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Autore: Oggetto: Ferdinand Bracke, il vallone gentile.

Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




Posts: 4217
Registrato: Oct 2003

  postato il 16/03/2008 alle 02:54
Ieri ho passato al Museo del Ciclismo Gino Bartali, una settantina di ritratti di ciclisti italiani e stranieri di ogni epoca. Fra questi, un corridore, Ferdinand Bracke, verso il quale mi sento in colpa: perché l’ho involontariamente sottostimato e poi, perché a causa di un errore svolto nei copia incolla dei file, là dove è stato pubblicato, è saltata una parte importante della sua carriera, come il record dell’ora….
Qui, anche se interesserà poco o nulla, come una forma di recupero, ripropongo, con l’aggiunta di una riflessione inedita, la sua monografia...


FERDINAND BRACKE
Nato il 25 maggio 1939 ad Hamme Durme (Belgio). Passista. Professionista dal 1963 al 1978, con 41 vittorie su strada.



Uno stereotipo di passista per costituzione fisica e traduzione tecnica. Uno dei più belli e composti in bicicletta, fra quelli dalle lunghe leve, che abbia mai visto. Ed era fin troppo logico che il cronometro esaltasse quelle qualità, ma Ferdinand Bracke non è stato solo questo. Fra strada e pista ha raggiunto un più che buon curriculum e la sua longevità, grida a capacità atletiche rare. Ciò che gli è mancato, in particolare, era quel summa di determinazione e cattiveria agonistica che può fare la differenza nei momenti topici. Se i suoi centri nervosi fossero stati scavati dalla volontà, il palmares di Bracke, ne sarebbe uscito più fiero e privo di particolari rammarichi.
Nell’osservatorio, qualcuno ha evidenziato un suo limite fisiologico nel resistere alle tre settimane delle grandi corse a tappe. Può esserci del vero, ma è altrettanto vero che Ferdinad, ha vinto una Vuelta sconfiggendo un certo Luis Ocana, proprio nell’anno di grazia dello spagnolo, ed è stato ad un passo dalla vittoria al Tour de France. Proprio in questa occasione, più che un limite fisico, è emersa, a mio giudizio, una inadeguatezza psicologica.

A confortare questa mia tesi, anche certe sconfitte su pista nell’inseguimento, dove era inimmaginabile, per uno come lui, il calo fisico. Memorabile la sua sconfitta al cospetto di Leandro Faggin ai mondiali del 1965 a San Sebastian, quando scialacquò un vantaggio di un secondo in una sola tornata. Crollo fisico? Direi di no, perché in quella occasione, pur partendo coi favori del pronostico e forte della vittoria nell’anno precedente, non dimenticò di temere la grinta pazzesca del ben più brutto pedalatore padovano, soprattutto voleva sciogliergliela prima che acquisisse convinzioni di recupero. Voleva annichilirlo. Partì così come non doveva fare, a tutta, andando fuori giri, ma solo quando gli segnalarono che l’indomito italiano stava recuperando pur ancora a distanza, crollò. Fu una sconfitta bruciante che perdurò anche l’anno seguente, nella finalissima di Francoforte. E dire che fra i due ci stavano un paio di secondi di differenza potenziale, un abisso per una gara di inseguimento. Comunque il gentile e signorile Bracke, i suoi due titoli mondiali (’64 – ’69) nella specialità li vinse, quattro volte giunse secondo, ed una volta terzo. Non si dice un’eresia se si afferma che una sua presenza sui velodromi nella specialità amica, lo costringeva, giovane o vecchio che fosse, al ruolo di uomo da battere.

Ed a laureare le sue grandi doti di pedalatore, per stile, concretezza e traduzioni, giunse un traguardo che, negli anni umani della storia del ciclismo, giganteggiava: il record dell’ora.
Il 30 ottobre 1967, al Velodromo Olimpico di Roma, Ferdinad Bracke, annichilì tanti (ed in specie un vecchio Anquetil che, su quel primato, ci aveva fatto una passione), percorrendo nell’ora 48,093 km: primo atleta della storia a superare una barriera, quella dei 48 chilometri che, al tempo, si credeva parametro dei limiti umani.
Lo spilungone vallone l’aveva fatta grossa e chi, dopo di lui, provò quel record, per decenni pensò, prima di tutto, di avvalersi dei vantaggi dell’altura. Bracke dunque, segnò il confine fra i record cercati a livello del mare, magari sulle magiche piste in legno del Vigorelli e dell’Olimpico, ed i viaggi in quel di Città del Messico, a 2500 metri di altitudine.
Insomma, Ferdinand non fece un record nella norma dei record, ma qualcosa di molto serio, come del resto dimostravano i 746 metri percorsi in più, rispetto al grandissimo Roger Riviere.


