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Livello Greg Lemond
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  postato il 14/08/2009 alle 15:19
Nous étions jeunes et insouciants (XII)

Si sentono spesso parecchie storie sul mondo amatoriale, piene di fantasmi. Certe storie sono vere, anche, ma vanno spiegate e soprattutto contestualizzate, mentre altre sono favole che meritano solo di essere contraddette.
Quanto ho visto in quel mondo alla mia epoca non assomiglia per niente ad un universo di "imbroglioni" capaci di vendere "padre e madre" per intascare un po' di denaro. In quei tempi, tutto era codificato dagli anziani, spesso ex-prof che terminavano così la loro carriera.
Essi dettavano leggi che nessuno era obbligato a rispettare, salvo che se uno voleva avere una possibilità di vincere era costretto a ...
Essi non pensavano neppure di andare contro la morale, perché (nota mia, come il papa e i vescovi attuali in Italia) pensavano che come la terra gira intorno al sole, così quanto sostenevano loro, faceva parte delle leggi fisico/matematiche.
E non dico che nel mondo dei dilettanti non c'era chi imbrogliava, anzi sono sicuro del contrario e se ci ripenso mi rendo conto che erano numerosissimi quelli che andavano avanti con le anfetamine, perché allora i controlli non esistevano. Ma io allora ero giovane, non conoscevo queste cose e, a dire la verità, non m'interessavano nemmeno. Facevo il ciclismo per la competizione, per vincere, per esaltarmi.
Sia come sia, va detto però che per vincere occorreva comunque farsi degli alleati e ciò avveniva sia in partenza che durante la corsa.
Poco dopo il Tour di Corsica, mi sono ritrovato una domenica a Chateaudun e c'era un vento quel giorno che non ci si poteva alzare sui pedali. Ero in piena forma ed amavo quelle corse, perché lì si imparava veramente a correre, niente a che vedere con quelle dei prof, ma erano comunque corse serie. Però quando si formavano le coalizioni fra "i vecchi" del gruppo bisognava essere molto forti per impedir loro di averla vinta. D'altra parte occorre comprendere che in quelle corse Loro guadagnavano la loro vita.
Quel giorno, mi ricordo come fosse ora, tutti gli ex-prof erano in fuga ed io, che come ho detto andavo come un missile, non mi sono minimamente tirato indietro e quindi, in altre parole, disturbavo parecchio le loro ben oliate manovre.
Ad un certo punto, hanno visto che il mio non era un "fuoco di paglia" ed il capo è venuto a dirmi :" Mettiti con noi" ed io "D'accordo, ma all'arrivo, vinco io". Allora ha proposto che dovessi mettere 3.000 franchi nel fondo comune. Era parecchio, per me, ma era il solo modo di poter continuare a correre senza subire aggressioni e quindi ho detto *oui*. La corsa si svolse come previsto ed io mi sono ritrovato in testa con il capo della coalizione e, mentre aspettavamo per giocarci in volata la vittoria "à la loyale", mi è saltata la catena e dunque sono finito secondo. Una vera sfortuna ed io ero ben deluso di aver perso in quel modo.
Poco dopo la corsa, ci siamo ritrovati per la distribuzione dei premi. Il capo mi ha guardato un po' in tralice e mi ha detto : "Metto nel piatto comune soltanto 1.500 franchi". Non solo aveva vinto, ma metteva la metà ed ho trovato ciò molto ingiusto. Senza dubbio voleva far valere la sua autorità di fronte ad un giovane, comprendere come reagivo e preparare il mio futuro asservimento. Forse lo aveva fatto con tutti gli altri, prima e probabilmente poteva/no prmetterselo. Ma a me la cosa non piaceva e non ho esitato ad arrabbiarmi. Eravamo d'accordo ... e ...
ho urlato : "Se non mi date i miei premi, io spacco tutto e comunque vi dico che è l'ultima volta che venite a minacciarmi". Essi hanno riso. Ma, pazzo di rabbia, ho aggiunto "Non vincerete più una corsa se ci sarò io e andate a farvi fotttere!"
Appena girato la schiena, ho sentito che si prendevano gioco di me, gli apparivo arrogante e ridicolo. Era normale, ma non potevo tollerare quello che mi volevano imporre.
Alcuni di loro non erano riusciti a restare prof, altri speravano di diventarlo un giorno e, ripensandoci, avrei potuto travarle patetiche quelle figure così pallide, ma invece penso ora che quegli uomini fossero un miscuglio di bizzaria e nobiltà. La stranezza consisteva nel cercare di sopravvivere in un mondo di sofferenza fisica, mentre la nobiltà: amare a tal punto il ciclismo da cercare di "onorarlo" in quella "loro" maniera.
Dunque, avevano voluto prendermi in giro, ma non conoscevano il mio carattere e tutte le volte che la gioiosa banda mi incrociava in una corsa io tenevo sempre la stessa regola di conndotta: o vincevo io o facevo in modo che perdessero loro e devo dire che non mi tiravo mai indietro pur di raggiungere il mio scopo. Una sola volta sono riusciti a sconfiggermi in quanto mi hanno isolato, altrimenti era come se la musica fosse già scritta. Ero diventato la loro bestia nera e hanno anche tentato di rinegoziare un patto, ma io non mangiavo più quel pane. Avevano voluto abbassarmi, tanto peggio per loro.
Senza saperlo, forzando la mia personalità, stavo diventando una specie di campione e quindi devo confessare che quelle costumanze mi hanno reso duro ed insegnato a correre.

Maggio 1981, mentre la Francia viveva l'esperienza politica che tutti conoscono, per il mio caso personale invece una semplice telefonata è stata rivoluzionaria. Dall'altra parte del filo ho sentito C. Guimard dirmi: "L'anno prossimo ti prendo con me".
Uno strano brivido ha percorso tutto il mio corpo e credo di aver avuto anche le lacrime agli occhi, era fatto!
Appena realizzato, ho chiamato Pascal Jules e la mia felicità si è raddoppiate, perché era stato chiamato anche lui e quel grido di gioia comune resterà per sempre nella mia memoria .
Le patron della Renault ci aveva dato appuntamento il giorno dopo la conclusione del Tour e noi eravamo là, di mattina presto, con il cuore che batteva la gran cassa. Il tempo passava, ma Guimard non si vedeva e ci guardavamo silenziosi, ma inquieti. Arrivò molto in ritardo e affaticato dalla serata di fine Tour ed ha parlato poco, ci ha solo fatto firmare il contratto. Inutile dire che noi non abbiamo riletto niente: sapevamo l'essenziale, cioè 4.500 franchi di salario. D'altra parte come si sarebbe potuto discutere con Cyrille Guimard!
Dopo la firma lui ci ha detto :"Voi avete commesso il vostro primo errore, perché mi avete reso l'unica copia, senza tener niente per voi, errore!" Allora gli ho risposto: "Ma Mons. Guimard, noi glielo abbiamo restituito, perché ancora non l'aveva firmato, a che ci serviva un contratto non firmato dalla controparte?" Mi ha guardato stupefatto di questa mia prontezza, ma non ha trovato altro da aggiungere che era un errore comunque!
In questo diolago io ritrovo tutto Cyrille, che sente sempre il bisogno di mostrare la sua supposta ...
In definitiva quel giorno eravamo sulle nuvole, non soltanto passavo prof, ma Julot che era stato contattato dalla Peugeot, alla fine avrebbe corso con me. A Creteil ero considerato di già una piccola gloria locale e la fine della mia carriera da dilettante si profilava sotto i migliori auspici.
Guimard voleva assolutamente che partecipassimo al Tour de l'Avenir, ma noi due preferimmo il Tour della Nuova Caledonia.
Stare al mondo senza lasciarci dominare, così noi fummo e così saremo

 

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Livello Greg Lemond
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  postato il 21/08/2009 alle 09:40
Nous étions jeunes et insouciants (XIII)

Le aquile della Renault


"Là dove il pericolo è grande, è proprio dove cerco di impegnarmi". Ho spesso pensato a questa frase di J. Anquetil. Jacques-il gigante. Il magnifico. Anquetil il non amato dal popolo.
Per la mia storia, sapevo dove sarei arrivato firmando per la Régie-Renault, andavo da Guimard dove già c'era un certo Hinault era come entrare all'E.N.A. (Ecole nationale d'administration) o all'H.E.C. .
Con Pascal Jules realizzavamo un sogno, il più bel passaporto per cominciare non soltanto una collaborzaione con il grande Cyrille, ma anche per avere l'orgoglio di portare i colori della Régie. Non so se ci si rende conto ai giorni nostri ciò che significava allora, quasi un legame carnale univa la Renault ai francesi. I colori della vespa, riconoscibili fra tutti, facevano paura, come ci si può immaginare. In poche stagioni Hinault e Guimard avevano "vinto tutto" : G.T. grandi classiche e campionato del mondo. Per noi giovani il più piccolo sguardo del Tasso ci ... anche se non ci lasciavamo impressionare, ma ci invitava comunque alla modesta, almeno per il momento.
Durante il primo "stage" fummo rassicurati: un buon umore, franco e libero era sovrano e noi eravamo contenti, perché non eravamo gli ultimi a ridere e a cercare di fare scherzi .
C'erano parecchi giovani insieme a noi. L'anno prima erano passati pro P. Poisson e Marc Madiot e quell'anno M. Gayant, P. Chevallier e Salomon. Una ventina di corridori in tutto verso i quali occorreva comportarsi, l'ò già detto, con modestia, però senza piaggeria, perché sono ben cosciente che già all'epoca avevo un certo carattere e molti di sicuro hanno pensato che ero uno "sfrontato".
La prima occasione di parlarsi veramente fu in uno "stage" nel Sud (Alpi marittime), anche se non si poteva dire che ci scambiavamo le idee. La sera a tavola il Tasso giocava piuttosto il ruolo del fratello grande ed era simpatico. Raccontava i suoi "exploit" e la maniera che aveva di comportarsi all'interno del gruppo quando era in forma. Un giorno Bernard ci ha detto con la sua maniera di parlare (un misto di calma e fermezza) del genere se tu non sei d'accordo si regola ciò domani in bici: "Ragazzi ricordatemi il vostro "palmarès?" Si rideva, ma poi C.G. ci ha rammentato il nostro programma di allenamento e siamo passati alle cose serie, perché egli si interessava a tutti i nuovi metodi e sapeva distinguere il minimo dettaglio, conoscendo pregi e difetti di tutti i suoi allievi. Dal 1982 tentava anche di specializzarsi nei "bioritmi", però fu una passione passeggera, come si vedrà più avanti.
In genere, quando dei giovani entravano in una grande squadra, si mettevano al servizio di uno dei capitani, secondo gli obiettivi della stagione. Alle Renault c'era solamente e soltanto Hinault e ciò semplificava le cose: eravamo tutti per Bernard e per tutta la stagione!
Le giovani generazioni del XXI secolo, allevati dalla televisione e inseriti nei costumi ciclistici di oggi, non si rendono certo conto che all'epoca le grandi squadre e i grandi campioni non si contentavano di una sola corsa all'anno (in particolare il Tour). Hinault, se ne aveva la forza, cercava di vincere tutto dall'inizio alla fine della stagione, in marzo come in novembre. E non cercava nemmeno di vincere risparmiandosi, quando correva per vincere la faceva per vincere veramente (in Francia si dice "avec panache").
Pertanto noi eravamo solo degli "équipiers", però ambiziosi, perché se c'era una cosa di cui eravamo sicuri Jules ed io: che avremmo vinto delle corse, anche se non sapevamo di certo quali. Avevamo dimostrato quello che sapevamo fare nei dilettanti e quindi non dubitavamo minimamente del nostro livello.
Ma per vincere, occorreva che fosse sodisfatta una condizione e cioè che B.H. non avesse deciso quel giorno di voler alzare le braccia, perché altrimenti niente da fare. Quando Hinault era al suo massimo, raggiungeva altezze che solo le aquile ... E forse non ho detto tutto.

 

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  postato il 23/08/2009 alle 10:19
Nous étions jeunes et insouciants (XIV)

Il mestiere di corridore

Bisogna comprendere, prima di giudicare, ma come si può giudicare quando si è capito? Non rammento dove ho sentito queste parole, ma senza dubbio chi parlava sarà stato un giurista o un avvocato; in ogni modo qualcuno che aveva riflettuto sulla complessità della vita.
Fin dai primi mesi alla Renault qualcosa mi colpì particolarmente: i "vecchi" non volevano insegnare tutto ai "giovani" esistevano quasi dei misteri; non lo si diceva apertamente, ma ho capito quasi subito che i più giovani erano tenuti lontano da certe discussioni. Trovavo ciò normale, ma anche ingiusto. Ne parlavo spesso con Pascal Jules e volevamo svelare questo mistero, tanto più che noi avevamo piuttosto l'abitudine di non nascondere niente e di essere piuttosto "diretti" nei nostri rapporti. Ci divertivamo anche per questo nostro non sapere, perché immaginavamo che fossero dei trucchi un po' stupidi, in ogni modo accettavamo questo stato di cose: un passaggio obbligato, una specie di periodo di apprendistato, eravamo dei profani e ci voleva un po' di tempo per diventare degli ... iniziati .
Però, dopo poco tempo, la nostra impazienza si trasformò in volonta di capire; avevamo voglia di "aprire le porte" e di abbreviare la nostra fase di apprendimento.
B. Hinault, fedele al suo ruolo e abbastanza ieratico nei comportamenti, ma diretto nei rapporti, si comportò veramente bene con noi. Certo anche lui chiuse le porte della sua camera, come facevano gli altri più anziani, ma non ci rifiutò mai una buona parola e un consiglio ogni volta che lo sollecitavamo. Noi però avevamo paura a parlargli dei suoi metodi di allenamento, perché molto spesso era chiuso come gli altri.
Spesso percepivamo qualche pezzo di discussione da parte dei massaggiatori, dei kiné o da altri collaboratori di Guimard e si sentiva la parola miracolosa dell'epoca: *preparazione*. Oppure "quello lì conosce il mestiere". Quante volte nella mia vita ho sentito quella frase che significa tutto, ma anche il suo contrario!
Che mi si creda o no oggi, io vi assicuro che è la verità: non pensavamo per niente al "doping" quando sentivamo queste parole. Era perché eravamo giovani? O era perché, per convenzione, non si usavano le parole giuste. Ma lla fine che importa? Ho scoperto ben presto che "la preparazione" era un'insieme di cose, ove l'aspetto medico non giocava certo un ruolo secondario.
Allora, come ho detto, eravamo tenuti a distanza e quindi eravamo alla continua ricerca della minima informazione, tuttavia l'integrazione andava abbastanza bene: noi eravamo rigorosi nel lavoro durante le sedute di allenamento. Il ciclismo è semplice: a partire dal fatto che tu rispetti il lavoro degli altri, ecco che sei subito accettato e dal momento che ottieni fiducia, tu puoi anche osare di porre certe domande. Però la risposta era "c'è tempo". Non so se fosse un bene o un male questa segretezza, perché poteva essere una specie di protezione, ma anche una spinta a voler farci credere le cose peggiori, mentre quando ti si spiega con chiarezza, almeno tu puoi scegliere consapevolmente.
Alla fine della mia carriera certi giornalisti hanno affermato che da Guimard il "doping" era una cosa normale e che lui stesso incitava i suoi allievi a farne uso. Questo è completamente falso! Ed affermarlo è da ... Dire che tutti prendevano tutto è ridicolo e talmente lontano dal modo di essere all'epoca che ho conosciuto ed addirittura mi offende che si possano confrontare i tempi passati con quelli presenti in modo così poco frofessionale! Tanto più che allora, lo devo ripetere con fermezza, la quasi totalità dei prodotti che esistevano sul mercato per tutti i c.d. sportivi (e non solo ciclisti) erano rilevabili durante i controlli antidoping ed i casi di positività sono numerosi, il che dimostra ...
E' all'inizio degli anni novanta che certi prodotti "miracolosi" come l'eritoproietina (E.P.O.) fa la sua prima apparizione e quindi chi vuole può sapere che il prima e il dopo non è per niente confrontabile.
Secondo me la verità di fondo si può condensare in due frasi:
Nel mio tempo, le forme di "doping" erano artigianali, mentre gli "exploit" erano considerevoli.
Oggi le forme di "doping" sono enormi e gli "exploit" quasi inesistenti.
Negli anni '70/80 il doping non era generalizzato e si vincevano ancora parecchie corse "all'acqua chiara". Si avevano due modi di prepararsi: prima di tutto l'allenamento, l'alimentazione, il riposo e solo dopo la preparazione medica, che è difficile chiamare scientifica, tanto allora era empirica! I corridori cercavano naturalmente di orientarsi per comprendere se qualcosa poteva convenire o no per loro. I direttori sportivi chiedevano sempre la stessa cosa "Che cosa fai in questo momento" che significava "Che prendi?". Ciò non riguardava solo il doping, ma anche le vitamine, i fortificanti etc. Essi parlavano dei prodotti che miglioravano le prestazioni e se si voleva imparare a crescere, dovevamo farlo su tutti i fronti. Queste scelte rappresentavano per me, in sintesi, la definizione del "mestiere di corridore".

 

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"Per principio rifiuto di sottopormi a questi controlli. Non sono ostile alla lotta al doping, che ritengo indispensabile tra i dilettanti, ma nel caso di professionisti è differente. Dopo 12 anni di carriera io so quello che devo fare e non voglio che una mia vittoria venga messa in dubbio dalla fantasia delle analisi".

(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 26/08/2009 alle 16:39
Nous étions jeunes et insouciants (XV)

Quando allora ci si preparava medicalmente era solo per le grandi corse, contrariamente ad oggi e i prodotti vietati erano conosciuti da tutti.
Le anfetamine circolavano molto quando non c'erano controlli, ma avevano una durata limitata, un'efficacia piuttosto aleatoria e dipendevano da caso a caso. Esse erano usate anche in maniera "festiva" per es. nei criterium era una vera e propria tradizione, un modo di vivere. Era veramente per divertirsi: si faceva festa tutti i giorni.
Gli anabolizzanti non si prendevano quasi più, perché duravano molto a lungo nelle urine. Non c'erano ancora il testosterone, né gli ormoni della crescita, che verranno più tardi, né manipolazione del sangue (a mia conoscenza) né l'EPO.
Il prodotto che dominava allora era il cortisone, perché non era rintracciabile. Bisogna comunque comprendere che non avevamo per niente l'idea di imbrogliare, ciascuno si arraggiava un po' con la sua coscienza e d'altra parte lo facevano tutti.
Io, per parte mia, non prendevo mai rischi particolari, né fisicamente, né sportivamente. Ero nel sistema secondo un modo mio, ma non mi è mai parso strano di "fare il mestiere", perché sapevo che in tutte le epoche ci sono sempre stati degli sportivi ragionevoli ed altri invece del tutto incoscienti.
Non dimentichiamo mai che in ogni squadra all'inizio degli anni ottanta, non si parlava mai di doping, la parola stessa era bandita e interdetto a chiunque di pronunciarla, si parlava solo di cure. Perché evidentemente si prendevano molte vitamine ed in maniera sistematica.
Nei rapporti con gli anziani Pascal ed io eravamo più perseveranti che pazienti e non appena vedevamo qualcuno che cercava di isolarsi andavamo spesso nel letto accanto al suo e aspettavamo. Egli indispettito non osava né muoversi, né parlare e al nostro "spiegaci che vuoi fare", non c'era risposta se non una faccia sempre più scura! Noi due trovavamo tutto ciò assurdo e ci siamo giurati di non comportarsi mai in futuro come loro.
Fortunatamente C. Guimard tentava di reequilibrare le cose, perché parlava molto con noi, ci interrogava, cercava di spiegare; insomma non si limitava a guidare l'automobile il giorno ed a festeggiare la sera, si sentiva responsabile dei suoi corridori, riguardo alla loro salute e al loro equilibrio psicologico.
E poi, per comprendere meglio che non c'è niente di comparabile fra le epoche occorre sapere che *MAI* in tutta la mia carriera nessuno mi ha parlato di doping. Talvolta mi si domandava se avevo preso qualcosa, ma era il massimo e la maggior parte delle volte non si considerava ciò neppure un imbroglio, anche se può apparire incredibile. Ma nell'ambiente e nel contesto di quei giorni, ove correvano ancora Thévenet, Zoetemelk o Van Impe, il sistema andava integrando e digerendo tutto e di sicuro agli occhi di molti, tutto ciò sembrava normale, ordinario, appropriato a quello che si intendeva per sport.
In quegli anni ho parlato con un solo medico, quello della squadra, A. Mégret e non mi è nemmeno mai venuto in mente di andare da altri, come avviene invece di continuo oggi. Nelle squadre allora c'erano medici veri, nel senso che si occupavano della nostra salute: quelle particolari carenze avevano bisogno di certe vitamine, anche se i corridori non avevano tutti la stessa reazione. Io, salvo quando ero malato, ho sempre detastato ogni medicina e il mio organismo le sopportava male e talvolta delle semplici prescrizioni contro l'influenza potevano addirittura aggravare la malattia e allora ...
Altri erano differenti ed in questo mondo dove le medicine sono abbondanti e diversificate, la tentazione era grande, anche per rassicurarsi, anticipare non si sa quale male .
Obiettivamente, ci sono dei periodi nella stagione, in particolare quando fa freddo, che è bene curarsi prima di montare in bici e ciò in genere crea delle abitudini che possono anche degenerare, lo ammetto e, per far bene il nostro mestiere, si finisce per credere che le medicine sono indispensabili al pari della bicicletta. Ho conosciuto dei ragazzi che hanno reagito così ed hanno, di solito, esagerato.
Dal punto di vista verbale, con Pascal cercavamo di non spingerci troppo lontano e rispettavamo le regole essenziali dell'ambiente, però fino ad un certo punto, perché talvolta ci permettevamo addirittura, a tavola, di prendere in giro B. Hinault . In quei casi era divertente vedere M. Le Guilloux e H. Arbes che si buttavano giù, con il naso nel piatto, vergognandosi per noi! Ma noi continuavamo, perché non c'era niente di irrispettoso, ma solo la desacralizzazione di un "mondo antico", c'era solo la ricerca di mettere in discussione l'ordine stabilito. Anch'io ho conosciuto ciò molto più tardi, dall'altra parte, ma occorre accettare che un mondo nuovo si sostituisca ad un altro: la ruota gira.
Quel primo anno Julot ed io ci ponevamo poche questioni, presi soprattutto dal piacere delle corse.
Durante il primo "stage" a Rambouillet, C. Guimard prese la parola in modo più solenne del solito. Un silenzio impressionante scese nella sala, perché in quel caso era il "patron" che prendeva la parola e non il confidente o il compagno ed egli finì per dire questa frase incredibile:
"Quelli che saranno trovati, durante le corse, in compagnia femminile saranno buttati fuori dalla squadra!"
Ci siamo immediatamente guardati e ci siamo detti "Accidenti, niente donne!" Ci siamo ben detti che di sicuro la stagione precedente qualcuno era stato trovato ... e cercavamo con lo sguardo quelli che potevano arrossire. Ma pensando a noi ci pareva un po' caro il prezzo da pagare per restare nel paradiso del ciclismo.
Il sesso: un altro tabu del nostro sport e invece non ci ha mai impedito di vincere una corsa e di vivere meglio, perché come per tutti, aiuta la stabilità psichica. Niente di più logico, ma quel giorno là, Cyrille diventava Guy Roux (nota mia: allenatore per quasi cinquant'anni dell'Auxerre).
Abbiamo però quasi subito capito che Guimard non aveva mai buttato fuori nessuno per una scappatella, ma voleva mettere tutti sull'attenti affinché le sbandate non portassero troppo lontano. Capita l'antifona, ci siamo dimenticati delle minacce ed abbiamo fatto, più o meno, i nostri comodi. Quando era il caso inventavamo storie e ci coprivamo fra noi due, d'altra parte avevamo capito anche un'altra verità, dalle parole di Cyrille e cioè che c'erano delle ragazze disponibili intorno a noi.
E allora, per concludere: fare sì il mestiere del corridore, ma non a scapito di tutti i piaceri della vita

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 27/08/2009 alle 16:27
Nous étions jeunes et insouciants (XVI)
Dignes e droits

Gi uomini in bicicletta assomigliano sempre a quel che sono nella vita: non si imbroglia mai per lungo tempo. Secondo me la bicicletta è il modo per l'uomo di trovare se stesso e di provarsi. Essa gli svela moltissime cose, belle e brutte, forse non si può per es. parlare di gloria, bensì di pienezza: la bici ci fa toccare il fondo della nostra anima. Per me l'esempio emblematico, visto e rivisto ha un nome e cognome: Bernard Hinault.
D'inverno si allenava molto poco e tutte le volte che arrivava fra noi per i primi "stages" avevamo l'impressione che tornasse da una lunga vacanza in quanto era sempre molto ingrassato. Quelli che non avevano l'abitudine di frequentarlo da tempo, come era appunto il nostro caso, si domandavano seriamente quanto tempo gli ci sarebbe voluto per ritornare in forma. Ma noi commettevamo un errore molto grosso, perché Hinault e "le Blaireau" erano in effetti una sola persona e lo avrebbe provato all'inizio di questo anno: 1982.
Come ho detto l'uomo che si presentò a quel primo stage aveva poco in comune con il campione che ero sceso di bici alla fine della stagione precedente e che nell'ottantuno aveva vinto tutto. Pertanto i primi giorni, in gruppo, era molto arrabbiato e in grande difficoltà per ogni accelerazione; sudava copiosamente e, pur dandoci dentro con energia, sovente doveva urlare che andavamo troppo forte e quando vedeva che alcuni di noi si mostravano stupefatti, lui gridava: "Va bene, fate pure i furbi, vedrete poi fra tre mesi dove sarete, rispetto a me!".
Egli poteva permettersi tutto ed infatti, meno di un mese dopo, vinceva la prima corsa di rientro. Quando aveva deciso di mettere la sua ruota davanti agli altri, andava a cercare tutte le energie che possedeva dentro di sé per trovare una forza vitale nata dalla rabbia e dalla fierezza.
Era Hinault.
Che dire delle mie prime corse con la maglia di vespa? Prima di tutto un'impressione: benché giovani dal carattere poco impressionabile, eravamo comunque (Julot e me) fieri di appartenere a quel clan di livello mondiale. Senza trasformarci in agnelli, serviva comunque a calmare i nostri bollenti spiriti. Bisognava vedere, imparare e diventare ciò che ci proponevamo e pensavamo di essere quando l'occasione si sarebbe presentata. Non ci saremmo gonfiati il petto finché non fosse stato legittimo farlo.
Abbiamo conosciuto molta gente e rapidamente abbiamo scoperto diverse affinità nella squadra e nel gruppo. Molti dilettanti erano passati prof ed eravamo contenti di ritrovarci fra i grandi . E poi, diverse volte, ci trovavamo fianco a fianco di nomi conosciuti, soprattutto gli olandesi: J.J. Raas, corridore anche lui con gli occhiali, come il suo compatriota G. Knetemann, che avevano fatto i "bei giorni" della
Ti-Raleigh di Peter Post. Non ci dobbiamo dimenticare che in quel tempo gli olandesi e i belgi vincevano quasi tutte le prove del calendario al di fuori della portata di Hinault e Moser.
Dal mio punto di vista, mi accorgevo che non stava cambiando niente nel mio comportamento, cioè restavo fedele al mio modo di vedere e vivere il ciclismo. Volevo sempre, prima di tutto, divertirmi.
Le corse si susseguivano ad un ritmo infernale in quanto Guimard ci faceva correre di continuo, ma noi non eravamo scontenti e non domandavamo nessun trattamento particolare. D'altra parte emanava una grande serenità e ci dava fiducia; all'inizio della stagione non ci metteva mai sotto pressione: eravamo là solo per proteggere Hinault, finché potevamo e basta.
I veri obiettivi della Renault erano fissati per più tardi e gli interessi extrasportivi, anche nelle grandi squadre, erano ancora ragionevoli e non turbavano per niente il buon affiatamento del gruppo. E devo dire, per quanto ne so, che i dirigenti della Règie erano persone di grande moralità.
Perché con Guimard ci potevano essere solo uomini *degni e "diritti" * che avrebbero formato degli uomini, non soltanto degli sportivi.
Nessuno faceva il ciclismo per guadagnare solo denaro, ma per vincere le corse e vivere pienamente la sua passione. Ripensare a quei momenti di incoscienza è qualcosa di veramente emozionante per me, pensando a come è talmente cambiato il mondo .
Oggi, vedendo la mentalità comune, mi domando veramente se le nuove generazioni sappiano ancora distinguere fra un "vincitore" ed uno che arriva primo? Noi cercavamo di essere dei vincitori, mentre gli altri sono quelli dello "show-businness" che cercano sempre il "prime-time" e arrivarono un po' più tardi nel bagagliaio di Bernard Tapie ...
In tutta la mia carriera ho detestato il freddo, che mi ha sempre messo in pericolo fisicamente. Era la mia principale debolezza ed infatti ero spesso malato: raffreddore, influenza, angina etc. e pertanto mi capitava di abbandonare spesso le corse con il maltempo. Ma Guimard non si arrabbiava e continuava a darmi fiducia. Per Cyrille era sufficiente che la nostra progressione fosse vera, tanto in bici, quanto nel comportamento nella vita del gruppo. Dovevamo mostrarci e dimostrare di fare sforzi per imparare alla svelta; lui aveva l'occhio per questo.
Fra febbraio e marzo arrivai in forma, i mie buoni allenamenti erano paganti. Al Tour del Mediterraneo, dove ho finito "miglior scalatore" sono stato tutto il tempo davanti a chiudere i buchi, a provare ad attaccare etc. Alcuni protestavano e si domandavano chi era questo giovane sfrontato che voleva ... E una volta M. Laurent e R. Martin, che erano fra i più considerati nel gruppo, si sentirono in obbligo di farmi comprendere che non potevo fare tutto ciò che volevo. Anche il grande J. Zoetemelk, vincitore del Tour 1980, aveva finito per minacciarmi, perché non era contento che gli girassi intorno così vicino nelle salite. Io comunque consideravo queste situazioni come divertenti ed istruttive .
In quei giorni il ciclismo offriva ai corridori duri, come ero io, la possibilità di provarsi in corse molto più lunghe di quelle di ora. Anche al T. d. M. c'erano tappe di 180/200/220 Km. Ma non molti hanno compreso l'importanza del chilometraggio: le tappe non erano lunghe per martirizzare i corridori, ma al contrario per favorire il fatto che i migliori, i più resistenti, potessero essere davanti.
Anche le abitudi in corsa erano diverse, andavamo molto forte all'inizio di una corsa, ma quando una fuga era partita e fosse stata considerata "buona" tutti smettevano di inseguire e si finiva a 30/35 Km/h. Oggi sarebbe scadaloso assistere ad un simile scenario, ma io mi domando ancora perché!

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Fausto Coppi




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  postato il 27/08/2009 alle 16:53
Originariamente inviato da lemond
In quei giorni il ciclismo offriva ai corridori duri, come ero io, la possibilità di provarsi in corse molto più lunghe di quelle di ora. Anche al T. d. M. c'erano tappe di 180/200/220 Km. Ma non molti hanno compreso l'importanza del chilometraggio: le tappe non erano lunghe per martirizzare i corridori, ma al contrario per favorire il fatto che i migliori, i più resistenti, potessero essere davanti.
Anche le abitudi in corsa erano diverse, andavamo molto forte all'inizio di una corsa, ma quando una fuga era partita e fosse stata considerata "buona" tutti smettevano di inseguire e si finiva a 30/35 Km/h. Oggi sarebbe scadaloso assistere ad un simile scenario, ma io mi domando ancora perché!

Da Incorniciare
Questo era il vero ciclismo

 
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Livello Greg Lemond
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  postato il 28/08/2009 alle 10:56
Nous étions jeunes et insouciants (XVII)

Ecco un aneddoto che la dice lunga sulla nostra disinvoltura (con Pascal), ma anche sulla nostra maniera di crederci, talvolta, più forti di quanto eravamo veramente.
Nella prima tappa del Tour Med, Pascal m'aveva detto in partenza: "Ehilà va bene per noi, perché ci sarà un vento impossibile, noi siamo i re dei ventagli e faremo vedere a tutti, quello che sappiamo fare!" Avevamo "appena" dimenticato un dettaglio: la Ti-Raleigh era presente al gran completo e se noi eravamo dei veri specialisti dei ventagli, gli olandesi li avevano inventati! Come eravamo giovani ed incoscienti .
Già dopo 10 Km dalla partenza gli olandesi hanno in effetti rialzato l'andatura e creato il ventaglio e noi non ci siamo accorti di niente, perché eravamo piazzati male. Allora ho detto a Julot :" Niente panico, ora rientriamo". Siamo arrivati in testa al secondo gruppo ed abbiamo constatato di essere 30 metri dietro, e dandoci dentro siamo arrivati a 20, poi 10, ma alla fine niente da fare! Vi assicuro che mancava poco per rientare come avevo previsto, ma quei 10 metri non li abbiamo mai ripresi, malgrado tutti i nostri sforzi. Incredibile, abbiamo ricominciato a perdere qualche metro, poi ancora altri ed alla fine siamo esplosi e il risultato: 20 minuti di passivo all'arrivo!
La sera, distrutti, ci siamo guardati e poi siamo scoppiati a ridere: "Siamo fra i prof ". Eravamo dei buoni corridori, ben preparati, in forma, ma eravamo saltati in aria come due debuttanti.
Ciò detto non ci siamo sentiti ridemensionati e la stessa sera ci siamo detti: "Il Med è finito per noi, ma dobbiamo dimostrare comunque che esistiamo e tutti i giorni siamo stati davanti. Io avevo deciso di prendere la maglia del miglior scalatore e sono riuscito a conservarla fino in fondo ed anche nella crono del Mont Faron mi sono divertito come un ragazzo. Ero partito proprio davanti a Zoetemelk e sapevo che mi avrebbe raggiunto abbastanza presto, perché lui faceva sempre le crono a fondo. Ed in effetti accadde proprio ciò ed allora mi sono messo dietro, lasciando lo spazio necessario per evitare l'intervento dei commissari, l'ò seguito senza difficoltà e alla fine, quando la salita era più dura (nel finale) mi sono alzato sui pedali , l'ò raggiunto e staccato con facilità. E quando l'ò superato, gli ho detto "Andiamo, seguimi!" Ma lui non era per niente contento, però alla fine è arrivato secondo nella crono ed io sesto. Quindi alla fine quel giorno è stato positivo per entrambi.
Ma siamo seri, ero un bon neo-pro, ma non un caso particolare nel 1982, però pochi giorni dopo ho vinto il G.P. di Cannes alla mia sesta o settima corsa ed ero veramente contento, perché non avrei mai pensato di alzare le braccia così presto. Era un sabato e il lunedì seguente raddoppiai alla Freccia Azzurra, che arrivava a Nizza in circostanze piuttosto particolari. Ero, come al solito, stato sempre nelle prime posizioni ed attaccato spesso, poi uno, due, tre, quattro corridori sono partiti uno dietro l'altro, come per prendermi in giro, e R. Martin mi ha deriso: "Eh Fignon è ora il momento di andare, non prima! " L'ò guardato, mi sono alzato sui pedali e gli ho risposto:" D'accordo si va!"
Ad una trentina di Km eravamo in cinque in testa: Pascal Simon, R. Bittinger, C. Béerard e Marc Madiot e questi ultimi due erano della mia squadra. A priori la corsa la doveva vincere Berard che era Nizzardo e veloce allo sprint, ma, sorpresa, Guimard è venuto a dirci:" Laurent non tira, mentre voi due dovete farlo per lui." Ciò mi ha fatto "ghiacciare il sangue" e mi sono sentito dire:" No, signor Guimard." Ma era troppo tardi, Cyrille aveva deciso e non si poteva discutere. Madiot e Bérard si sono messi al lavoro ed io a ruota, mentre stavo tremando, sotto il peso della responsabilità e con la fobia di poter deludere il D.S. Nello sprint finale i due miei compagni erano finiti e io dovevo battere Bittinger e Simon che non erano certo gli ultimi venuti. A un km dall'arrivo non avevo più gambe! La paura e lo stress; era impressionante e del tutto nuova per me come sensazione. E poi Simon ha lanciato lo sprint, Bittinger ha preso la sua ruota ed allora, vai a sapere come, ho ritrovato tutte le mie forze (lo stress era evaporato) e sono ritornato alla loro altezza e senza problemi sono riuscito a passarli. Prima di passare la linea c'erano ancora una ventina di metri e mi sono reso conto che quella sarebbe stata una bella e probante vittoria in quanto ero riuscito a canalizzare l'angoscia e a dominare la tensione, anzi a trasformarla in un lato positivo.
Guimard che non esprimeva quasi mai i suoi sentimenti, è venuto a trovarmi per guardarmi negli occhi e mi ha detto:" Tu eri il più in forma e non si poteva rompere la tua spirale di vittoria."
Alcune settimane dopo, al termine della mia prima partecipazione al Giro d'Italia, Guimard, uomo di scienza e di intuizione, dichiarò:"
L. Fignon un futuro gran corridore per le corse a tappe, è solido; mi ha sorpreso per la sua resistenza agli sforzi ripetuti. E' un forte passista, sa piazzarsi in testa al gruppo, e va anche in salita. Quando parte a 1500 metri dall'arrivo dà prova di avere qualità di grande "finisseur". Mangia molto, dorme bene, recupera con velocità, non si piange mai addosso ed è sempre in pace con se stesso ed ha una bella mentalità di squadra. Ne riparleremo al Tour del 1983.
Neo-pro, ero finito 15° in classifica, pur avendo fatto da gregario devoto a B. Hinault ed avevo acquistato la certezza che se avessi corso per me sarei potutto facilmente arrivare nei primi cinque in un G.T. era evidente. A qualche giorno dalla fine avevo detto, ridendo:" Hinault ha fortuna, se non fossi della sua squadra, non smetterei mai di ataccarlo." Molti ci avevano visto della presunzione, ma per me era solo una certezza, la mia personalità non si manifestava per procura, al contrario.
Era un tempo nel quale la bici ci metteva a nudo, ci svelava chi eravamo ... in toto.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 02/09/2009 alle 09:46
Nous étions jeunes et insouciants (XVIII)