Sul Bracke stradista.
Esattamente come Anquetil, il vallone era ancora indipendente quando vinse il Gran Premio delle Nazioni per professionisti, ed anche questo rappresenta un dato indicativo delle qualità di Ferdinand.
Fra le sue vittorie negli anni sessanta, sono da ricordare: il GP di Lugano a cronometro (’64), tappe alla 4 Giorni di Dunkerque (’64-’69), Midi Libre (’64-’69), Circuito Provenzale (‘64), Giro del Delfinato (’69), indi il Tour de Haute-Loire (’65), il Trofeo Baracchi in coppia con Merckx (’66 e ’67), la prova a cronometro della scalata del Montjuich (’66), una frazione del Giro del Belgio (‘66), la tappa di St Etienne al Tour de France ‘66, il GP d’Europe Cronocoppie (con Vittorio Adorni) nel 1968, ed una tappa alla Parigi Nizza ’68. Ma quegli anni Bracke li ricorderà soprattutto per l’occasione persa al Tour del 1968, quando si presentò alla decisiva cronometro finale di 55 chilometri (Melun -Parigi-La Cipale), con un ritardo di 1’56” da Van Springel e 1’40” da Jan Janssen. Un distacco sensibile per uno normale, non per uno specialista delle lancette come lui. Soprattutto, perché aveva corso il Tour al risparmio, dietro le quinte e si pensava avesse ancora tanta birra per il rush finale. Invece, chi era dato meno specialista, ovvero l’olandese Jan Janssen, sciorinò il meglio, mentre l’atteso e comunque dedito alle lancette Van Springel corse in maniera incolore. Ancor più sbiadito fu proprio Bracke, che guadagnò sì il podio, ma in quella singola prova, si fece battere anche dal connazionale e dal francese Pingeon, prendendo dall’olandese quasi un minuto e mezzo.
Ma le grandi corse a tappe, gli portarono il sorriso negli anni settanta.
Ferdinand Bracke, infatti, dopo un ’70 dove vinse solo una tappa della 4 Giorni di Dunkerque e la semiclassica Liegi-Tongrinne, diede il meglio nel ’71, piegando senza vincere una tappa, il connazionale occhialuto Wilfried David e il favorito Luis Ocana alla Vuelta di Spagna.
Un risultato sorprendente, colto a 32 anni, che premiava la sua regolarità ed i suoi buoni valori. Dopo quel successo, continuò a vincere nonostante le primavere assumessero i rilievi di un vecchietto.
Notevoli i suoi successi nel GP Cerami nel 1973 e nel GP di Monaco nel 1974. L’ultimo centro lo conquistò a Ottignies nel 1978, a 39 anni compiuti. Si ritirò nel febbraio del 1979. Nel suo palmares anche diverse Sei Giorni.
Insomma, un gran bel corridore, anche se non un campione di prima grandezza.


Un piccolo ricordo personale.
Aldilà della TV, vidi in azione Ferdinand Bracke, tre volte: nel Trofeo Tendicolo Universal di Forlì, poi divenuto G.P. Terme di Castrocaro. La sua pedalata rotonda ed armoniosa mi colpì, ma nonostante fosse uno specialista del cronometro non brillò mai nella manifestazione forlivese. Anzi, fu alquanto deludente. Nel 1963, finì settimo a 9’15” da Ercole Baldini; nel 1965 chiuse quinto, a 7’56” da Jacques Anquetil e nel 1967 addirittura nono a 8’48” da Felice Gimondi. Nell’ultima occasione, quando avevo dodici anni, approfittando della mia fortunata collocazione lungo la salita di Massa, un tratto dove i corridori li vedevi veramente da vicino, provai più o meno correttamente, all’indirizzo di Bracke, l’unica frase in francese che mia sorella, maestra, mi aveva insegnato (alle medie studiavo, o meglio, provavo, l’inglese): “Alè Ferdinand, si tu veux des six grands!”. Ricordo il suo sguardo sorridente all’indirizzo del bambino sottoscritto. Ebbi la sensazione che il suo impegno fosse alquanto relativo. Oggi, a distanza di quasi 40 anni, con l’esperienza che mi sono fatto in questo sport, potrei dire che ne ho quasi certezza. In fondo, anche allora, c’erano corse dove l’ingaggio, superato il punto di efficienza massima della corsa, diveniva l’unico fattore di professionalità. Un atteggiamento che ha coinvolto praticamente tutti i grandi, almeno una volta, salvo un atleta, guarda caso grande amico di Ferdinand: Eddy Merckx. Lui correva davvero a tutta, sempre. E se si fosse nutrito della dieta di un certo signore, la Terra, oltre alla Luna, avrebbe scoperto un altro satellite!