Bacco, le mani in alto



Le ragazze, sono un argomento complesso e niente, come l'esperienza personale può far comprendere la natura profonda delle cose e talvolta la loro complessità. In senso più lato, nel marzo 1982, al Tour d'Armor, ho vissuto la mia prima "festa" fra i professionisti. Non è cosa di cui essere fieri. B. Hinault giocava in casa e voleva assolutamente vincere quella prova davanti ai Bretoni. I nostri rapporti di lavoro erano eccellenti: si può affermare che ero un collaboratore fedele e leale e mai il Tasso aveva potuto lamentarsi di me. Durante le t.d.A era talmente nervoso e desiderava talmente la vittoria che non era riconoscibile. Sembrava che la notte non dormisse, con quei suoi occhi sempre fuori delle orbite.
Cominciavo a percepire una specie di tensione fra lui e Guimard. Noi eravamo tenuti fuori dalla discussioni serie fra loro, ma comunque avevamo le nostre sensazioni e sentivamo quasi una "cancrena" che sembrava far marcire l'ambiente ogni giorno un po' di più.
La sera della tappa a Saint-Brieuc aveva detto a tutti: "Dopo la cena porto alcune bottiglie, dobbiamo festeggiare la Bretagna". Sempre pronti al divertimento, eravamo allegramente stupiti di vedere il nostro leader in quelle così buone disposizioni, lui che di solito era così austero e chiuso in se stesso. Evidentemente la Bretagna ...
La sera tenne la promessa e Bernard è venuto con molte bottiglie di vino, però c'era un problema: una gran parte dei quadri non era più all'albergo non si sa se perché non volessero festeggiare o perché avevano di meglio da fare. All'epoca, secondo l'importanza delle corse, la sera si aveva una notevole dispersione nei ranghi. Per la prima volta ho visto B.H. arrabbiarsi "di brutto" e cominciò ad urlare tutto quello che gli passava per la testa. Dove sono quegli imbecilli? E Guimard, mai che ci sia quando occorre, che idiota!
Quando era in quello stato, Hinault faceva veramente paura! Poi, sempre fuori di sé, aggiunse: "Non importa, le beviamo fra noi le bottiglie".
E noi ci siamo messi a bere e molto. Bernard di colpo si è disteso e la collera si è trasformata in piacere comunicativo: era simpatico.
Non saprei dire quante bottiglie ci siamo scolati; dieci, dodici, di più? Il fatto incredibile è che eravamo talmente pochi: Jules, Chevalier, Hinault, io e forse altri due, dei quali non mi ricordo e in definitiva eravamo tutti partiti.
Alla fine siamo ritornati in camera. Madiot, che era caduto quel giorno, assomigliava ad una mummia, bendato com'era dalla testa ai piedi, era bruciato da per tutto e noi non abbiamo trovato niente di meglio da fare che trasformare la sua camera in un "dopo-festa". Egli urlava, ma noi, ubriachi fradici abbiamo buttato le bottiglie vuote fuori dalle finestre, ci strattonavamo, cantavamo a squarciagola, in una parola un bordello generale.
Evidentemente il direttore dell'albergo è venuto ad avvertirci di stare calmi, ché altrimenti la squadra ne avrebbe subito le conseguenze.
"Vai a farti fottere, non siamo a casa mia, qui! " gli ha risposto il Tasso e noi a ridere.
Non eravamo la sola squadra in quell'albergo e se noi non dormimmo molto quella notte, anche gli altri, disturbati da noi ...
Tutti avevano dovuto subire la nostra "notte brava" ed è inutile precisare che avevano voglia di farcela pagare.
Ed infatti, all'inizio della tappa, "badaboum", due o tre squadre si erano messe d'accordo per farci restare nella gola quanto avevamo bevuto e siamo stati con la bava alla bocca tutto il giorno; dovevamo non solo proteggere Hinault, che era nel nostro stesso stato, ma in più dovevamo rispondere a tutti gli attacchi. Guimard non aveva detto niente, ma sapevamo tutti quello che pensava, stava a noi dimostrargli che la notte non aveva modificato per niente la nostra volontà, né la nostra capacità di controllare la corsa. Con Julot non abbiamo lasciato niente, ad un ritmo infernale i "vapori di Bacco" sono svaniti e nessuno è riuscito a staccarci in quella tappa e sapete cosa? B. Hinault alla fine ha vinto quel Tour che desiderava tanto , avevamo solo festeggiato questa nuova vittora un po' prima.
Cercherò di spiegarmi meglio possibile. Quel "festino", malgrado le apparenze, non aveva niente a che vedere con una bevuta fra beoni, ci eravamo messi in pericolo, perché avevamo preso dei rischi inutili con la nostra salute, ma con gioia. Essa non aveva alterato per niente la nostra capacità di lavoro, né la nostra facoltà di scoprire dentro di noi la forza che si può avere quando si aspira ad "allargare" la realtà presente.
Questi festini, che non avevano per fortuna, tutti lo stesso finale erano anche positivi per il fatto che rinsaldavamo i legami fra noi e instauravano una nuova solidarietà: vivevamo cose comuni non soltanto in bici e ciò ci faceva conoscere meglio e "tutti per uno, uno per tutti". E quando occorreva fare uno sforzo sovrumano per chiudere un buco, non lo si faceva solamente per il nostro leader e per il nostro compagno di squadra, ma soprattutto per un amico. Il sacrificio di sé assumeva tutto il suo senso ed anche le vittorie avevano un significato più collettivo.
E poi, un tipo come Hinault non dimenticava niente: avevamo "disconnesso i nostri cervelli" insieme e, sempre insieme, lo avevamo fatto vincere, avevamo sofferto per lui ed era nel posto giusto per giudicare l'ampiezza della nostra abnegazione e dei nostri sentimenti di amicizia per lui. Perché bisognava proprio averne di volontà quel giorno là per riuscire ad arrivare fino a quel punto. Io sapevo, dentro di me, che Hinault era un uomo d'onore e infatti cinque giorni più tardi mi ricompensò con un altruismo che mi spinse all'ammirazione: mi aiutò a vincere il Criterium International, facendomi entrare nella corte dei Grandi.
Quali corridori oserebbero oggi, durante una corsa a tappe, partecipare ad un festino quasi senza limiti? Azzardarsi ad una "notte bianca" senza pagarne fisicamente un prezzo forte? Ma noi avevamo il fisico del nostro carattere .
Occorreva avere anche il morale, perché durante quel T.d'A epico avevo capito anche un'altra cosa: le anfetamine, anche se riconoscibili al controllo delle urine, circolavano in gran quantità in gruppo; i più anziani erano diventati specialisti e il loro modo di prenderle si adattavano ai regolamenti dell'epoca, che poi sono stati cambiati molto. Occorre sapere, per esempio, che l'ultimo giorno di una corsa a tappe, solo i primi due della tappa e il "podium" della classifica generale erano controllati. Non dirò che ciò era un incitamento, ma in ogni caso la mancanza o quasi di rischio apriva le porte a ...
D'altra parte, dopo aver osservato con l'esperienza successiva, ho finito per essere convinto che erano numerosi i corridori che assumevano anfetamine e senza, peraltro, aspirare né a vincere, né a diventare leader, era semplicemente per fare meglio il mestiere.
A forza di chiedere, qualcuno mi ha anche spiegato che si poteva sviare i controlli ed il caso "Pollentier" del 1978 aveva fatto un'enorme pubblicità alla "peretta con urine" e questo metodo era ancora molto in voga.
Quando ci ripenso oggi, sono convinto che mi è capitato di perdere delle corse da dei ragazzi che avevano gli occhi pieni di anfetamine e che si erano "arrangiati" ai controlli, tuttavia non ho mai detto (nota mia: come i tifosi di Cunego ) "X ha ingannato ed è per questo che ho perso", insomma non ho mai cercato scuse per le mie sconfitte. Se perdevo era "colpa mia" e non per colpa di un prodotto qualunque; ignoravo quelle pratiche e ciò non m'interessava. Certamente si potrebbe dire che era un modo di accettarle, ma allora funzionava così: non se ne parlava e non si protestava e c'era una ragione. Né le anfetamine, né alcuna altra sostanza, avevamo mai cambiato le gerarchie, ma questi tempi benedetti non sono durati, come ciascuno ormai lo sa.
All'inizio degli anni ottanta ciò che si chiama "doping" era considerato limitato e poco importante ed infatti per molti non era che rispettare le regole del mestiere e cioè occorreva passare per là per essere corretti con la propria squadra. Non era insomma imbrogliare per imbrogliare, ma come ho già detto.
Doping o non doping un grande campione in forma era imbattibile ed un corridore medio poteva doparsi a volontà, ma non l'avrebbe mai battuto. Era questa la legge del ciclismo e la realtà del doping in quegli anni, nientaltro.

 

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"Per principio rifiuto di sottopormi a questi controlli. Non sono ostile alla lotta al doping, che ritengo indispensabile tra i dilettanti, ma nel caso di professionisti è differente. Dopo 12 anni di carriera io so quello che devo fare e non voglio che una mia vittoria venga messa in dubbio dalla fantasia delle analisi".

(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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  postato il 03/09/2009 alle 10:21
Nous étions jeunes et insouciants (XIX)


Codice d'onore


La bicicletta non conosce tempo, il ciclismo non conosce che la storia, talvolta, purtroppo, delle piccole storie. Non voglio girare intorno all'argomento criterium. Essi esistono solo per lo spettacolo e d'altra parte gli organizzatori ingaggiano solo per questo i partecipanti.
Tutto si svolge secondo regole ben stabilite che non sono cambiate da circa quarant'anni. Devono stare davanti e dare dimostrazioni di forza i corridori più in vista del momento ed il pubblico non ha dubbi, viene proprio per questo ed ama questo simulacro di competizione.
Non è tutto combinato al cento per cento, ma le convenzioni vogliono che i due o tre leaders del gruppo si contendano la vittoria.
Criterium di Camors nel 1982, poco prima del Giro d'Italia. Quell'anno Hinault, in cattivi rapporti con l'organizzatore, era assente ed io, recente vincitore dell'International mi trovavo, in qualche modo, in posizione di leader della Renault.
Il campione di Francia si chiamava S. Beucherie che aveva la particolarità di aver "fatto l'ascensore" : passato pro, era ritornato amatore e poi di nuovo rimontato fra l'élite. Carriera strana dunque e sempre al limite. L'avevo conosciuto quando era dilettante ed era molto aperto, sorridente e parlava ai giovani senza reticenze e dava anche qualche buon consiglio, ma poi, dopo il titolo di campione di Francia, era completamente cambiato. Non soltanto non ci rivolgeva più la parola, ma mostrava, riguardo ai giovani, un atteggiamento che la diceva lunga sull'involucro zuccherato (a forma di popone) che portava al posto della testa ...
In questo criterium, oltre a Beucherie, era iscritto anche Marc Gomez, recente vincitore della Milano-Sanremo e quindi si poteva considerare che fossero le due "vedette" del giorno, in tutti i casi nello spirito di Beucherie quel fatto era un'evidenza e pertanto è venuto da noi per dirci "senz'appello": "Voi della Renault starete dietro tutta la corsa."
Dato che B.H. non c'era io non volevo creare difficoltà, ma Pascal, irritato per il comportamento di Beucherie, mi ha guardato ben bene negli occhi e "Tu hai vinto l'International e quindi meriti bene di stare davanti."
Dopo trattative serrate , il comandante del giorno accettò finalmente che anch'io potessi piazzarmi fra i migliori ed arrivai sesto, il mio miglior piazzamento fino a quel giorno, ma era ingiusto.
Alcune settimane più tardi ci ritrovammo in un altro criterium a Garancières-en-Beauce, proprio a casa di Beucherie, un luogo molto verdeggiante in piena campagna; c'era solo il problema che questo luogo si trova in Ile-de-France, cioè non lontano dalla mia residenza. Questa volta Hinault era ben presente e Beucherie è andato a trovarlo per dirgli che voleva vincere e il Tasso gli ha risposto di essere d'accordo. Io invece, intervenni, non sono d'accordo, questa volta sarò io a vincere. B. si arrabbiò molto, ma io ho aggiunto: " A Camors ci siamo accordati perché tu l'avevi chiesto, ma questa volta tu non potrai dettare la tua legge!"
Non avevo niente da guadagnare da questo atteggiamento, ma era più forte di me, non amavo le cose ingiuste e pensavo che dovesse valere la regola "un po' per ciascuno". In quel momento ho visto il mio amico Bernard, sgonfiarsi totalmente, fuggendo il conflitto, perché ciò lo disturbava profondamente. E vedo ancora Beucherie, querulo, correre dietro Hinault, ma lui ormai si era tolto di mezzo, il che voleva dire darmi carta bianca. Beucherie era furioso e durante tutta la corsa cercava di negoziare a destra e a sinistra per convincere la maggior parte dei corridori a stare dalla sua parte. A un certo punto è venuto alla mia altezza per dirmi che sarebbe stato lui a vincere, perché ormai era stato deciso. Ma io replicai "No, tu non vincerai anche se io sono un neo-pro". Anche Jan Raas mi domandò spiegazioni, ma gli risposi che lui non c'entrava, era solo un affare fra due francesi.
Così noi due abbiamo passato tanto tempo a scambiarci "amabilità" quanto a concentrarci sulla corsa ed alla fine ho precisato che prima di diventare campione di Francia lui non era stato granché e che stasera sarebbe ritornato ad essere quello di sempre.
Hinault, Raas e gli altri hanno alla fine assistito quali spettatori, anche divertiti, alla fine del duello, che non fu veramente tale. Ci fu sì qualche attacco negli ultimi Km, ma io riuscii a controllare facilmente gli avvenimenti convinto com'ero che dovevo restare il maestro d'opera, era stata la mia scelta e dovevo assumermene la responsabilità. Non solamente ero più forte di lui ma, l'ò saputo dopo, che lui non era molto amato in gruppo e neppure troppo risapettato.
Quando ho deciso, l'ò lasciato sul posto, tranquillamente, a un centinaio di metri dietro per vederlo mentre tentava di reagire e arrabbiarsi perché non riusciva a raggiungermi. Sono cosciente del lato umiliante di questa scena, ma in quel momento mi divertivo, giocavo con lui, giubilavo.
Senza saperlo avevo corso comunque un grave rischio, perché avevo osato contestare una decisione di B.H. e per la storia quello fu uno dei pochi criterium che si corsero veramente: una rarità!
L'aspetto positivo di questa "piccola storia" fu che essa venne raccontata nel gruppo e in tutte le squadre e la mia reputazione era ormai un fatto, non solamente ero un corridore che non lasciava fare, ma in più avevo anche dei mezzi di ritorsione. Ed a me stava bene che si ricordassero del mio nome e mi rendevo conto che tutto era andato oltre le mie speranze.
Nel ciclismo le leggi che restano per lungo tempo sono quelle che nascono dai rapporti di forza ed è raro che un ordine nuovo possa sostituire quello vecchio, ma ogni tanto accade ed anche un leader deve dimostrare ai suoi compagni di squadra come e perché egli è giustamente tale (nota mia: ai mondiali di Mendrisio ci sara forse un'eccezione alla regola ). Anche a me, più tardi, mi sono occorse fierezza e capacità fisiche per resistere all' "insolenza" dei giovani e negli "stages" in montagna ho dovuto, talvolta, staccare i miei compagni per mostrare loro che ero bene al mio posto. E' una specie di voler "marcare il terreno".
In ogni grande campione "sonnecchia" la cattiveria e la brutalità ed anche violenza e gusto per il dominio. I deboli devono sottomettersi e si soffre sovente "il martirio" fisico e psicologico e spesso si deve sottostare all'ingiustizia. Durante la Blois-Chaville, la prima classica alla quale partecipavo, l'ò provato duramente.
In questa fine stagione, Hinault aveva fatto sapere che non era interessato e l'aggiunto di Guimard (B. Quilfen) ci ha chiesto chi voleva fare la corsa? Avevo subito risposto che a me andava bene di correre per vincere. Tutti avevano sorriso, ma con Julot noi conoscevamo quelle strade "par coer" (nota: espressione francese che significa un po' di più di "come le mie tasche"), perché era a casa nostra e i ventagli, che si producevano sovente, non ci facevano paura.
Arrivati a Etampes alla fine di una "cote" spazzata dal vento, tutte la Raleigh si mise in un ventaglio che fu memorabile. C'è stato ua parapiglia generale, ci siamo spintonati, siamo quasi montati l'uno sull'altro ... poi tutto si è fermato. Talmente repentina è stata la differenza che Jan Raas in persona mi venne proprio addosso e perse l'equilibrio. Il mio riflesso è stato di spingerlo con la mano e lui è caduto, mentre io sono rimasto in sella e sono stato esattamente l'ultimo a reintegrare il gruppo di testa.
Eravamo una dozzina per la vittoria e a 30 Km dall'arrivo, dopo la "cote" della Maddalena sono scattato con decisione e nessuno ha preso la mia ruota; sono riuscito a raggiungere fino a 45 secondi di vantaggio. A 15 Km il vento ritornava ad essere favorevole e pensavo che fosse quasi fatta, ma, alzandomi sui pedali, sono sbandato e caduto pesantemente, senza neppure accorgermi di quello che era successo. Uno choc terribile, l'asse della pedivella rotto, corsa persa. Ero depresso per la sfortuna, ero già caduto sia al Tour de l'Avenir che alla Paris-Bruxelles, ma questa volta era per ragioni tecniche, ma non solo: gli assi in titanio si erano dimostrati deboli già qualche settimana prima ed erano stati cambiati tutti, tranne il mio, perché ero partito in vacanza portandomi dietro la bici .
Quel giorno vinse il belga J.L. Vandenbroucke, ma tutti avevano visto di che cosa ero capace e non mi guardavano più nello stesso modo.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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  postato il 04/09/2009 alle 13:32
Nous étions jeunes et insouciants (XX)