Bracke oggi.

Così...dagli ultimi tempi, una riflessione....
Quando lo guardavi, avevi l’impressione di vedere al posto della maglia, una camicia bianca e, nelle inserzioni pubblicitarie, una cravatta. I pantaloncini e le relativa parte nuda delle gambe, non si notavano: erano pantaloni neri, rigorosamente legati al punto vita, da un cinturino. In altre parole, era un ragioniere di banca stereotipato.
Precisino, mai una parola in più, con un sorriso più accennato che visibile e una cordialità vissuta come una forma di difesa. In realtà lui era così, persino sincero, visto che in banca, la sincerità, lascia posto ad un insieme strisciante di ipocrisie, falsità e cattiverie.
No, Ferdinand, del bancario aveva solo l’aspetto. Veniva da una terra che ha conosciuto il lavoro più umile come un riferimento per i poveracci d’Europa, in primis quegli italiani che oggi gridano al per loro untore col coltello dalla carnagione più scura, venuto nel falso Bel Paese, per seminare criminosità, dimenticando che i primi a spargersi nel mondo, come migranti disperati, sono stati loro. Bracke, vivendo ad uno starnuto dalle miniere, non poteva dimenticarlo, ed era davvero sincero, addirittura buono per quello sport che, se non abbraccia un po’ di cattiveria, ti preclude troppi vertici.
La bicicletta era venuta a lui per portare il pane ed il latte, quando ancora la barba era un sogno e le sue lunghe leve gli avevan detto, che era uno strumento per darsi un segno di notorietà vallone.
No, lo spilungone naturalmente magrissimo, non era uno qualsiasi.
Ti sussurrava alle orecchie, la sua discreta voglia di far vedere che era un airone, poi si accontentava di darti un lampo di bellezza e quel triangolo d’acciaio su cui si poggiavano due ruote, a suo modo, lo ringraziava, perché più che spingere e calpestare i pedali e gli attriti, pennellava il suo credo.
Mi son sempre chiesto perché non sono mai riuscito ad osservarlo meglio, questo Ferdinand che amava la circospezione, poi ho capito che la discrezione a volte fa dei brutti scherzi, soprattutto cancella gli aloni dell’evidenza, confondendoli con la strana nebbia di un ovvio che non sai da dove parte e dove giunge.
Mi sono entusiasmato su tanti, anche lontani dai pedali, eppure l’agnomen Bracke, che da bambino mi faceva ridere nell’innocente sciocchezza dei pochi anni, m’è come passato sotto il naso senza nemmeno provare quel prurito che almeno di porta a spingere le mani ad uno strofinio.
Caspita, caro Ferdinad, con te sono stato avaro. E dire che l’esaltazione poteva pur trovar dimora, per la bellezza del tuo passo e la splendida macchina che il tuo corpo intonava, donando cavalli motore a quelle ruote.
Un giorno ti vidi nel tridimensionale, non in quello ascetico di uno schermo: portavi gli occhiali degli anni, avevi qualche chilo in più, ma non troppi come i miei, ed i tuoi capelli s’erano quasi convinti che anche per loro fosse tempo di porporina. Ti riconobbi subito, ma fui, anche in quell’occasione, incapace di dirti: “Buongiorno, è un piacere vedere dal vivo un campione”.
Mi lasciai andare sull’onda del convivio d’intorno e di quelle conviviali sulle quali, ormai, il mio corpo, vinto dagli addominali dall’interno, si distribuisce con la naturalezza che, in gioventù, era tale solo se s’accoppiava con la corsa. Beh…caro Ferdinand, almeno dissi ad Eddy che ti stimavo. Almeno quello!
Sì, lo so, siete amici tu e lui, ma io che avevo l’occasione di pormi in mezzo come vertice della “V”, a quella coppia che mi entusiasmò nel “Baracchi” che mai mi perdevo, non l’ho fatto. E tu, signorile vallone, onesto al credo dello sport, silenzioso ed armonico pedalatore di un mezzo oggi sfregiato dagli imbecilli, sei passato davanti a me ancora una volta, senza che ti venissi a stringere una mano e dirti, fin lì ci arrivo: “Mercì beaucoup”!