Testa dura


"Caro mio, tu devi sempre allenarti e così non arriverai mai al fondo di te stesso". Mi rivedo ancora pronunciare queste parole, destinate a Bernard Hinault, ho detto bene a B.H. in persona.
Eravamo in Italia all'inizio della stagione 1983 e il nostro Bretone era veramente in difficoltà, perché i suoi allenamenti invernali avevano, come al solito, "lasciato a desiderare". Così una sera a tavola, dopo che lui ci aveva trattato male, perché avevamo tirato troppo forte in una cronometro a squadre, non avevo resistito e gli ho detto quello che pensavo e quella frase un po' aggressiva uscì dalla mia bocca, senza peraltro nessuna premeditazione. Ci fu subito un "gran freddo" intorno alla tavola, ma poi ... accadde l'incredibile.
Mentre tutti ci attendevamo una reazione violenta del quattro volte vincitore della "Grande Boucle", egli mise il naso nel piatto.
Guimar mi ha raccontato molto tempo dopo che da quell'istante pensò che ci sarebbero stati molti problemi fra lui e me, ma invece non ce ne sono mai stati. Il destino si incaricò ben presto di separare le nostre strade, ma allora non lo sapevamo.
E' difficile comprendere oggi quella mia audacia d'allora, perché alla Renault nessuno osava dire qualcosa a Hinault, perché litigare con lui era l'equivalente della morte sportiva, ma io non avevo fatto simili calcoli, non avevo pensato, prima di parlare, quali rischi corri? oppure voglio mostrargli chi sono io; avevo semplicemente detto quello che pensavo, cioè gli dicevo la verità come avrei fatto con P. Jules, al quale avevo sovente rimproveri da fare senza, naturalmente, rischiare nulla.
Hinault o no, io mi ero indirizzato ad un compagno, niente di più, niente di meno, non era la persona di Hinault al quale mi indirizzavo.
Tuttavia, dentro la squadra, molti mi raccontarono in seguito che qualcosa era cambiato dopo quell'avvenimento. Fu quello che si può chiamare un "moment charnière" (momento topico), anche se lì per lì non me ero reso conto. Un momento che indirettamente simbolizzava, come un paradigma, le tensioni che potevamo sentire esistenti fra Guimard e Hinault. Come se la loro discordia si fosse impregnata in me e avesse finito per togliermi tutte le inibizioni. Come si mi fosse arrivato il diritto di affermare davanti a tutti e prima di tutto che Bernard non era più il dio intoccabile della squadra.
Perché era vero: Cyrille e B.H. erano veramente "ai ferri corti". Io avevo voluto dimenticarmene, perché dovevo concentrarmi sul mio ciclismo, ma si vedeva bene che dietro le quinte accadeva qualcosa di inquietante fra i due "tenori" del ciclismo mondiale.
Fino a questo incidente, ove restò muto, senza alcuna risposta, il Tasso si era irritato spesso, molto più che l'anno precedente. Guimard era sempre stato più o meno autoritario, ma Hinault, che si rivoltava sempre in maniera epidermica (non ragionata), riusciva a trasformare le provocazioni in forza e in nuove motivazioni. Quando era "spintonato" regiva con l'orgoglio e in generale faceva male agli altri. Ma i tempi cambiano e, da una parte, forse Hinault aveva fatto il pieno e non sopportava più i metodi di Guimard, dall'altra Cyrille si era forse convinto che il suo pupillo non avrebbe ritrovato più le capacità e la voglia dei vent'anni e che era meglio per lui anticipare il futuro ...
Questa discordia palpabile si attenuò durante il Giro di Spagna del 1983, dove Hinault partiva come gran favorito. Non aveva ancora avvertito nessun fastidio al ginocchio, ma le relazioni fra noi presero una svolta inattesa. Nel corso della IV tappa, allorché ero rimasto fino allora nel mio stretto ruolo di "protettore", ho visto lo spagnolo Antonio Coll andare in fuga. Che fare? Gli sono andato dietro, però alla mia ruota c'era Marino Lejarreta, uno dei principali avversari per la vittoria finale. Il plotone non riusci a raggiungerci ed arrivò a 17 secondi e B.H. non era contento, proprio per niente e subito dopo passata la linea, l'ò sentito urlare nonostante avessi vinto la tappa.
Compagno fedele, non avevo certo partecipato al buon esito della fuga, al contrario avevo fatto il possibile per rompere i cambi e mi ero impegnato soltanto negli ultimi metri per vincere, che c'era di rimproverarmi? Devo confessare che non ho risposto ai rimbrotti, il che prova che non mi sentivo a mio agio, anche se, ancora oggi, egli può/deve ammettere di non aver conosciuto molti compagni di squadra così leali come il sottoscritto. Ma neppure lui era tranquillo evidentemente, per comportarsi così. Quando ci si chiama Hinault ci si dovrebbe piuttosto congratulare con un compagno che aveva vinto una bella tappa e non fare troppa attenzione a quei miseri 17 secondi.
Ma non era sereno in quella Vuelta e si vedeva bene. Nelle prime tappe di montagna si comportava in maniera insolita ed avevo l'impressione che non avesse la consueta potenza ed io ero ben piazzato per accorgermene, perché ero uno dei pochi ad essere *sempre* alla sua ruota dopo l'episodio della IV tappa.
Tutti, credo, hanno dimenticato quegli anni, la Spagna era uscita da poco dal Franchismo e si era ancora quasi nel "terzo mondo" e quelli che ci sono andati sanno che dico la verità. Per noi corridori le condizioni di accoglienza si rivelarono piuttosto complicate, talvolta al limite. I ciclisti prof di oggi non si possono immaginare quello che poteva essere un albergo in Spagna nel 1983, o ancora meglio nelle Asturie o nei Pirenei ... Si mangiava male e talvolta non avevamo l'acqua calda. Il morale non era al meglio, poi un giorno ho appreso una notizia inquietante: Hinault soffriva ad un ginocchio, al punto di volersi ritirirare. Non c'era nulla di ufficiale, ma eravamo comunque tutti ...
Aveva perso dei secondi all'alto de Penticosa nei confronti di Lejarreta, Fernandez e Gorospe e la vittoria finale sembrava allontanarsi. Ma il nostro Hinault stringeva i denti, trascurando il dolore che gli arrivava fino alle ossa, e cercava ogni giorno di raschiare il barile fino in fondo. Vederlo patire e sopportare in quel modo, perché si vedeva bene quando gli si era accanto, spingeva tutti al rispetto ed il mio lo aveva in particolar modo.
Non restava che una sola grande tappa di montagna per cercare di dare una spallata alla classifica consolidata fino a quel momento: Salamanca-Avila. C. Guimard mise a punto una strategia, un vero e proprio "trappolone" e certi hanno parlato (dopo) di un capolavoro tattico.
Dovevamo scalare tre colli, fra i quali c'erano le difficili rampe del Serranillos. Gorospe era leader e Guimard mi aveva scelto per essere l'ultima rampa di lancio per mandare Bernard in orbita, verso la conquista della maglia, ero dunque uno degli attori privilegiati di un piano leggendario.
Nelle prime rampe del Serranillos dovevo cominciare a tirare a fondo, ma assolutamente a fondo ed, essendo la cosa semplice, mi sono gettato sulla salita "a corpo morto": gran "plateau" ( nota: mi pare meglio che moltiplica) per 5 o 6 Km. Hinault era alla mia ruota e là si giocava la Vuelta ed anche l'ultimo atto di una tragedia sportiva. Lejarreta andò subito in difficolta, ma Gorospe restava attaccato, però, piano piano, anche lui subiva il ritmo imposto, troppo elevato e l'ò visto andare veramente "in rosso". L'istante fatidico era venuto ed io avrei visto proprio da molto vicino, in prima classe, quello di cui era capace questo Bretone ... Ed ho ben notato la firma del capolavoro, quando Hinault dette il colpo mortale. Ebbi l'impressione che si fosse dimenticato di tutto: il dolore, la ferita he peggiorava ogni giorno, i suoi avversari ed anche tutti i suoi dubbi. Restava soltanto un uomo liberato attraverso la profondità del suo saper essere se stesso, così orgoglioso e vincente e con lui " l'insolenza di un campione d'eccezione" diventava un'espressione sublimata.
Hinault è partito solo, con Belda alla ruota, un "raid" epico e irreale di 80 Km. Avevamo rivoluzionato la Vuelta e liberato i nostri animi.
L'allegria durò, però, poco, perché le cattive notizie si confermarono ben presto: Hinault era gravemente ferito al ginocchio e intorno a Guimard si diceva "E' andato!" Ma che cos'era "andato"? La stagione, la carriera? Avevamo l'ordine di tacere e durante le settimane seguenti ci fu un gioco ridicolo "del gatto e del topo" con i giornalisti ai quali ciascuno di noi raccontava quello che gli passava per la mente, a caso. Guimard "faceva lo struzzo", Hinault "l'idiota" e fra loro non si parlavano più. E noi assistevamo a quello spettacolo insolito, senza poter partecipare. Un giorno mi dicono :" Il tendine è "andato" dovrà operarsi" in quel momento prendevo coscienza che sarebbe stato assente dal Tour e ...

 

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  postato il 06/09/2009 alle 10:00
Nous étions jeunes et insouciants (XXI)

Il più bel fiore del ciclismo


L'emozione, la ricerca del meraviglioso, salire un gradino verso la leggenda ...
Sono sempre stato restio verso il senso popolare comune, ma ho sempre trovato strano che possano esistere degli uomini ai quali non piaccia la popolarità e che questi "begli spiriti" non ammettano che una grande moltitudine si riunisca lungo le strade per seguire la più bella prova del mondo.
Quando arriva luglio, ciascun anno, un evento offre alla Francia la sua celebrazione e questo evento ha un nome che ciascuno conosce.
Nel 1983 ero impaziente di scoprirlo, anche se, dentro di me, non mi fissavo certo l'obiettivo di vincerlo.
Nella Renault, dominava una grande incertezza, per non dire di più. B. Hinault al riposo forzato, era la prima volta dal 1978 che la Régie si lanciava nella "Grande boucle" senza il leader incontestato, senza la sicurezza quindi di poter lottare per la vittoria.
Io mi dicevo prima di tutto che dovevo imparare e che la prima partecipazione mi avrebbe portato abbastanza esperienza per l'avvenire.
Il mio obiettivvo? Qualcosa che mi pareva ragionevole: vincere una tappa, cercare di conquistare la maglia bianca e finire fra i primi dieci nella classifica generale. La Vuelta mi aveva confortato nelle mie convinzioni: benché giovane, non avevo nulla da invidiare a Van Impe, Van der Velde, Winnen, Agostinho e neppure ad uno Zoetmelk che ormai era in via ... Perché questi erano i favoriti stranieri. Ed anche nei confronti di Pascal Simon, leader della Peugeot, che aveva vinto al Delfinato non mi sentivo troppo inferiore (P. Simon è stato poi declassato, per un controllo positivo in tale corsa).
Durante la settimana che precedeva il Tour, C. Guimard ci aveva molto parlato sul come ci avrebbe protetto, e cercato di far aumentare le nostre convinzioni positive con i migliori consigli possibili. Senza dubbio aveva paura di una reazione psicologica collettiva, contraria al ruolo che la nostra squadra aveva giocato fino allora. Nei suoi pensieri M.Madiot ed io eravamo, più o meno, i leader, o almeno i corridori protetti. Al nostro fianco c'erano, prima di tutto Jules e poi Becaas, Berard, Chevallier, Gaigne, Poisson, Vigneron, Didier. Rammento una frase di Cyrille." Dimentica la Vuelta, il Tour è dieci volte più complicato da gestire, la difficoltà del percorso, il ritmo, la pressione, tutto è moltiplicato."
Centoquaranta corridori erano al via e il prologo si svolse quasi al mio domicilio, a Fontanay-sous-Bois e non posso dire di essere stato normale, tutt'altro. Ero teso, emozionato, mi sentivo, paradossalmente, troppo vicino a casa mia, l'aria era troppo familiare e non avevo l'abitudine di essere troppo sollecitato e circondato da così tante attenzioni. Farmi male alle gambe, assumere il mio ruolo di compagno di squadra lo sapevo fare, ma interpretare una parte diversa e soprattutto farmela entrare dentro, mi pareva molto più complicato. Ecco perché non mi facevo alcuna illusione spropositata e il mio cattivo risultato nel prologo non aveva niente di illogico.
Anche se io mi ero portato fra i miei bagagli alcuni libri di Robert Merle, non ci si deve dimenticare che avevo solo 22 anni ...
Nessun giornalista immaginava allora che Renault potesse vincere il Tour e quando arrivò la prima cronometro a squadre (di 100 Km), il nostro quarto posto fu considerato un buon risultato, data l'assenza del nostro massimo passista. Ma io in quella gara avevo rischiato grosso, perché molto presto, dopo una ventina di km, mi sentivo vuoto. Una vera "fringale" che poteva compromettere tutto in pochi minuti. E restavano ancora 80 km! Guimard fece rallentare la squadra e nonostante che io avessi già mangiato tutto quello che potevo, non c'era stato nessun effetto. Per fortuna B. Becaas venne in mio soccorso e mi dette tutto quanto di commestibile avesse e, dopo ciò, pian piano sentii rivenire le forze. Ma questa disavventura poteva costarmi molto più caro e io devo soltanto la mia sopravvivenza sportiva a quanto restava nella "musette" di Bernard Becaas !!! Egli pagò per me, perché poco dopo fu lui vittima della fame, per mia colpa, e non poté seguire il nostro ritmo e lasciato inesorabilmente, ma io non dimenticherò mai il suo gesto ...
Che era successo? La spiegazione era semplice, ma potevano aversi conseguenze terribili. A quell'epoca, prima di una prova così esigente come una cronosquadre, noi prendevamo delle razioni di attesa composte essenzialmente di glucosio. Il mio organismo non lo sopportava e provocava nell'ora seguente uno scarico d'insulina per bruciare l'eccedenza di zucchero nel sangue e quindi ero diventato ipoglicemico. Impossibile il rimedio! Ma non era tutto finito lì, perché la terza tappa (Valenciennes-Roubaix) mi lasciò, proprio al riguardo, un ricordo incancellabile. Dovevamo attraversare qualche settore in "pavé" ed io scoprivo "in miniatura" una parte dell'inferno del Nord, senza peraltro sapere come affrontarlo. Nessuno mi aveva detto una cosa semplice: non bisogna mai stringere il manubrio con tutte le proprie forze, mentre ho invece fatto proprio questo, per paura di cascare o di scivolare, mentre (ora lo so) la stabilità non proviene evidentemente dalla fermezza con cui si stringe il manubrio, bensì dall'equilibrio generale collegato ad una elasticità naturale ...
Ero tuttavia in buona forma ed avevo passato la giornata quasi sempre in testa senza troppe difficoltà, ma dopo la tappa, togliendomi i guanti, ebbi una brutta sorpresa: avevo enormi piaghe alle mani, dovute al pavé e non potevo più chiuderle a pugno.
Il giorno dopo sarebbe stato l'orrore totale, 300 Km in programma con settori in pavé, per finire a Le Havre. Ho sofferto il martirio, non potendo chiudere le dita e potevo appena posare le mani sul manubrio e il mio "calvario" non finì lì.
La vigilia della crono individuale, vai a sapere perché, mi è venuto una congiuntivite piuttosto seria e così tenace, che non vedevo più niente da un occhio. L'assistenza medica d'urgenza non era quella di oggi e se non fosse stato il Tour, avrei abbandonato di sicuro ed in ogni modo non potei proprio vedere il mio compagno D. Gaigne attaccare a 6 Km. dall'arrivo e vincere la tappa. Questo comunque andava al di là delle nostre speranze ed una bella occasione per improvvisare una piccola festa in albergo.
Quando arrivò la prima cronometro individuale di 60 Km, una distanza che per me era nuova, la mia angoscia era palpabile. Risultato: 16° a più di 3 minuti dall'olandese B. Oosterbosch, ma a meno di 2 minuti da Sean Kelly ad esempio, il che, visto il contesto, mi fece rialzare il morale. E riflettendoci la tappa era stata piuttosto rassicurante, durante tre quarti del percorso in nessun momento avevo forzato e, non avendo alcun riferimento in questo tipo di crono, non avevo preso nessun rischio. Solo negli ultimi 15 Km mi sono deciso a spingere finché potevo e mi sono accorto che avevo parecchie energie ancora da sfruttare. Ed un'altra buona notizia: avevo finito la tappa senza rimanere per niente "asfissiato".
L'entusiasmo però fu di corta durata, perché il giorno dopo, verso l'ile d'Oleron, mi accadde una cosa stranissima per la quale non ho mai trovato una spiegazione: le mani andavano bene, gli occhi stavano guarendo, ma le mie gambe erano vuote, ero incapace di alzare il ritmo.
In tutto il giorno ho rischiato ad ogni più piccolo ventaglio, alla minima accelerazione, perché sentivo che se si fosse prodotto qualcosa di importante, mi sarebbe stato fatale. Le circostanze di corsa decisero al mio posto, perché fu solo un treno sostenuto, ma abbastanza regolare. Inghiottito al centro del gruppo sono arrivato in fondo, pur avendo lo stomaco nei piedi e le gambe di cartapesta. Avevo un'altra volta sfiorato il precipizio. Ciclismo, maestro ingrato, talvolta così vicino e tal altra così lontano ...
La grande tappa Pau-Luchon che aveva in sé l'Aubisque, il Tourmalet, l'Aspin e il Peyresourde mi portò delle buone conferme. Guimard mi aveva ben consigliato di non tentare di restare con i migliori fino all'ultimo nei vari colli: "I colombiani accelereranno per i punti del GPM e tu non potrai rispondere, ma non importa, niente panico, perché li riprenderai in discesa. Ma tenta di approfittare di una fuga che, quasi di sicuro, ci sarà nella vallata." Ho scrupolosamente seguito queste predizioni, inserendomi nella grande fuga del giorno, formatasi fra l'Aubisque e il Tourmalet e li mi sono accorto che nessuna prudenza era stata superflua. Sono restato a lungo con P.Jimenez, R.Millar e J. Michaud, ma fra l'Aspin e il Peyresourde ho avvertito una piccola crisi e non ho voluto andare in rosso. Fu in quel momento preciso, mentre stavo gestendo la mia sofferenza, che P. Simon mi passò accanto senza neppure guardarmi. La sera tutte le carte erano state mischiate e lui ha indossato la maglia gialla, mentre io mi ritrovavo secondo a 4 e 30 e con la maglia bianca sulle spalle. Era, allo stesso tempo, molto e poco. Molto, perché Simon era di sicuro in una grande annata, poco, perché la Peugeot non era una squadra capace di poter dominare e domare la corsa come aveva potuto farlo prima la Renault con Hinault. Guimard era, d'altra parte, molto sodisfatto del mio comportamento: ero stato temerarario e non avevo commesso nessun errore.
Il ciclismo provoca il destino ed il destino purtroppo per Simon, andava crudelmente a malmenare il ciclismo. Fra Luchon e Fleurance, all'inizio della tappa, la maglia gialla si ritrovò a terra. Una caduta ridicola, come accade spesso, ma questa provocò un piccola frattura all'omero. Il giorno dopo Cyrille, più prudente di sempre, mi ordinò di restare nascosto e mi spiegò anche il perché: "Se è grave come si dice, la maglia ti cascherà addosso presto o tardi ed allora dovrai fare molti sforzi e quindi preservati per quel momento."
Da quel giorno, dentro di me, ebbi la convizione che avrei vinto il Tour ed era talmente evidente per me che andai subito a parlarne con Pascal, avevo bisogni di confessarlo almeno a lui.
Il Tour ha proseguito la sua strada con un P. Simon sempre presente ed attirava su di sé tutte le attenzioni e tutti i "flashes" e ciò mi conveniva perfettamente e in quei giorni io mi concentravo su Delgado, Van Impe, Arroyo e Winnen che avevano ancora l'illusione di poter essere maestri del gioco.

 

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"Per principio rifiuto di sottopormi a questi controlli. Non sono ostile alla lotta al doping, che ritengo indispensabile tra i dilettanti, ma nel caso di professionisti è differente. Dopo 12 anni di carriera io so quello che devo fare e non voglio che una mia vittoria venga messa in dubbio dalla fantasia delle analisi".

(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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  postato il 07/09/2009 alle 10:13
Nous étions jeunes et insouciants (XXII)


I fari dei media e la passione popolare erano puntati su P. Simon che ogni giorno riusciva a rimandare la scadenza, tuttavia inevitabile, del suo ritiro ed era riuscito a resistere, per qualche secondo, anche alla crono sulle rampe del Puy de Dome, dove gli spagnoli mi avevano dominato e si erano ripiazzati in classifica in maniera pericolosa. Non solo dovevo prepararmi a ricevere, dopo poco, tutte le attenzioni ed a rispondere agli attacchi degli scalatori, ma ultimo e non inferiore agli altri, dovevo convincere tutti i miei compagni di squadra che potevo essere all'altezza dell'immenso compito che mi attendeva. Da qualche giorno i loro sguardi su di me erano cambiati e li vedevo puntare sulla mia credibilità. Julot, fra tutti, era il conforto più prezioso, il primo sempre pronto a spalleggiarmi. Solo Guimard, nella posizione inattesa dell'ultra prudente, rifiutava di ammettere che ero il leader unico e che tutti gli altri dovevano mettersi risolutamente al mio servizio. In effetti, come se volesse puntare su due cavalli nello stesso tempo, continuava a proteggere anche Marc Madiot. Ciò mi faceva arrabbiare, forse lui però pensava che io potessi perdere tutto nell'ultima settimana e, perché no, all'Alpe d'Huez o forse era solo un gioco per innervosirmi e costringermi ad andare a cercare, al di là di me, una ispirazione nuova e una combattività insospettabile. Capii dopo poco, a mie spese, che Cyrille ha dentro di sé un carattere particolare: è incapace di dire veramente quello che pensa, anche a quelli che gli sono più vicini. Egli elucubra sempre, calcola, dice qualcosa ad uno e poi dà una versione differente a un altro. Guimard è un adepto del mezzo-segreto, un maestro delle mezze-parole ed io, allora, non avevo ancora conosciuto quest'uomo da questo punto di vista. Una sera mi era venuto talmente a noia vedere Guimar considerarmi così poco da non ammettere che io potevo vincere il Tour, che volevo sparecchiare la tavola! Pascal per fortuna ha fatto ciò che occorreva per calmarmi e convincermi ad evitare una decisione irreparabile. Abbandonare il Tour con "un colpo di testa" mi era parso davvero una cosa fattibile e, se ci ripenso, capisco che ciò la dice lunga sulla mia incoscienza di allora.
Ed eccoci alla tappa fra Tour-du-Pin e l'Alpe d'Huez, al Km 92 io divento il leader del Tour, perché Pascal, ormai senza più forze ed in lacrime, è costretto ad abbandonare un combattimento divenuto impossibile. Ero preparato mentalmente, ma ho commesso immediatamente un errore: nella discesa del col del Glandon ho lasciato partire Winnen e l'olandese mi aveva ripreso 2 minuti; in ogni modo l'indomani portavo la maglia con 1 e 08 di vantaggio su Delgado. La XVIII tappa, di 247 Km attraverso i colli del Glandon (di nuovo), della Madeleine, Aravis, Colombière e Joux-Plane era "dantesca" e per me un vero test. Sentivo sulle mie spalle un peso nuovo, un onore raro, una responsabilità che rimontava all'inizio del ciclismo, come se alla fine avessi preso il testimone da tutti quelli che mi avevano preceduto. Il pericolo era sempre in agguato e la prima prova fu Winnen che cominciò le sue grandi manovre prima sulla Madeleine e poi nella Colombière, accompagnato da una dozzina di occasionali alleati, fra cui Arroyo, Roche, Michaud e Millar. Avevano preso 4 minuti di vantaggio, mentre Delgado si era staccato da me. Quel passivo mi fece entrare comunque nel panico. Guimard mi disse: "Calmati, Laurent, vai tranquillo, respira, va tutto bene ..." Marc Madiot e Alain Vigneron mi aiutarono parecchio, ma entrambi non ne potevano più prima di arrivare in cima alla Colombière ed io dovetti mettermi a tirare da solo. Lo svantaggio diminuiva, ma restava ancora quel maledetto Joux-Plane, le cui percentuali non mi sono mai piaciute. In più mi sono ritrovato solo: l'orrore. Come esprimere quello che sentivo? Stavo vivendo nei minimi dettagli questo periodo di equilibrio instabile, dove gli avvenimenti possono spingere nel vuoto il tuo destino e rinviarmi da dove venivo, come se nulla si fosse prodotto di nuovo! Io non volevo essere vittima di questo fato, ma ero all'agonia, credetemi, nonostante la maglia gialla. A questo proposito, il simbolo del primato mi ha aiutato o, al contrario, paralizzato? Non lo so, però mi sono messo a pedalare come un dannato ed alla fine sono riuscito nei miei intenti, perché, seppure con le ultime energie, ho raggiunto Winnen: l'essenziale era stato fatto. Dopo una grande paura, il mio Tour si era comunque ingradito di una specie di impresa. Tanto più che il giorno dopo, nella cronometro in "cote" di 15 Km fra Morzine ed Avoriaz riuscii a limitare i danni, nonostante la scrasa predilezione per questo tipo di disciplina, riservata agli scalatori puri. Arrivando 10°, preservavo più di 2 minuti di vantaggio su Winnen e quindi non c'era da preoccuparsi. Guimard la vedeva in modo diverso e durante la tappa di transizione verso Dijon, ebbe l'idea di chiedermi di andare a prendere tutti gli abbuoni che potevo. Dovevo, con la maglia addosso, partecipare a tutti gli sprint? Però capivo l'ansia di Cyrille e quindi obbedii, seppure a malincuore. E gli osservatori, un po' stupiti, mi hanno visto combattere con Kelly, che mi ha regolarmente anticipato, ma in tutto l'affare ho comunque guadagnato una trentina di secondi ... Un bene prezioso, pensava il boss, prima dell'ultima cronometro sul circuito di Dijon-Prenois.
In quei giorni alcuni commentatori cominciavano a parlare di un Tour a la Walko(wiak), dal nome del vincitore nel 1956 che aveva beneficiato di una "fuga bidone". Io non ero contento di questi titoli, ma restavo calmo e, d'altra parte fino allora non avevo mostrato niente di straordinario, salvo il mio valore nascente, che stava crescendo in maniera rapida.
Prima della crono C.G. mi aveva detto: "Tu farai esattamente quello che ti dico, parti tranquillo, dopo si vedrà ..." Oggi mi rammento bene, la memoria non mi tradisce: sulla lampa di lancio, qualche secondo prima, avevo la certezza di vincere, non la crono, ma il Tour.
Nei primi Km Guimard venne di continuo al mio fianco e non smettava di gridare di andare piano, tu sei in testa! Ho saputo dopo che mi mentiva, perché all'inizio della tappa perdevo qualche secondo, in ogni modo lo ascoltavo e mantenevo delle riserve. Arrivato a metà corsa, in una piccola asperità, mi ha urlato: "Vai Laurent, puoi togliere ogni catena!" Ed io ho lasciato andare tutti i cavalli! In tutti i tempi di passaggio ero in testa, ma non lo sapevo, perché Guimard non mi diceva più niente, a parte qualche incoraggiamento, ma avevo capito che tutto andava bene per la classifica generale. Così, quando ho superato la linea d'arrivo, ho alzato le braccia, anche se non sapevo di aver vinto la crono, ero ben cosciente invece di aver vinto il Tour. Nessuno, fino a quel momento, aveva alzato le braccia durante una cronometro e nessuno mi ha creduto, ma era comunque la verità: non sapevo assolutamente di aver vinto quella tappa, la mia prima al Tour.
Ciò che accadde quella sera a Dijon resta un mistero, perché non ne ho alcuna memoria. Occorre che rivada a leggere gli articoli di allora per ricordarmi che sono andato alla televisione (brevemente) e che mi avevano dato una coppa di champagne prima di andare a letto. Niente altro. Dipoi ho dovuto leggere (molto tempo dopo) le parole del grande giornalista P. Chany, nell' "Année du Cyclisme" per capire perché più nessuno osasse più parlare di "Tour alla Walko". Chany scriveva infatti: "Fignon ha incorniciato la sua giusta vittoria sull'insieme del Tour con una dimostrazione tale da distruggere tutti i tentativi di minimizzare. Un prova mediocre nell'ultimo test cronometrato avrebbe rianimato ricordi ancora freschi (la rinuncia di Hinault, la caduta di Simon) e rinvigorito le tentazioni di confrontare i diversi casi e, naturalmente, l'immagine di Lauren Fignon ne avrebbe sofferto. Invece ha saputo gestire il problema con una autorità che prova il perfetto equilibrio del corpo e della mente e si è affermato non come un vincitore di circostanza, ma come il migliore di tutti i presenti e neppure gli assenti possono essere sicuri che avrebbero potuto arrivare al suo livello."
Ecco qua, è scritto e firmato da un'autorità morale indiscutibile nel ciclismo. Ed io, dunque, ero riuscito a cogliere il più bel fiore del ciclismo mondiale ed esso aveva un odore così dolce che lo potevo paragonare ad una rosa senza spine. Privilegio raro, come Coppi, Anquetil, Merckx o Hinault al mio primo tentativo. I miei obiettivi personali, fissati prima della partenza, erano stati onorati ed infatti portavo a Parigi la maglia bianca, avevo vinto una tappa e finivo nei primi dieci in classifica
Spinto dall'ardore della mia giovinezza, avevo, in più, illuminato la mia persona di un lucore meraviglioso che, forse, mi avrebbe permesso di entrare nella leggenda. Che emozione

 

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  postato il 10/09/2009 alle 09:38
Nous étions jeunes et insouciants (XXIII)

Il lato oscuro della luce


Fa parte della natura umana vedere solo il lato migliore delle cose, ma quando la realtà va al di là della nostra immaginazione, una grande minaccia ci può sovrastare: credersi maestri del mondo.
Alla fine di quel Tour 1983 ho toccato con mano quello che si potrebbe chiamare il senso della *non misura* (nota mia: il contrario cioè dell'aforima latino "est modus in rebus"). Non sapevo che quela "sbornia" poteva riservare il meglio, ma anche il peggio, perché non mi ero mai posto la questione. In effetti come si poteva preparare un ragazzo di 22 anni a fare il giro d'onore nella più bella "avenue" del mondo con in testa l'aureola del trionfo dei trionfi, quello del quale tutti i ciclisti, degni di questo nome e non solamente francesi, sognano di ...?
C. Guimard avrebbe potuto darmi dei consigli, mettermi in guardia, con parole semplici, da amico e mi avrebbo potuto avvertire di non tenere un comportamento diverso dalla mia personalità. Ma al di fuori de la tattica e della comprensione delle corse, Cyrille non era un confidente capace di andare a fondo nella psicologia degli altri, pertanto dovevo imparare da me e forse, dopo tutto, è il miglior modo.
Quella sera, al pub Renault, B. Hinault era presente. Non aveva potuto difendere la vittoria dell'anno prima ed io temevo, quasi, il nostro incontro, tuttavia non ho mai pensato di prendere il suo posto o di volergli rubare qualcosa. Le circostanze non si scelgono e nessuno nel 1983 avrebbe pensato di vedere un Hinault diminuito, anzi. Nel 1980 aveva abbandonato con la maglia gialla sulle spalle (a Pau), ma l'anno dopo era ritornato ancora più forte ed anch'io avrei conosciuto due anni dopo il significato di un infortunio grave e sarebbe stato lo stesso Bernard a trarre profitto dalla mia assenza! "En passant" ci potremmo chiedere con onestà: avrebbe vinto il suo quinto Tour nel 1985 se ci fossi stato anch'io? Allo stesso modo: avrei vinto nel 1983 se lui ...?
Dunque, quel 24 luglio 1983 il Tasso aveva l'aria ... nel suo abito ciivile, sembrava distratto, assente, poco interessato e se ne comprende la ragione, da questa festa che si stava preparando. Possiamo dire che sembrava lontano dal ciclismo e da quelle tre settimane che, senza di lui, avevano aperto un capitolo nuovo. Io vedevo quei suoi sguardi, seppur e proprio perché sfuggenti; ma non rivolti a me, bensì a Guimard, la cui presenza lo disturbava. Vedendolo così, lui il quadruplo vincitore del Tour, lui, la roccia conosciuto da tutti per la fermezza del suo carattere e per la brutalità (talvolta) dei suoi modi di fare, ho immediatamente compreso che la coabitazione fra noi due, che tutti temevano, non ci sarebbe mai stata. Tutto mi portava a credere che con Guimard il divorzio si era ormai consumato ed era evidente che Bernard era ormai uno straniero in casa Renault e quindi il Bretone avrebbe firmato l'anno successivo per un'altra squadra, anche se non sapevo quale.
Appena mi vide, il suo atteggiamento fu immediatamente caloroso e si è felicitato con me come lo avrebbe fatto un fratello maggiore e con parole bene appropriate:" Ho sempre pensato che tu avresti portuto farcela, tu l'ài meritato etc."
Non saprei dire se la mia vittoria gli avesse fatto piacere e non mi spingerò in siffatta interpretazione, perché niente mi spinge a pensare che non fosse sincero, tranne l'episodio ridicolo alla Vuelta egli non si è mai comportato male con me, anzi.
No, io sentivo un'altra cosa nell'animo di Bernard: c'era presente in quel momento, "ante litteram" il combattimento sportivo che avrebbe dispiegato contro i corridori di Guimard, non contro i corridori della Renault, ma ripeto quelli che avevano il "segno" di Guimard. Questo fatto "saltava gli occhi", tutto dentro di lui respingeva Guimard e quando si è accorto della sua presenza, fu straordinario (ma non troppo) constatare che il Tasso tornò ad essere taciturno e chiuso in se stesso e la sua mascella quadrata sembrava masticare l'amarezza!
Fra loro non ci potevano essere rapporti, sembrava addirittura un fatto fisico, non si sopportavano proprio più!
Pensavo che ci dovevano essere state tante cose di importanza tale da rendere così "nemici" due persone che erano state invece per lungo tempo ... ero lontano da pensare che anch'io un giorno mi sarei trovato quasi nelle stesse condizioni con C. G.
Ritornando alla sera della festa, devo confessare che la notte del tour d'Armor era stata niente nei confronti di quanto è accaduto allora.
"Partir en vrac" (nota: espressione derivante da sostantivo di origine neerlandese e che significa disordine, confusione) è un'espressione un po' debole e un inviato speciale della stampa scandalistica avrebbe potuto scrivere: "Laurent Fignon si è capovolto".
Ma che volete, dopo gli onori del podium, dopo la gioia collettiva e la passione popolare, ho bevuto, ho ballato, ho festeggiato fino al limite delle mie possibilità.
Con tutta la squadra siamo andati su una barca per terminare i balli ed mi sono accorto per la prima volta là delle prime conseguenze della mia popolarità. Ero un po' ubriaco e senza rendermene conto, ballando un lento, mi sono ritrovato fra le braccia di una stupenda ragazza che, naturalmente non avevo mai visto prima; non ci sarebbe stato niente da segnalare se non che il giorno dopo, in prima pagina di France-soir la Francia intiera poteva scoprire questa foto con la didascalia che "Il vincitore del Tour si rilassa con la sua fidanzata".
Il problema era che una fidanzata ce l'avevo davvero e si chiamava Nathalie (che poi sarebbe stata la mia prima moglie) e lavorava a Radio-France e non volevamo che il nostro rapporto fosse conosciuto per proteggere lei dal punto di vista professionale. Questa era proprio la ragione per la quale non aveva partecipato alla festa. Inutile dire che mi telefonò subito per urlarmi nelle orecchie:" Chi è codesta ...?" Confesso che mi rammentavo appena del ballo, figuriamoci della ragazza!
Dopo quella notte stellata non ho avuto più il tempo per assaporare la vittoria, riposarmi e riflettere un po' sulla mia vita. Il vincitore del Tour, soprattutto se francese deve molto al suo popolo ed esso mi attendeva nei criterium. Credo di averne corsi venticinque e, naturalmente, come era nelle regole, ne ho vinti parecchi, in virtù del contratto stipulato che, inoltre, mi riempiva le tasche.

 

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Livello Greg Lemond
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  postato il 11/09/2009 alle 12:54
Nous étions jeunes et insouciants (XXIV)



Amavo l'ambiente dei criterium, perché rappresentavano in qualche modo una sorta di prolungamento della festa del dopo Tour, che quindi durava circa un mese. Si correva e la sera, come voleva la tradizione, le cene della vigilia proseguivano là, dove erano state lasciate il giorno prima. Era eccitante, però anche affaticante, perché, si sa, la vita "monacale" del corridore di alto livello è poco compatibile con l'ambiente delle feste notturne.
Mi ci è voluto del tempo per comprendere perché pochissimi corridori francesi sono diventati campioni del mondo; all'epoca il mondiale si correva alla fine di agosto o ai primi di settembre e dopo un mese a girare per i criterium, a dormire poco ed a bere alcool per uniformarsi ai costumi; e i francesi, più sollecitati degli stranieri, ci hanno lasciato molto spesso "le penne". Io, ad esempio, dopo i criterium ero più affaticato che dopo il Tour, mi pare sia tutto dire!
E poi, a causa in parte dei criterium, perché gli organizzatori mettevano molto del loro per fare confusione di ogni genere e prendevano vincitori di vario tipo, che ho conosciuto il lato oscuro della gloria. Dopo i Campi Elisi durante varie settimane evevo conosciuto solo la mia gloria e in questo periodo non riuscivo più a distinguere il vincitore del tour (quello che appunto la gente veniva ad acclamare) dal Laurent Fignon vero, l'uomo cioè che io sapevo di essere. Mentre il vincitore del Tour faceva il suo "show" fino alla caricatura, il L.F. intimo decadeva in un personaggio che non era più riconoscibile, diverso da quello che era sempre stato.
Vi devo rassicurare, perché non ho fatto niente di grave, confronto ad altri in simili casi, diciamo che ho soltanto, come si dice "pris la cigare" (cioè mi sono montato la testa) ed ho cominciato ad interpretare il ruolo di chi vedeva la gente dall'alto in basso. E' facile da immaginare, il genere di ragazzo-arrivato che in ogni sua parola od atto lo fa presente a chiunque lo avesse dimenticato; mi capitava spesso di manifestare esigenze ridicole nei confronti di chiunque altro e mi rivolgevo loro con parole inappropriate. Infatti avevo l'impressione d'essere il centro del mondo e lo devo ammettere, per un momento ci ho creduto davvero! Vi posso assicurare che a forza di sollecitazioni all'illusione, si può pensare davvero che il sole giri attorno a se stessi, anche se ciò e ridicolo, rozzo e degradante per chi lo pensa.
Gli sguardi degli altri erano naturalmente pure cambiati ed è ingannevole e (poi sgradevole) vedere tutti così ammiranti ...
Quando incontravo lo sguardo di un ciclista percepivo la gelosia, mentre le donne erano molto attirate e bastava schioccare le dita; insomma non toccavo più terra ed ero finito in un mondo parallelo. Tutto questo avrebbe potuto distruggere la mia personalità ...
Perché tutto non è che fumo e falsità, mai sono stato al centro del mondo, tutt'al più e per qualche giorno appena, il centro del ciclismo .
Agli occhi di qualche amico sono senza dubbio diventato, temporaneamente, insopportabile, come d'altra parte mi ha detto un giorno Gerrie Kneteman, olandese campione del mondo nel 1978: "Dopo il mio titolo ho avuto un ego enorme, ma enorme davvero, credimi! In fondo è anche normale, ciò che non lo è, è mantenere a lungo questi pensieri." Il più bello, il più forte, comandare, ordinare per il puro piacere di farlo, il tuo piacere ...
Quando ho cominciato a schiarirmi la testa e ad aprire gli occhi, mi sono fatto orrore: mi sentivo sporco per l'orgoglio troppo mal speso, un piccolo orgolio di un piccolo "parvenu", di un piccolo *merdaiolo* (parole sue), mi sono sentito uno zero ed ho onta di tale periodo.
Quanto durò questo "passaggio a vuoto"? Direi un mese, non molto di più e devo consolarmi, perché per certi campioni questo sintomo è rimasto per tutta la vita. A mia discolpa, potrei citare il comportamento con i compagni di squadra, perché rispetto ad essi non era cambiato per niente, con Julot, ad es. con il quale sono sempre stato intimo, siamo rimasti come prima: io ero felice ed egli pure ed io ero felice di saperlo felice . Niene e nessuno modificherà i nostri sentimenti.
C'era comunque un lato buono in questa vittoria: la grande serenità che sentivo dentro di me; avevo varcato una soglia e ciò faceva di me uno sportivo differente: l'equivalente alla vela di capo Horn o un 8000 senza ossigino per un alpinista.
Appena ho ripreso gli allenamenti in maniera seria ho avvertito un fatto evidente che mi dava una sensazione favolosa, come se l'aurea di quella vittoria si fosse riversata direttamente sul mio colpo di pedale . Ero in uno stato di grazia tale che tutto mi pareva più facile, d'altra parte subito dopo i criterium ho vinto la terza tappa del Tour de Limoousin, senza neppure impegnarmi troppo, giusto per divertimento.
Mi rendevo conto di di aver ritrovato il mio piacere interiore più importante: correre, per correre, il gusto del combattimento uomo contro uomo e in questo il ciclismo è formidabile, perché ci obbliga ad essere sulla breccia tutti i giorni, e sembra fatto proprio per me, perché io non potrei ad es. mai prepararmi per quattro anni in attesa dei futuri giochi olimpici; che orrore solo a pensarci!
Dato che ero rivenuto subito al mio livello migliore, la Route du Berry mi dava una buona occasione per tornare indietro nel tempo a dei buoni ricordi che avevo. Era una corsa che di solito si prendeva alla leggera, d'altra parte sapevamo tutti che non c'erano mai stati controlli anti doping ed è inutile precisare che la maggior parte dei corridori prendevano le anfetamine e addirittura molti ne abusavano. Uno di essi, soprannominato Nenesse era talmente nervoso e incosciente che saltava sui marciapiedi senza nemmeno frenare e non era il solo. In quell'anno solo 21 corridori avevano terminato la prova, ma io non ero fra questi ed ero arrivato piuttosto presto al traguardo, non seguendo il percorso (appunto) e, con l'aiuto di qualche compagno, avevamo fabbricato un falso manifesto con la scritta "CONTROLE" e lo avevamo attaccato sulla facciata di un piccolo locale, situato subito dopo la linea d'arrivo e, come colpo d'occhio, faceva un bell'effetto.
Che spettacolo! Abbiamo visto il panico generale, nessuno sapeva che fare, solo "liquefarsi". Era molto divertente e ne abbiamo riso per molto tempo.