Morris

 

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Livello Fausto Coppi




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  postato il 16/03/2008 alle 10:59
Qualche pillola di nostalgia :
Tour 1967, l'ultimo per squadre nazionali.
Il Belgio allineava, come l'Italia, due squadre.
Adriano De Zan, nell'illustrare il campo partenti:
" Il Belgio schiera 19 fiamminghi ed un vallone, Bracke".
A 41 anni di distanza quella frase ogni tanto, per dirla con Mogol, mi ritorna in mente.
Ed anche pensare che Ferdinand è alla soglia dei 70 mi fa un certo effetto.
Grazie Morris, come sempre.

 

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nino58

 
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Livello Fausto Coppi




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  postato il 16/03/2008 alle 20:48
ti ringraziai per la prima versione , che feci leggere a mio padre, grande tifoso dello stiloso vallone, e che molto apprezzò il tuo ritratto..
ora mi tocca stampare questo aggiornamento.... e te ne sono grato , caro morris, sommo maestro

mesty

 
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Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




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  postato il 16/03/2008 alle 23:07
Caro Nino, pensare a Bracke 69enne, da un peso enorme ai miei 53, ed al tuo ormai vicino mezzo secolo....
Però, a pensarci bene, di grandi campioni ne abbiam visti....


Caro Mesty, è un dovere!

Per tuo padre...

Gaul: "Bracke aveva sempre la stessa faccia. Non posso dire di essergli stato avversario, ma battere uno così signore, ti toglieva il sugo alla pasta".

Baldini: "Ferdinand, bello da vedere e forte. In certe giornate per batterlo dovevi essere davvero un treno! E non semore bastava. Gentile? Certamente, un signore".

Merckx: "Un campione, ed un amico".

Note raccolte qua e là:
Ferdinand Bracke, poteva pure tentare qualcosa nelle classiche, ne aveva i mezzi, ma il gomito a gomito, non era nelle sue orbite.
Oggi cosa avrebbe potuto fare uno come lui?
Paradossalmente di più del già tanto che fece, anche considerando i suoi probabili limiti caratteriali...
La prova? Basta vedere cosa sta raccogliendo Cancellara.
E nei GT?
Col suo peso già naturalmente avviato ai credi odierni, uno probabile ai podi. Anche tenendo conto dei limiti già citati.

Ciao Mesty.

 

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Livello Fausto Coppi




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  postato il 16/03/2008 alle 23:29
Non ho capito una cosa: era solo debole a livello mentale o Bracke mal sopportava anche il 'confronto' con gli altri corridori, insomma era uno un po' impacciato in mezzo al gruppo, oppure ancora non aveva la cattiveria necessaria per batter gli avversari?

 

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Livello Fausto Coppi
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  postato il 17/03/2008 alle 23:48
Originariamente inviato da Subsonico

Non ho capito una cosa: era solo debole a livello mentale o Bracke mal sopportava anche il 'confronto' con gli altri corridori, insomma era uno un po' impacciato in mezzo al gruppo, oppure ancora non aveva la cattiveria necessaria per batter gli avversari?


Ferdinand Bracke, non era certamente un kamikaze sulla bici, ma il suo non era un “impaccio” tecnico. Caratterialmente, era un “agonista buono”, ed il gomito a gomito da me citato, si riferiva al fatto che, un conto è correre da soli contro un avversario “immaginario” come a cronometro, ed un conto, è sentire e vedere la determinazione degli altri accanto a te, in una corsa di gruppo. Si tratta dunque di un aspetto mentale che, per quanto possa essere non marcato, crea alla lunga delle differenze che possono essere quantizzate di quel tanto che ti fa emergere di meno, o, se vogliamo, che ti rattrappisce il palmares. La storia delle discipline sportive, è piena di esempi di tal tipo.