 

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  postato il 14/09/2009 alle 15:13
Nous étions jeunes et insouciants (XXV)

Nel ruolo del maestro


Come uno spettacolo, che non vale molto se non affronta diversi aspetti, un fisico in piena crescita e l'energia la più impressionante non è granché se non è accompagnato dalla mente.
Alla fine della stagione 1983, a Montjuich, in una corsa spagnola, un cicloturista mi venne letteralmente addosso: uno scontro frontale che poteva costarmi molto caro. Con la mano rotta sono riuscito comunque a finire e quindici giorni dopo e non me ne ricordava nemmeno più. Il dolore non è niente se si riesce a dominarlo e il ciclismo impone una violenza su se stessi molto maggiore di quanto la gente si immagina.
A 23 anni, refrattario al male ed avido di sensazioni forti, ho ripreso lla stagione 1984 nella posizione di leader, perché B. Hinault era partito per altri lidi e questo fatto aveva lasciato molti osservatori perplessi, perché il freddo, mio peggior nemico, mi aveva dato in regalo una sinusite, che mi aveva costretto a rinunciare a l'Intenational e ad abbandonare alla Tirreno-Adriatico ed alla Milano-Sanremo. Essi quindi si domadavano dov'era il vincitore del Tour? Grosso modo c'erano due categorie di persone: quelli che immaginavano fossi la replica del Thevenet 1976, cioè un vincitore del Tour che avrebbe penato molto a confermare un successo che lo trascendeva e altri che invece mi ponevano di già su di un piedistallo dorato e vedevamo in me un competitore degno dei più grandi; io, lo confesso, ogni giorno che passava mi confortava nella seconda ipotesi, perché conoscevo lo spessore delle mie possibilità e le notevoli riserve che sentivo dentro di me. La fortuna mi aveva di certo aiutato, perché deve essere frustrante dover frenare i propri ardori quando ci si sente capaci di ... ed io, invece non ero mai stato imbrigliato da nessuno, grazie a circostanze, per me, fortunate. Nello stesso tempo, mi rendevo conto che sarebbe stato molto difficile confermarsi a quei livelli, ma il timore non esisteva proprio in me. Con i compagni non era cambiato niente, serio negli allenamenti, leale e rigoroso in corsa, ma anche molto incosciente ...
All'inizio di quell'anno, quando avevamo appena terminato la stagione di ciclo-cross (Guimar ci obbligava e non potevamo rifiutare) avevamo preso tre vetture della Renault (guidando noi) per raggiungere la squadra in "stage". Io ero con Julot e dopo il fango, il freddo etc. prendevamo il volante come era consueto all'epoca, spingendo a fondo con il sorriso sulle labbra. Non c'erano allora i radar ed in più erano le vetture di una squadra molto popolare anche fra i poliziotti, tanto che essi chiudevano quasi sempre uno o due occhi, contentandosi di un autografo per il figlio o ... Forti di questa imponità, tutti i guidatori non esitavano a far salire il tachimetro e quel giorno, in piena notte, noi arrivavamo allegramente ai 200 Km/h ed in più zigzag, sorpassi all'ultimo momento, colpi di clacson, pensavamo tutti di essere dei Lafitte, Prost, Jarier o il figlio di J.P. Belmondo. Eravamo abituati, ma era grottesco e pericoloso ed infatti avvenne l'incidente nel momento in cui V. Barteau ebbe un colpo di sonno a piena velocità: Miracolo: nessun ferito grave e lo stesso Vincent se la levò con una mano ingessata.
Come vogliamo chiamare tutto ciò? Diciamo che volevamo forzare il destino in ogni momento e quel giorno, ma ce ne sono stati altri, noi fummo una specie di reduci, sì, rammento di averne avuta piena coscienza. Va detto che io avevo una caratteristica particolare rispetto a Barteau ed a Jules, che mi sembravano proprio incapaci di darsi una calmata, ho sempre avuto una certa di prudenza, qualcosa che mi ha sempre impedito di andare al di là delle stupidaggini normali, come se una luce si accendesse dentro di me per avvisarmi: "Ora basta!" E questo stop arrivava sempre prima per me che per gli altri. Mi sono sempre interrogato del perché di questa facoltà, che mi permetteva di essere anche di esempio per limitare le sfrenatezze agli altri, forse perché amavo talmente la competizione che tutto ciò che poteva rappresentare un pericolo mi appariva alla svelta per quel che era: stupido e puerile. Dicevo fra me e me, ti comporti in modo tale da mettere le tue vittorie in pericolo, bravo! Al volante, per esempio non pensavo di poter morire, però un incidente poteva impedire per lungo tempo la possibilità di correre e ciò mi impediva di rischiare, perché la vita senza ciclismo ...
Soprattutto in questa stagione 1984, quando B. Hinault aveva ceduto alle offerte di Tapie che gli aveva costruito una nuova squadra completamente devota, non potevo certo rischiare di non affrontare il nuovo avversario.
Non dubitavo di niente, perché per me tutto era rimasto come prima, mentre l'americano Greg Lemond, ben protetto da C. Guimard sin dai suoi esordi in Renault, si trovava in una situazione poco confortabile nei miei riguardi e me lo faceva sapere chiaramente. Era comprensibile, perché era lui che era stato programmato per vincere il Tour e il mio successo aveva "buttato all'aria", tutti i suoi piani, tanto più che Cyrille non gli aveva fatto correre il Tour l'anno prima, giudicandolo troppo giovane! Lemond, turbato, tentò di rinegoziare in alto il suo contratto, facendo valere la sua vittori al campionato del mondo, in Svizzera. Renault aveva rifiutato categoricamente di aumentargli lo stipendio ed io ho beneficiato di tali circostanze, perché i dirigenti non potevano permettersi di perderci tutti e quindi volevano assolutamente conservarmi nella loro squadra e quindi ottenni subito un milione di franchi annuali e, con mia sorpresa, mi accorsi che accettando la mia proposta avevano avuto un sospiro di sollievo, perché pensavano che avrei potutto chiedere molto di più! Ho ripensato spesso a quel mio "errore", perché se era molto per l'epoca, non rappresentava granché se si paragonavano gli stipendi dei tennisti e calciatori.
Guimard non aveva mostrato nessuna inquietudine, perché per lui non era possibile che io neppure pensassi di lasciare la squadra, egli sapeva che "il suo sistema" era fatto su misura per me ed io dovevo ancora provare troppe cose. Nel suo animo ero il leader incontrastato, però nella testa della squadra intiera non sembrava così e dopo la partenza di Hinault, i compagni parevano meno inclini a darsi a fondo in ogni frangente. La mancanza di fiducia nei miei confronti era comprensibile: Bernard con il suo "palmarès" si imponeva naturalmente, mentre per me il discorso era diverso, così come pure per Lemond, che rappresentava il leader bis, perché ad es. avevamo la stessa età dei nostri compagni. Quindi stava a noi imporci ed anche se il mio modo di essere era diverso da quello di Hinault, più basato sul cameratismo che sulla gerarchia, alla fine sarebbero state le vittorie a saldare la squadra intiera.
Naturalmente il problema maggiore che dovevo superare era il confronto con il signore di cui ora portavo gli abiti. Anche Guimar è caduto nella trappola ed ha copiato il "metodo Hianult" appplicandolo a me: stesso programma, stesse parole, ma io non ero lui e paradossalmente Cyrille non sapeva adattarsi alle circostanze diverse ed io ero troppo giovane per imporgli delle idee nuove.
Nessuno poteva immaginare che avevo bisogno di un programma diverso, tanto più che con quel sistema avevo vinto il Tour. Però ho pagato con la mia persona quel programma non adatto e meno male che ero veramente serio e animato da una volontà feroce di non deludere.
La pressione montava e si concentrava sempre di più su di me, ma più saliva, più riuscivo ad essere disteso, rilassato, sereno e forte. Gambe e mente erano un tutt'uno ed anche se ciò può apparire pretenzioso, era comunque la verità.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 15/09/2009 alle 14:38
Nous étions jeunes et insouciants (XXVI)

Coca in quantità


Non riesco ad immaginare che cosa penserebbe di noi una persona che non conosca il nostro mondo. Forse non comprenderebbe molto e alla luce delle sue esperienze quello che gli apparirebbe in evidenza sarebbero soprattutto gli atteggiamenti stupidi di una generazione troppo alla mercé delle tentazioni dettate dall'età. Il Tour di Colombia 1984 fu, al riguardo, un'esperienza stranissima, alla quale non ero certo preparato. Dal lato sportivo non ci sono molte cose da segnalare, a parte due vittorie di tappa: una per C. Mottet ed una mia, l'ultimo giorno.
Era una preparazione ideale per l'ossigenazione, perché eravamo sempre al di sopra dei 2000 metri e quindi era sufficiente comportarsi in maniera seria per ottenere quanto era previsto. Dal punto di vista ambientale molto spesso il lato scanzonato prevalse sulla serietà dei nostri intenti, ma noi non eravamo in quel caso i direttori d'orchestra ed io ho capito in quella settimana che in Francia eravamo dei bambini in confronto alla condotta da adulti che vedevamo lì. Detto francamente, i colombiani avevano una radiosa facoltà di entrare in contatto con la realtà e a trarne profitto. Ho scritto radiosa, perché sembravano felici di trasgredire certe regole e ciò era piuttosto evidenziato dal fatto che ridevano quasi sempre. Erano felici di vivere, di correre, di attraversare le loro strade attorniati dalla folla che era molto sodisfatta dal poter inneggiare ai loro nuovi divi. I colombiani in effetti erano diventati dei professionisti capaci di rivaleggiare nelle più belle corse in Europa.
All'epoca quasi tutte le corse erano sponsorizzate dalla mafia locale: i soldi giravano in abbondanza ed anche le armi non mancavano. Quasi tutto era combinato e, cosa ancora più grave, la cocaina aveva sostituito tutte le sostanze conosciute. Rammento un "suiveur" di certo un narcotrafficante, che nel bagagliaio della sua vettura aveva diversi chili della polvere bianca a disposizione di chi la volesse: 10 dollari il grammo, più che un prezzo, quasi un regalo. La mattina gli acquirenti facevano la coda e non avrei niente da dire, se non che costoro arrivavano a prendere la coca con il numero di partenza già attaccato sulla schiena .
Presi dall'euforia, i giornalisti (fra cui qualche francese) avevano il sorriso sulle labbra dalla mattina alla sera ed il motivo era semplice: sniffavano tutto il giorno. Anche noi abbiamo fatto gli stupidi, una sera per provare e quella sera famosa io avrei potuto buttare alle ortiche tutta la mia carriera!
A forza di sentir dire "è la migliore del mondo" "mio dio com'è buona", ci siamo detti "proviamo". Era la vigilia dell'arrivo a Bogotà, dove terminava tutti gli anni il Clasico e poiché non c'erano difficoltà l'ultimo giorno, i rischi parevano misurati. Siamo andati in quattro in camera con lo spirito di bambini di fronte ad uno nuovo giocattolo. Avevamo un grammo ciascuno, ne abbiamo preso uno, diviso in quattro parti e ...
Niente, non ho avverrtito niente ed allora ho guardato il mio amico più vicino per chiedergli se lui sentiva qualcosa? No, ha risposto.
Stupefazione, delusione, ma abbiamo ricominciato con il secondo grammo, ma ancora niente! Sarebbe questa la coca? Ho domandato molto scocciato, perché cominciavo a credere che ci avessero venduto dello zucchero in polvere. Allora disperati, abbiamo sniffato in un solo colpo quello che rimaneva. Non eravamo stati abbastanza pazienti con le prime dosi, evidentemente ci voleva un po' di tempo prima che gli effetti raggiungessero i nostri piccoli cervelli da imbecilli!.
Mio dio! Ouah! Mi sono sentito arrovesciare la testa, una sensazione incredibile, una totale perdita fisica, non toccavo più terra ed avevo la sensazione che le mie idee scorressero ad una velocità tale che il cervello non le potesse analizzare e non sapevo più nemmeno come mi chiamavo.
Dovevamo muoverci, era più forte di noi e lo stato di eccitazione era tale che avremmo potutto fare qualsiasi cosa e meno male che siamo andati a camminare. Poi abbiamo trovato C. Guimard con il giornalista D. Pautrat in un bar. Tu non connetti, vai a dormire, mi ha detto Cyrille. Ho voglia di divertirmi, gli ho risposto, senza più nemmeno ascoltarlo e poi mi sono ritrovato "sperso" in non so che tipo di locale.
Un po' più tardi, Guimard che non era certo uno che si distraeva facilmente, ci cercava da per tutto, perché si era proprio impaurito. Saremmo potuti cadere in cattive mani, ma alla fine ci ha trovato ed è riuscito a convincerci a tornare in albergo. Io dividevo la mia camera con Greg Lemond e sotto l'effetto della polvere era impossibile dormire ed abbiamo parlato tutta la notte, c'è stato un riavvicinamento amichevole, anche se solo temporaneo.
Il giorno dopo, alla partenza, senza mai aver chiuso occhio, ero in piena forma e mi sono proprio divertito in bicicletta, così tanto che mi sono aggiudicato l'ultima tappa e solo quando mi sono dovuto presentare al controllo antidoping ho preso coscienza della mia incoscienza. In una frazione di secondo ho visto tutta la mia carriera passata e non smettevo di ripetermi: " Ma perché ho voluto vincere questa tappa? Perché?
Naturalmente pensavo di essere positivo, come poteva essere diversamente!?
Poi, prima di andare ad urinare, ho riflettuto due minuti sul contesto, alla corsa che si era svolta in quella settimana, a quello che avevo visto e a quanto mi avevano detto. I colombiani avevano vinto diverse tappe e tutti, veramente tutti, "marciavano alla cocaina", eureka! I controllori dovevano essere della partita e quindi sono andato al controllo un po' inquieto, ma rassicurato dal mio formidabile ragionamento. E come previsto non ho mai avuto cattive sorprese da quel controllo. Bianco come la neve, immacolato come un giglio (nota: in originale sarebbe "poudreuse" e ci sarebbe stato anche un buon gioco di parole, ma tale mobile da toilette in italiano non ha nessun significato).
Ripensandoci oggi, devo convenire che avevo comunque preso un rischio sconsiderato e non soltanto a causa del controllo, ma soprattutto perché in quella famosa notte si sarebbe potuto verificare qualunque cosa. Gli specialisti della trasgressione avevano l'abitudine al rischio, ma io NO .

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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  postato il 16/09/2009 alle 13:23
Originariamente inviato da lemond

[B]Coca in quantità

...Stupefazione, delusione...

Beh, parlando di stupefacenti... questa variante poco comune di "stupore" calza a pennello!

Comunque, Carlo volevo solo ringraziarti per il grandissimo lavoro che stai facendo... non è da tutti tradurre un libro per il puro piacere di condividerlo, però conosciamo la tua puntualità e la tua meticolosità...

PS: Un chiarimento, visto che probabilmente mi sono perso qualche passaggio: il compagno spesso nominato Jules o Julot è sempre la stessa persona, immagino, e dovrebbe trattarsi di Pascal Jules, giusto?

 

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Livello Greg Lemond
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  postato il 16/09/2009 alle 13:40
Originariamente inviato da Bitossi

Originariamente inviato da lemond

[B]Coca in quantità

...Stupefazione, delusione...

Beh, parlando di stupefacenti... questa variante poco comune di "stupore" calza a pennello!

Comunque, Carlo volevo solo ringraziarti per il grandissimo lavoro che stai facendo... non è da tutti tradurre un libro per il puro piacere di condividerlo, però conosciamo la tua puntualità e la tua meticolosità...

PS: Un chiarimento, visto che probabilmente mi sono perso qualche passaggio: il compagno spesso nominato Jules o Julot è sempre la stessa persona, immagino, e dovrebbe trattarsi di Pascal Jules, giusto?


Hai ragione su tutto: si tratta di Pascal Jules ed io mi sono fatto prendere dal francesismo, senza accorgermene *stupefazione*

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 16/09/2009 alle 17:48
Nous étions jeunes et insouciants (XXVIII)

La tragedia dell'arte

(In italiano nel testo)

In ultima analisi, occorre saper coniugare il verbo "correre in bici" in tutti i tempi e modi ed anche negli eccessi. Bisogna che il dubbio non sia più permesso e che audacia e rigore siano in simbiosi. Spettacolo, combattimento, perché fra tutti i più strani ciclisti che uno possa concepire, solo le eccezioni durano nel tempo. Io non ero ancora fra questi, ma l'Italia poteva offrirmi un nuovo terreno per esprimermi all'altezza delle mie aspirazioni, perché io avevo fame di gloria.
Avevo conservato solo buoni ricordi del Giro 1982, al quale avevo partecipato da neo-pro e il ritorno si presentava sotto i migliori auspici.
Per esser chiari, questa corsa mitica mi ha completamente estasiato e, secondo me, Dino Buzzati aveva visto giusto nel dire che il Giro "è uno degli ultimi supremi luoghi dell'immaginazione, un bastione romantico assediato dalla potenza del progresso". I grandi scrittori non si sbagliano spesso, perché il Giro si è sempre rifiutato di arrendersi e ciò era ancora più vero ai miei tempi.
Devo confessare che ho amato intensamente questo ambiente che si sarebbe potuto credere sorto da un altro tempo, ho amato gli spettatori molto spesso eccessivi, ho amato la loro comunicatività, quelle grida, quella lingua, ho amato la bellezza dei paesaggi, i loro colori, i giorni ripieni di sole e la dolcezza delle notti, che talvolta potevano essere anche fredde. Ho amato certi villaggi che sembravano sospesi nello spazio, quelle montagne di maggio, ancora innevate, ma soprattutto ho amato soffrire su queste strade. Insomma mi sentivo bene in Italia ed anche in seguito ho conservato intatta la mia passione per questo paese ed il fatto che sia stato anche in una formazione italiana non è un caso.
Qualche settimana prima mi erano mancate le forze per vincere la L-B-L, ma senza quella sinusite cronica, che mi aveva costretto a letto durante diversi giorni nella fase preparatoria, non sarei stato ripreso a 5 Km. dall'arrivo allorché ero in testa in compagnia di Phil Anderson.
Pertanto avevo un solo obiettivo al via del 67° Giro d'Italia: la vittoria finale. Per raggiungerlo, con Guimard, avevamo scrupolosamente scelto una formazione di uomini forti, ma soprattutto compagni fedeli nell'ora del sacrificio. Avevo fiducia in questi ragazzi giovani ed ambiziosi, un po' come me: Gaigne, Menthéour, Corre, Salomon, Saudé, Wojtinek, Mottet.
Rammento bene il contesto: la minaccia Fignon inquietava i transalpini che avevano fatto tutto il possibile, affinché il loro idolo Francesco Moser potesse infine vincere il "suo" Giro. Rimaneva però un dettaglio da regolare (per loro): questo nuovo giovane francese che, dopo Hinault, veniva a sfidare la patria di Coppi e Bartali. I corridori italiani, che non hanno mai apprezzato il fatto che gli stranieri potessero venire a vincere nella loro terra, non esitavano a proclamare *l'unione sacra* contro l'avversario. In certi anni, battere la coalizione e vincere, malgrado tutto e tutti, era quasi un miracolo (ne sa qualcosa J. Anquetil nel 1967 ).
Moser mi conosceva e sapeva come regolarsi, d'altra parte aveva dichiarato alla vigilia della partenza: "Per Fignon la posta italiana è decisiva, perché deve provare che la vittoria nel Tour non è dovuta a fatti accidentali. Si saprà molto presto se si saprà adattare allo status di leader, perché è evidente che non potrà contare in questo caso su nessun "effetto sorpresa".
Aveva ragione ed infatti Guimar ed io volevamo imporre una strategia di presenza continua in testa alla corsa, perché questo mi era congeniale e potevo in tal modo anche beneficiare della cartografia particolare dell'Italia. Contrariamente al Tour, ove c'era un notevole lasso di tempo fra la partenza e i Pirenei o le Alpi, il Giro ofrre ogni due o tre giorni una tappa adatta ai "colpi di mano". Inoltre, mi ritenevo più forte di Moser e Saronni in alta montagna e dovevo autogiustificare questa convinzione.
Però tutto cominciò male e il primo grande appuntamento nella prima settimana fu per me una piccola sconfitta che, alla fine avrà le più grandi conseguenze. Durante la V tappa c'era un arrivo in quota al BlocK-Hause ed mi arrivò una "fringale" improvvisa. Un minuto e trenta erano volati via a vantaggio di un Moser prodigioso, per il più grande piacere dei tifosi che mi evano quel giorno già "dato per morto".
Anche questa volta il glucosio, in forte dose, fu il responsabile: ipoglicemia, determinata da uno scarico d'insulina, per fortuna quel giorno siamo riusciti a capirlo e da allora non si ripeterà più. Ma il male per quel Giro era fatto e Guimard, deluso, veniva tutti i giorni a parlare con me e si guardava ogni tappa per determinare, se possibile, una strategia per rivoltare la situazione. Io mi prestavo al gioco ed ero contento dell'idea di agitare il bastone ogni giorno, tanto più che Moser, durante la seconda settimana, sembrava migliorare ogni giorno. La fiducia era dalla sua parte, così come tutto il gruppo italiano che si era alleato a sua Maestà il grande passista e gli preparava il terreno in ogni occasione. Quando c'era un buco da chiudere, c'era sempre un italiano pronto ad aiutarlo a prescidere dal fatto che fosse della sua squadra. La Renault doveva combattere contro tutto un paese ... ed esagero appena.
I compromessi erano visibili e giravano tanti discorsi sugli organizzatori (in particolare Vincenzo Torriani) che sembrava avesse ben scelto il suo "campo". Non so se oggi potrebbe essere una cosa immaginabile, ma occorre che la gente sappia che in certe tappe io ricevevo sputi o bagni con l'aceto o qualche altra ... dolcezza.
Nelle mie previsioni, sapevo di dover concedere circa 3 minuti nelle due ultime crono e, come previsto, ho perso esattamente 1 e 28" nei 38 Km fra Certosa e Milano.. Francesco Moser era un passista d'eccezione, con dei metodi che rasentavano tutte le frontiere del ragionevole, tanto sul piano tecnico, perché beneficiava di ricerche avanzate ed utilizzava delle bici concepite per il record dell'ora, che sul piano fisico, perché tutti sapevano che collaborava con dei medici poco scrupolosi per quanto riguardava l'etica.
La mattina della XVIII tappa, che avevo ben segnato nel mio piccolo calendario e che avevamo scrupolosamente studiato nei minimi particolari con Guimard, sapevo esattamente dove avrei attaccato. Ma quella mattina, dicevo avvenne un colpo di scena clamoroso e scandaloso. In programma di questa tappa di montagna "dantesca" figurava il mitico Stelvio (2757 metri) dove il grande Coppi firmò una fra le sue più belle prodezze e dove gli italiani, per il quali il ciclismo è religione, sono convinti che più nessuno sarà più capace di imprese così sontuose ...
Approfittando del freddo e dell'altitudine, gli organizzatori, con il sostegno politico delle autorità, s'inventarono pericoli immaginari, che, appunto, non esistevano. L'agenzia nazionale delle strade parlava di "rischi di neve" ed anche di valanghe. E così continuarono a fare quello che si era prodotto due o tre volte nei giorni precedenti con dei colli meno celebri. Insomma, ogni giorno le tappe erano modellate in funzione degli interessi; era un fatto surreale!
C. Guimard ha protestato come ha potuto, ma invano. V. Torriani cancellò lo Stelvio ed offrì un percorso indegno di una tappa di alta montagna. All'arrivo, a Val Gardena ero giunto secondo e ripreso un po' di tempo a Moser, che da parte sua era ben contento del colpo politico che aveva imposto a tutti. Il nostro piano di grande offensiva era stato rovinato dalla doppiezza degli organizzatori che " se ne fregavano" (nota: l'espressione colorita è mia) dello sport.
La sera stessa, seppur un po' abbattuti, con Cyrlle abbiamo immaginato il nostro "o la va o la ...". Il profilo della tappa da Val Gardena ad Arabba offriva qualche possibilità: c'erano il Campolongo, il Pordoi, il Sella, il Gardena e di nuovo il Campolongo. Naturalmente ero impaziente di mettere tutto sul piatto di una sola tappa ed il giorno dopo, esattamente quando e dove previsto, sono partito solo nel freddo e nella bruma che detestavo tanto. Vinsi la tappa in solitario e conquistai anche la maglia rosa, ma Moser, ormai a 1 e 30 dietro, non aveva ceduto del tutto, come quasi sicuramente sarebbe accaduto sullo Stelvio. Tutto il gruppo aveva cercato di non fargli perdere troppo tempo e si erano formate catene di tifosi per spingerlo sui colli. I commissari si aggiunsero (nota mia, che sono stato purtroppo un tifoso di Moser: non volevano essere i soli a non partecipare all'inno viva l'Italia) e mi dettero 20 secondi di penalità per un preteso rifornimento fuori zona. Moser doveva vincere in ogni modo!
Restavano due piccole tappe, ma soprattutto la crono dell'ultimo giorno di 42 Km fra Soave e Verona, un percorso poco sinuoso e piatto come un biliardo. Poco prima della partenza, quando ho visto che partiva con la sua bici da record dell'ora, ho compreso che tutto era perduto.
Si stimava il benefico di questo materiale in due secondi al Km e sapendo che potevo perdere un minuto, per la mia inferiorità, su di lui il conto era facile a farsi. Moser che non ha mai avuto paura di niente, confessò dopo: "La mattina della crono sono andato a fare un test in compagnia del mio medico, il dottor Tredici. Egli mi ha chiesto di andare al massimo e mi sono accorto che ero nei tempi del record dell'ora, pertanto, ho rifatto la stessa cosa il pomeriggio con l'animo tranquillo. Il dottore mi aveva detto di partire a fondo e mi aveva assicurato che avrei potuto conservare lo stesso ritmo per un'ora e ... è quello che è accaduto."
Moser, 42 km a quasi 51 di media ed io secondo a 2 e 24 secondi e un minuto e tre secondi di svantaggio nelle generale ed io sparivo così nel caos.
Era tanto più difficile da accettare anche per il fatto che durante una gran parte della mia crono il pilota sull'elicottero della TV, preso dalla passione divorante per il suo mestiere (senza dubbio) si divertiva a filmarmi da così vicino che avrebbe potuto leccare il mio numero con la testa del suo apparecchio. Inutile dire che la turbolenza così provocata mi inviò abbastanza vento, tale da rallentare la mia progressione. Due o tre volte ho alzato il pugno, nonostante il rischio di caduta, per lamentarmi verso di lui, ma non c'era niente da fare, tutto era pensato affinché Moser potesse "trionfare". Guimard era ebbro di collera ed io ... pure! :-(((
In circostanze normali, se tutte le tappe si fossero svolte regolarmente, quella cronometro avrebbe avuto un'importanza secondaria, perché il divario sarebbe stato creato ben prima ed io avrei vinto il mio primo Giro nel modo più logico del mondo. Invece un dolore mi bruciava nel petto: l'ingiustizia!
Certamente la sera della tappa dello Stelvio avremmo potuto decidere di abbandonare la corsa e sarebbe stato un gesto vero e forte, ma era ancora possibile prendere la maglia rosa e inoltre la Reanault aveva anche la maglia bianca di miglior giovane con Mottet, io anche quella del GPM ed eravamo in testa alla classifica per squadre, insomma monopolizzavamo quasi tutte le maglie!
Dopo quelle tre settimane così particolari, una cosa almeno era chiara: ero un Fignon ben in grado di vincere ogni corsa.
Per trionfare sulla terra di Coppi non mi era mancato molto ed il ciclista poteva essere contento, ma quel Giro manca ancora tanto all'uomo Fignon. Un grande dolore con il tempo può sparire, ma il ricordo resta.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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  postato il 17/09/2009 alle 02:43
Mi unisco ai complimenti e i ringraziamenti a lemond,perchè nelle ultime settimane posso dire che questo è divenuto il thread che leggo con maggior piacere ed interesse.

Visto che tra non molto si inizierà a far sul serio con il ciclocross,volevo segnalare questo passaggio della biografia che mi ha colpito particolarmente

Originariamente inviato da lemond

Nous étions jeunes et insouciants (XXV)

All'inizio di quell'anno, quando avevamo appena terminato la stagione di ciclo-cross (Guimar ci obbligava e non potevamo rifiutare)


Sembrano davvero lontanissimi quei tempi...

 

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Livello Greg Lemond
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  postato il 17/09/2009 alle 12:32
Ringrazio per i ringraziamenti, però mi pongo una domanda, se "thread" significa discussione, perché il libro di Laurent ne stimola così poca?

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 18/09/2009 alle 11:04
Nous étions jeunes et insouciants (XXVIII)

Ne vinco cinque o sei e smetto



Come un battesimo arrivato dai tempi antichi, un segno, un sigillo trasmissibile al di là delle generazioni; l'aria, l'acqua, il fuoco, la forza d'animo, il coraggio. I grandi miti nascono dai riti ed io cominciavo a capire che figurare nel "palmarès" del Tour procurava un sentimento confortevole di "eternità". Ma, raddoppiare, confermare, provare a tutti che il 1983 non era che una prefazione approssimativa di un'opera ben più vasta: questa era la mia ambizione. E, devo dirlo, era un'ambizione piuttosto ragionevole, considerando la mentalità che avevo allora. Sapevo quello che dovevo fare e comprendevo piuttosto bene come e dove farlo.
L'episodio traumatizzante del Giro mi aveva reso più forte, era un'evidenza. Ero pronto ormai a lottare contro tutti i compromessi, preparato ad affrontare le peggiori bassezze, per evitare che si potesse riprodurre quel genere di furto. Ed infatti, invece di "piangermi addosso",
piuttosto che cercare ogni giorno i colpevoli, tuttavia ben conosciuti, me la prendevo solo con me stesso: mai rifuggire dalla propria responsabilità! Dovevo essere ancora più forte e mai più lasciare agli altri la scelta delle armi. La campagna d'Italia mi aveva costruito un morale di ferro.
Tutti ormai sapevano che la vittoria del 1983 non era dovuta al caso, però ricordo che in quel periodo, benché molto sicuro di me, restavo abbastanza modesto. Capace di esercitare la dialettica fra me e me, potevo ben dire che se B. Hinault fosse stato là nel 1983 non avrei certo vinto il Tour, perché sarei stato al suo servizio, ma potevo anche dirmi che, senza Hinault, avrei probabilmente avuto nella gambe la Vuelta del 1983. Con il mio fisico dotato per il fondo, mai così robusto che nelle tappe lunghe, avevo una facoltà supplementare: contrariamente a molti corridori che uscivano totalmente "distrutti" da una Vuelta o da un Giro ed erano incapaci di fare dopo anche il Tour in buone condizioni, a me invece occorrevano proprio un paio di G.T. per arrivare a metà luglio al massimo della forma. Aver partecipato al Giro, sebbene in circostanze difficili, non era certo un handicap, anzi ...
Alla partenza di questo Tour, i giornalisti sommavano le loro eccitazioni: il ritorno di Hinault sul suo terreno di caccia preferito esaltava tutti i commentatori, era il massimo per loro. Il duello Hinault-Fignon, quello che tutti aspettavano, si sarebbe alla fine realizzato sul più bel terreno ciclistico del mondo e ciascuno avrebbe alla fine saputo. Devo ammettere che la gran parte della stampa aveva scelto il suo campo e sognava il ritorno trionfale del Tasso. Il pubblico invece era abbastanza diviso: Bernard era stato sempre impressionante, ma non aveva mai raggiunto la popolarità di Puolidor e neppure di Thevenet nel 1977 ... almeno non ancora (1984).
Quanto a me, occorreva essere vigli e soprattutto leggere bene la stampa specializzata per sapere ciò che pensavano i tecnici veramente attenti. Occorre aggiungere che una settimana prima avevo vinto il campionato di Francia a Plouay, proprio sulle terre bretoni di Hinault, con una facilità estrema. Avevo impressionato per la facilità e la potenza del mio "colpo di pedale" e per la maggior parte dei direttori sportivi o ex campioni ero di gran lunga il favorito. Gribaldy, Geminiani, Pingeon, Poulidor, Danguillaume etc. lo pensavano alla partenza e continuavano ad affermarlo dopo il prologo, nella regione di Parigi, che io comunque non avevo vinto.
Bernard aveva richiamato i suoi più bei ricordi colpendo forte in quella tappa per rinvigorire la propria leggenda e ne aveva convinti molti, ma questa brava gente avevano dimenticato che io ero arrivato secondo a 3 piccoli attimi dal Tasso e ciò, in questa specialità, rappresentava per me un notevole "exploit". Inoltre se si guardava bene l'ordine d'arrivo, c'erano cose che "saltavano agli occhi" : fra i favoriti Roche e Lemond avevano perso 12 secondi, Kelly 16", Simon 34" etc. Non soltanto avevo riuscito un buon colpo, ma gli altri avevano notevoli preoccupazioni davanti.
Io ero progredito in ogni settore e Guimard era con me, mentre Hinault, impulsivo e talvolta collerico, non brillava per senso tattico, certo egli rendeva colpo su colpo, ma quando bisognava calcolare, attendere, fare dei piani, Bernard avrebbe avuto un bisogno vitale di Cyrille, mentre, da quel che sapevamo dall'esperienze dell'inizio stagione, il direttore sportivo della Vie Claire, P. Koechli non aveva abbastanza forza di carattere per farsi ubbidire dal Bretone. C'è da dire però, a discolpa del direttore svizzero, che B. Tapie, il patron della squadra, voleva modellare tutto alla maniera dello "show-biz" (nota: io non so che sia ) e non gli lasciava nessun margine di manovra.
La "follia" mediatica a favore di Hinault non cessava minimamente, tanto più che dopo settecento giorni era ritornato ad indossare la maglia gialla e si comprende bene la sua emozione e la gioia che doveva dimostrare il suo viso sul podium del prologo. Egli dichiarò allora: "E' strano, ma ho l'impressione che non sia cambiato niente." Egli si riferiva alle proprie sensazioni, ma un testimone dirà, tuttavia, qualche giorno dopo che l'aveva visto "completamente cotto" dopo aver tagliato il traguardo. Forse era un'esagerazione, perché si trattava comunque di una bella vittoria per un ritorno. Hinault, da parte sua, aveva aggiunto, sapendo che io ero dato favorito, "D'accordo, ha fatto un bel Giro, ma è stato battuto da Moser ed io l'Italiano lo battuto qualche volta ." Il solito Hinault, sempre pronto a negare, sempre di fronte alle interviste come ad un combattimento di boxe!
C'era una grandissima pressione ed io l'adoravo, perché rafforzava le mie motivazioni ed amavo, già da prima, la "bagarre" che si andava profilando, il combattimento continuo dal quale ne sarebbe sortito il migliore. E la verità era che la disinvoltura che mi caratterizzava dall'inizio della carriera non mi aveva mai abbandonato. In tutta sincerità, allora che la Francia era divisa in due, fra lui e me, devo dire che ero del tutto estraneo a questa situazione e niente mi turbava o mi induceva a cambiare atteggiamento. "Tu sei un anticonformista, deve conservarti così, perché è una meraviglia che ci siano persone così nello sport francese" mi aveva detto un giorno un amico.
Non avevo fatto troppa attenzione allora a quelle parole, tuttavia ...

 

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"Per principio rifiuto di sottopormi a questi controlli. Non sono ostile alla lotta al doping, che ritengo indispensabile tra i dilettanti, ma nel caso di professionisti è differente. Dopo 12 anni di carriera io so quello che devo fare e non voglio che una mia vittoria venga messa in dubbio dalla fantasia delle analisi".

(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

Non riesco a comprendere perché Morris non sia assunto da nessuna rete telvisiva come opinionista

 
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Livello Fausto Coppi




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  postato il 18/09/2009 alle 11:13
Originariamente inviato da lemond

Ringrazio per i ringraziamenti, però mi pongo una domanda, se "thread" significa discussione, perché il libro di Laurent ne stimola così poca?


Perchè è un piacere ascoltare.

 

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nino58

 
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Livello Greg Lemond
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  postato il 18/09/2009 alle 13:18
Originariamente inviato da nino58

Originariamente inviato da lemond

Ringrazio per i ringraziamenti, però mi pongo una domanda, se "thread" significa discussione, perché il libro di Laurent ne stimola così poca?


Perchè è un piacere ascoltare.


Giusto, ma solo per fare un esempio, è possibile che il mio amico Moserone non voglia, per lo meno, cambiare "nickname" ?

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Marco Pantani




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  postato il 18/09/2009 alle 21:32
Mi è grata l'occasione per ringraziare l'utente lemond per la traduzione del libro di Fignon. Credo che manchi la discussione soprattutto perchè chi si mette a leggere queste righe è talmente conquistato dalle cose dette da Laurent da far passare in secondo piano ogni considerazione personale.
Laurent Fignon è stato uno dei mie grandi amori. Mi assoccio a Morris (anche per Eddy, è chiaro), la ragione di tale amore era almeno per metà per l'esspressione di anticonformismo e intelligenza che traspariva dal gesto di questo atleta.
Di Laurent ricordo un Tour corso da fuoriclasse assoluto, dominando a crono e in montagna. Ricordo due sconfitte brucianti ad opera di Lemond nel giro di poche settimane e di come si uscito ingigantito da tali sconfitte.
Ricordo poi le due perle Sanremesi, quando non più forte ed irresistibile, faceva prevalere la tattica e l'intelligenza di corsa.

Lo spessore che emerge da questo libro mi commuove e mi rende orgoglioso. Non avevo, ma come me molti, visto male. L'uomo L. Fignon è un campione anche senza la sella sotto il sedere.

Allez Laurent, allez!

 

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Livello Greg Lemond
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  postato il 19/09/2009 alle 07:49
Originariamente inviato da claudiodance

Mi è grata l'occasione per ringraziare l'utente lemond per la traduzione del libro di Fignon. Credo che manchi la discussione soprattutto perchè chi si mette a leggere queste righe è talmente conquistato dalle cose dette da Laurent da far passare in secondo piano ogni considerazione personale.
Laurent Fignon è stato uno dei mie grandi amori. Mi assoccio a Morris (anche per Eddy, è chiaro), la ragione di tale amore era almeno per metà per l'esspressione di anticonformismo e intelligenza che traspariva dal gesto di questo atleta.
Di Laurent ricordo un Tour corso da fuoriclasse assoluto, dominando a crono e in montagna. Ricordo due sconfitte brucianti ad opera di Lemond nel giro di poche settimane e di come si uscito ingigantito da tali sconfitte.
Ricordo poi le due perle Sanremesi, quando non più forte ed irresistibile, faceva prevalere la tattica e l'intelligenza di corsa.

Lo spessore che emerge da questo libro mi commuove e mi rende orgoglioso. Non avevo, ma come me molti, visto male. L'uomo L. Fignon è un campione anche senza la sella sotto il sedere.

Allez Laurent, allez!


 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 19/09/2009 alle 15:20
Nous étions jeunes et insouciants (XXIX)


In altre parole, malgrado i clamori e le scommesse su questo e quello e pur essendo ben conscio di poter traumatizzare o deludere quelli per i quali certe cose erano sacre, dentro di me non ho mai avuto la coscienza di partecipare alla scrittura di un libro di storia. Vincere o perdere non era per me l'inizio e la fine del mondo e la sera del prologo rammento molto bene la mia reazione. Mentre tutti i commentatori "sapienti" si preoccupavano di Hinault e si focalizzavano sul suo "rientro trionfale", nessuno pensava invece che io ero giustamente convinto di essere al massimo grado della mia forma. Mi pareva di andare come un treno ed era una senzasione deliziosa ed il fatto che gli altri non lo notassero non mi dispiaceva affatto. Mentre i francesi immaginavano un Bernard capace di vincere il suo quinto Tour, io, di già quel giorno, mi sentivo su di una nuvola. E poi la mia squadra dominava in lungo ed in largo in gruppo. Con Jules, Barteau, Didier, Gaigne, i fratelli Madiot, Menthéour, Poisson e il campione del mondo G. Lemond avevamo tutte le carte possibili e immaginabili per divertici un po'. E dopo la prima vittoria di tappa per noi, con Marc Madiot, la cronosquadre (III tappa, 51 Km) dette il tono della sinfonia che noi avremmo ripetuto tutti i giorni, sempre un po' meglio. Partiti con prudenza, avevamo invece realizzato un finale in perfetta armonia e da parte mia facevo i mie turni al comando con grande efficacia e lo sforzo mi pareva quasi divertente, tanto i pedali mi sembravano leggeri.
Era il nostro primo obiettivo ed io avevo osato dichiararlo prima del Tour che avremmo vinto la crono ed ora era fatto! Di poco nei confronti della Raleigh o della Kwantum, ma abbastanza (55 secondi) rispetto alla Vie Claire. La prima ripresa era terminata.
Nella V tappa, grazie ad una fuga fiume di tre corridori che noi avevamo ben costruito e che le altre grandi squadre avevano lasciato andare, V. Barteau, secondo della tappa, prese la maglia gialla con più di 17 minuti di vantaggio sui grandi. Fu la festa al nostro albergo e la firma alla partenza con la maglia gialla non faceva che cominciare e così potevamo controllare la corsa, cosa che per noi era l'ideale ed io restavo saggiamento al mio posto, consapevole del mio ruolo,k guardando Hinault che invece pareva preoccupato: partecipava agli sprint-bonification e conduceva una guerra che credeva di usura, tutti i giorni, su tutti i terreni, ma che a me pareva proprio inutile. Un Hinault combattivo e sempre alla ricerca di un possibile vantaggio, ma ciò non mi perturbava per niente. Egli comunque aveva ragione di tentare e con un avversario psicologicamente più debole di me, forse avrebbe anche potuto riuscire, ma io ero calmissimo, anche se il suo continuo movimento mi costringeva ad essere sempre "sul chi vive" ed inoltre dovevo riconoscere a Bernard una "panache" che spingeva al rispetto. D'altra parte anch'io avevo lo stesso tipo di filosofia, quella di cercare di creare l'insicurezza negli altri, per approfittare dei lati caratteriali deboli e quindi lasciar credere che la minima occasione poteva essere buona per attaccare e che loro non potevano sapere mai quando e dove sarebbe stato scoccato il dardo. Quando un corridore sta sempre sulle spine, quasi sempre si affatica, commette degli errori, in una parola si indebolisce da solo.
Guimard sapeva utilizzare la squadra al meglio; ad es. quando una fuga prendeva troppi minuti era il solo direttore sportivo ad andare, con il suo cronometro, dietri i fuggitivi, per calcolare la loro velocità media, prima di dare i suoi consigli/ordini e quindi ci diceva esattamente alla velocità cui andare e le sue previsioni si rivelavano quasi sempre esatte. Se avevamo un ritardo di 9 minuti, egli calcolava che avremmo dovuto metterci a tirare a 62 km dall'arrivo e che, ad una certa andatura, li avremmo ripresi a tre km. Era impressionante ed in questo modo riuscivamo a giocare con i nervi di tutte le altre squadre. Ecco perché Cyrille ha fatto scuola!
Il primo momento di verità arrivò nei 67 Km. fra Aleçon e Le Mans. Il mio stato di forma era visibile e con la mia nuova bicicletta con profilo a Dèlta ho vinto la tappa, lasciando Bernard a 49 secondi e non c'era possibilità neppure di contestazione interna, perché Greg aveva perso più di due minuti e quindi l'eventuale problema era, per il momento, regolato. Alla vigilia della partenza, avevo dichiarato, riguardo all'americano: "Vi assicuro che non ci sarà nessun problema fra noi, perché ci penserà la corsa a decidere i nostri ruoli in quanto verrà un giorno allorché l'uno perderà del tempo sull'altro." E quel giorno era già arrivato.
Tutto si svolgeva perfettamente ed il giorno dopo la mia contentezza si accrebbe ancora di più, in quanto Pascal (Jules) vinse la sua tappa a Nantes ed il nostro abbraccio la sera fu gioioso e bruciante: un piacere immenso. Quelli che non erano là quel giorno, all'interno dell'albergo dove tutto trasudava amicizia e fratellanza, dovranno faticare molto tempo per avere davanti agli occhi la definizione di felicità comune , secondo me c'era di un'autenticità impressionante.
Le vittirie di tappa si erano succedute, Barteau era sempre in giallo, io mi sentivo, più di sempre, il favorito e la sera il nostro calore comunicativo irradiava tutto al nostro passaggio, che chiedere di più alla vita ciclistica?
Il superamento dei Pirenei, senza Aubisque e Tourmalet doveva mettere Hinault in una condizione di dubbio ancora più palpabile ed infatti all'arrivo di Guzet-Neige, dopo aver scalato i colli del Portet-d'Aspet, del Core e del Latrape, sotto un calore enorme, tappa vinta da R. MIllar davanti al colombiano Lucho Herrera, il quadruplo vincitore del Tour dovette concedermi altri 52 secondi. E considerando che avevo attaccato solo a 3 Km dall'arrivo e senza veramente forzare ...
Mi immagino che il Tasso si trovasse molto infastidito dalla mia facilità dimostrata su tutti i terreni, ma lui non intendeva per nulla riporre le armi, anzi ... Ed infatti il giorno dopo fu protagonista di un improbabile, per non dire patetico, tentativo di fuga e lui, che andava avanti soprattuto grazie all'orgoglio, si ritrovò tutto solo verso Blagnac, dopo soltanto 60 Km di corsa ... una follia pura! Non era né il luogo (piatto) né il momento (spirava un forte vento) per una fuga solitaria, ma Hinault, si fece prendere la mano da quest'atteggiamento ed insistette per circa 20 Km: disastro dell'ambizione. In nessun momento ci eravamo preoccupati, anzi eravamo ben contenti di lasciarlo là un po' di tempo e rivenire su di lui con calma quando avremmo voluto e ... approfittammo dell'occasione anche per mettere in orbita Pascal Poisson e conquistare così la nostra quinta vittoria di tappa.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 20/09/2009 alle 15:15

Nous étions jeunes et insouciants (XXX)

A Rodez la nostra superiorità cominciò a diventare umiliante per tutto il gruppo: P.H. Monthéour lasciò sul posto i suoi compagni di fuga D. Garde e K. Andersen, arrivando alla sesta vittoria di tappa. Quando lo decidevamo, ci lasciavamo dietro i vinti sparpagliati e depressi perché non potevano fare niente contro il nostro regno assoluto. I giornalisti avevano ormai da tempo girato le loro giacchette ed ogni giorno cercavano nuovi superlativi per descrivere gli atti degli atleti dai colori di vespa. Ormai l'insetto pungeva tutto quello che vedeva muovere.
L'ingresso alle Alpi passava da Grenoble in una tappa agitata dove non ero in gran forma, ma che non modificò i miei piani. Durante la giornata di riposo, che servì per distendermi, passai parecchie ore nella mia camera e riuscii addirittura a liberarmi di quel poco stress che era dentro di me, prima di affrontare la crono(quasi scalata) di 22 Km verso la Ruchère-en-Chartreuse. Per quel genere di percorso non avevo quasi nessun punto di riferimento, perché mi ero testato soltanto una volta alla Vuelta. Si trattava di una salita secca, brutale di 10 km, per una cronometro, ma, anche se partivo senza sapere su come mi sarei comportato, mi sentivo comunque bene sia per quanto riguardava la forza, che l'aspetto psicologico. Alla fine, quindi, non fui sorpreso di vincera la tappa, ma mi attendevo una prestazione meno importante, ed invece ero riuscito a domare completamente quel genere di corsa: da un lato avevo staccato i passisti come Hinault e Kelly e dall'altro avevo tratto vantaggio sui puri scalatori nel primo tratto di falsopiano e li avevo respinti così lontano, da non poter temere sorprese. In ogni modo solo quattro, fra loro, erano riusciti ad andare più forte di me nei dieci Km. finali. All'arrivo avevo preso 23 secondi di vantaggio su Herrera, 32 su Delgado e 33 su Hinault, che si allontanava ancora in classifica.
Ho un ricordo preciso di quanta gioia ho provato quel giorno: Barteau era sempre in giallo, anche se purtroppo la clessidra lasciava defluire gli ultimi granelli del tempo, inesorabilmente; non lo sapeva ancora, ma aveva vissuto il suo ultimo giorno sul podium, ed io vivevo una specie di stato di grazia, dovuto forse anche alla giornata di riposo e possedevo una voglia divorante, totale, assoluta e sono anche un po' imbarazzato a dirlo, ma mi sentivo invulnerabile. E' una sensazione della quale non ci si rende conto bene sul momento, un forma che raggiunge l'apogeo e che magari per il resto della vita non sarà più raggiungibile.
A partire da quel giorno, C. Guimard entrò in scena ancora più energicamente, perché aveva compreso che potevo vincere tutte le tappe, ma si impegnò in modo tale da obbligarmi a temporeggiare e per me erano molto sorprendente vederlo comportarsi così, mi sembrava surreale! Aveva ai suoi ordini la squadra più forte del mondo e l'unica cosa che sapeva dire era : "calma, attendete, lasciate fare ..." Per chi non era in grado di capire, tutto ciò era sconcertante, ma la sua capacità scientifica gli consigliava quell'atteggiamento, perché temeva un errore fatale, un giorno di crisi, una "frigale" o chissà che altro. Invece di confortarlo, la mia facilità lo inquietava ed il mio stato di forma gli pareva temporaneo, il fatto che fossi tutti i giorni pronto a ... non riusciva a capirlo, pur essendo estremamente semplice. Forse l'esperienza del Giro, poche settimane prima, l'aveva vaccinato dai facili entusiami e ad aveva ancora paura di farsi trascinare all'ottimismo che poteva far girar male una corsa che non poteva nemmeno pensare di perdere.
L'Alpe d'Huez del giorno dopo la crono lo rendeva sospettoso e tutto il giorno è stato al mio fianco per impedirmi di lanciare un'offensiva troppo presto. Io avevo "le formiche nelle gambe" (nota: modo di dire per significare che si è impazienti di partire) e lui ripeteva, come un metronomo: "Non ancora!" Fu un eccesso di prudenza che non potrei certo rimproverargli, anche se ...
Perché Hinault non aveva ancora abdicato ed in questa tappa passò all'offensiva sul colle del Coq e poi, dopo che lo avevamo facilmente ripreso nella lunga discesa verso Grenoble, attaccò di nuovo nella còte di Laffrey tre volte di seguito. Non avevo nessuna difficoltà a replicare a quella guerriglia, però mi dava noia il non rispondere ed allora per calmarmi ho spinto un po' sui pedali e sono rimasto molto sorpreso di constatare che Bernard non era in grado di seguirmi; pertanto ho proseguito nel mio sforzo e solo Herrera è riuscito a rimanere con me fino alla vetta. Ho anche guadagnato 40 secondi nella discesa ed anche questo mi aveva sorpreso, perché non avevo la sensazione di andare forte.
Nella valle Hinault arrivò fino ad un minuto di ritardo, ma poco prima di Bourg-d'Oisans, riuscì a rientrare e, senza attendere l'inizio della salita, in piano credette opportuno rilanciare un tentativo alla sua maniera: spalle in movimento e viso ermetico come sempre.
Quando l'ò visto alsarzi sui pedali ed andarsene in quella strada completamente diritta, mi sono messo veramente a ridere e non interiormente, era più forte di me, perché il suo atteggiamento era aberrante; quando ci si fa lasciare la prima regola è di approfittare della pianura per "superare la crisi", ma Bernard era troppo orgoglioso e voleva fare tutto con "panache", anche se la sconfitta era sicura in partenza!
E l'inevitabile si verificò e sulle prime rampe dell'Alpe l'ò raggiunto, però nel frattempo, Herrera aveva preso un vantaggio di cinquanta metri. Guimard è venuto a parlarmi per dirmi di andare più piano: non dovevo prendere più di una trentina di metri sul Tasso, perché voleva che qiuest'ultimo scoppiasse completamente e fu proprio quello che accadde. Hinault entrò progressivamente in crisi e terminò la corsa con un passivo di 3 minuti e in uno stato prossimo alla depressione. E sapete che dichiarò meno di due minuti dopo aver tagliato la linea, in uno stato pietoso? Oggi ho fallito, ma non smetterò mai di attaccare finché non saremo a Parigi. Incredibile Hinault.

 

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(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

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Livello Greg Lemond
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  postato il 21/09/2009 alle 15:32
Nous étions jeunes et insouciants (XXXI)


Ma il mio problema quel giorno fu un altro, perché nel momento in cui Guimard venne a dirmi che potevo spingere, era troppo tardi per la vittoria di tappa. Herrera preservò 49 secondi e mi privò del prestigio dell'Alpe . Quella sera presi la maglia gialla, che era appunto il mio obiettivo, ma come potevo immaginare quel giorno che mai nella mia vita avrei vinto in quel posto "mitico" per un corridore? L'eccesso di prudenza di Cyrille mi aveva fregato e da allora mi sono accorto che nello sport, come nella vita, non bisogna mai lasciar passare le occasioni!
Alla televisione, durante l'emissione di J. Chancel l'episodio del contrasto con Hinault diventò piuttosto polemico. Alla domanda su che cosa avessi provato quando il Tasso aveva attaccato poco prima dell'Alpe, io, senza riflettere ed anzi aggiungendo la mia "crudezza" alla situazione già brutta di Bernard, ho risposto: " Mi sono messo a ridere." Certo dicevo solo la verità e non volevo essere cattivo, ma questa frase fu ampliata ben al di là del ragionevole e tutti credettero che io mi divertivo a prendere in giro il mio ex capitano. Ma non era così, perché io non volevo mai mancargli di rispetto e meno male che Hinault l'à capito e non ha reagito. Ormai per lui era finito tutto e quando ci siamo trovati a parlare, siamo stati d'accordo che la nostra era una battaglia leale, non c'erano mai stati colpi sleali e non ce ne sarebbero stati neppure in futuro, perché né lui né io eravamo dei partigiani dei "colpi torti".
La sera dell'Alpe ho mantenuto le mie abitudini e, siccome un mio compagno era riuscito ad avere un appuntamento con una Miss Francia (ufficiosa), e aveva bisogno della mia camera, gli ho subito dato la chiave senza, nemmeno allora, rflettere. E gli sono servito anche come alibi per Guimard, che lo stava cercando da per tutto. E' andato con due giornalisti, ho detto a Cyrille, anche se il D.S. non ha creduto minimamente a questa grossa menzogna.
Fra B.d'Oisans e La Plagne nella salita finale ho stracciato tutti, pur accelerando da seduto: un semplice colpo di reni e non c'era più nessuno alla mia ruota, era anche troppo facile ed un tale sentimento di dominio mi poteva anche far girar la testa.
La mattina stessa sull'Equipe, B. Tapie dichiarava: "Voglio Fignon!" Due giorni dopo, in conferenza stampa, osavo confessare che:
"L'anno prossimo, forse, io ritornerò nell'anonimato, però quanto avevo vissuto l'anno scorso era stato un sogno e quindi quest'anno mi attendevo quello che poi è arrivato." Al sentire queste parole molti pensarono chemi fossi "montato la testa, ma sarebbe stato ridicolo crederlo, era che ho sempre odiato l'ipocrisia e le "lingue di legno" (nota mia: tipo Cunego ), però mi accorgevo ogni giorno di più che la sincerità si rivoltava sempre contro di me (nota mia: Riccò e Di Luca imparate ). Fra l'altro io non facevo dichiarazioni in un solo senso, era una specie di miscuglio di sicurezza e di modestia ed infatti potevo dichiarare nello stesso giorno: "Diventerò un grande? Non ho nessuna idea a tal proposito, mentre qual che so e che tutto avrà fine un giorno. Guardate Hinault: ha quasi vinto tutto, due anni fa lo si riteneva invincibile, mentre oggi non è più tale. Allora qual è la verità? E soprattutto come si deve fare per mantenersi al livello più alto?"
Ero al massimo del trionfo e mi sembra che queste parole siano piuttosto lucide e perché allora mi si faceva passare per ... non capisco proprio l'atteggiamento di certi giornalisti.
Fra La Plagne e Morzine ho tentato di tutto, anche di stabilire la sorte degli altri. Nel colle del Joux-Plane ho voluto partire insieme a Lemond in un'offensiva di vasto respiro affinché lui potesse diventare secondo in classifica, davanti a Hinault, ma non mi ha potuto seguire. Il giorno dopo, sulle rampe di Crans-Montana, ho fatto di tutto affinché Pascal Jules vincesse la sua seconda tappa in quel Tour, ma A. Arroyo e P. Wilches gli erano troppo superiori ed allora ho dovuto vincere io.
Sono ben cosciente che avevamo vinto molto: dieci in tutto per la Renault (cinque io) e che quella era un forma di paradiso sportivo e quindi noi ridevamo di continuo e l'ambiente era idilliaco. La storia ci dice anche che ho vinto l'ultima crono, ma ciò che ricordo di essa era che fra me e S. Kelly la differenza fu di 48 millesimi di secondo.
La sera dei Campi Elisi i commentatori si sono messi a sciorinare diverse impressioni. Avevano assistito ad una "vittoria totale", confrontabile, scrissero altri, a quella di Merckx nel 1969. I miei sentimenti profondi erano più bilanciati e più confusi probabilmente e non rammento neppure un attimo nel quale avessi creduto di essere entrato nella leggenda. Il mio dominio era stato talmente ... che molti giornalisti andavano avanti con le statistiche e mi domandavano con grande serietà quanti Tour avevo in mente di vincere ancora? Io non ero certo in questo stato d'animo, cioè non pensavo al futuro con certezza e, tuttavia, assalito di continuo da queste domande, una volta mi ero trovato a rispondere "Ne vinco cinque o sei o poi smetto!"
Occorre cercare di capire: alla fine di luglio del 1984 nessuno mi poteva battere in un G.T., mi pareva una cosa evidente, per cui questa idea metteva radici a poco a poco in me e mi faceva aspirare a vincere tutto, perché avrei dovuto dubitare proprio io del talento che tutti mi riconoscevano?
Ciò detto, restiamo seri, anche nel 1984 non ero Bernard Hinault, perché lui era più completo, miglior passista, maggiore capacità di soffrire e non era quasi mai malato all'inizio di stagione (con il freddo) e poi io non possedevo il suo orgoglio, né il suo temperamento. Ed infine non dimentichiamo mai una cosa importante: "Non avevo la classe di Bernard Hinault." Per me ciò era chiaro e netto.
Essere dominante non mi faceva perdere il senso della realtà, il gusto della vita e i piaceri fondamentali.
In bici tutte le figure impallidiscono e gli effetti di moda non durano molto, la bici è la nuda verità.

(Nota mia: siamo arrivati a circa la metà: 203 pag. su 395

 

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Fanno festa i musulmani il venerdì
il sabato gli ebrei
la domenica i cristiani
...
e i barbieri il lunedì

"Per principio rifiuto di sottopormi a questi controlli. Non sono ostile alla lotta al doping, che ritengo indispensabile tra i dilettanti, ma nel caso di professionisti è differente. Dopo 12 anni di carriera io so quello che devo fare e non voglio che una mia vittoria venga messa in dubbio dalla fantasia delle analisi".

(Jacques Anquetil, 4 maggio 1966, intervista a L'Équipe)

Non riesco a comprendere perché Morris non sia assunto da nessuna rete telvisiva come opinionista

 
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