Lo sport è un esercizio di testa, prima ancora che di gambe. Lo diceva il grande Giorgio Oberweger, nel profondo degli anni cinquanta, ed aggiungeva che il giorno in cui qualcuno sfonderà il conosciuto dei centri nervosi, troverà la “bomba” (allora il doping lo si chiamava così), più naturale e redditizia. Oggi, alla luce dello stesso doping genetico, questo aspetto, rappresenta un baluardo naturale che può consentire differenze di prestazioni, anche di fronte ad atleti perfettamente modificati muscolarmente. Un esempio di quanto detto, ci viene dall’attuale possibilità di verificare differenze nella capacità di lavorare in lattacido. Ci sono atleti con una soglia altissima, raggiunta magari tramite additivi, che non riescono a permanere più di tanto nella fascia anaerobica, puntualmente superati da colleghi con soglia più bassa, ma bravissimi a rimanere in lattacido. Non si è ancora data una spiegazione percepibile e inconfutabile a questa constatazione.
Marco Pantani, ad esempio, la differenza la faceva nella fascia anaerobica incredibile e in un recupero che strabiliava fin da quando era un ragazzino. Nella fatica eccelleva. Non si sa il perché e non si spiega nemmeno mettendo tutto il doping possibile. Si tratta dunque di talento (questo “scherzo di natura”, come qualcuno l’ha definito), ma anche di fattori mentali, che non siamo ancora in grado di spiegare, proprio perché il nostro cervello è “troppo” sconosciuto: basti citare che un’equipe di scienziati australiani lo sta mappando e c’è chi dice che la parte conosciuta, sia solo un ottavo della sconosciuta. Quante facoltà si nascondono in quell’area?
Dunque, la “testa” è una componente tanto presente, quanto ancora non sufficientemente determinabile nelle proiezioni.

Voglio però farti un altro esempio, se vogliamo ancor più vicino al tratto e all’approfondimento che un atleta come Ferdinand Bracke, involontariamente, ci dona. Stavolta prendiamo in esame le letture che ci vengono da un’arte marziale popolare, come il karate. Se ci si trova in palestra trenta ragazzi, tutti praticanti l’interstile (la filosofia che contempla l’intero ventaglio dell’agonismo in quest’arte), tutti giunti alla cintura marrone, ovvero la classificazione dove le tecniche sono già ad ottimi livelli e si vuole verificare i più adatti al kumite (combattimento), o al kata (combattimento contro un avversario immaginario), un buon maestro capirà ben presto quanti e quali sono indirizzabili a l’una o l’altra versione. Lo vedrà, attraverso carotaggi nemmeno molto lunghi e scoprirà che molti dei più “stilosi” sono adatti al kata, se vogliamo in una percentuale attestabile all’incirca sui due terzi. Gli altri sono temprabili anche per il combattimento vero del kumite. Temprabili?
Sì, perché in una disciplina come quella, dove tutto è portato all’estremo come una corda di violino, la stessa effettuazione di una tecnica, sente e vede se c’è quel freno dettato da un piccolo, piccolissimo, fastidio, o disagio, mentale, consistente nella somatizzazione della paura o della preoccupazione, nella cattiveria ed in quel rispetto che, spesso, si combinano come fossero in simbiosi. Lo si può verificare nell’allungamento di un arto, nella prontezza di una risposta, nella posizione dei piedi, quasi sempre la parte del corpo che, più di tutte, percepisce nel karate l’azione della mente. Bene, senza voler togliere nulla al valore del kata, proprio in quanto forma di combattimento immaginario, consente di sviluppare le tecniche di difesa e di attacco senza l’imprevedibilità della presenza, della determinazione e della fantasia, di un karateca reale. Ed è così che, tendenzialmente, i più puliti e belli, si esalteranno nel kata, vista come forma suprema di stile, senza pericoli e con cattiverie finte, recitabili in un combattimento teorico, ed i meno belli, ma più tosti, più “duri” e fantasiosi, per taluni aspetti più coraggiosi, si ritrovano a dare il meglio contro un avversario reale. Alla fine, i trenta ragazzi, diverranno cinture nere e karateca veri, ma su due poli diversi, perché questa disciplina consente un simile distinguo. Rispettabili tutti, ma con differenze che non possono non notarsi.
Nel ciclismo tutto questo non è possibile e, nel momento tipico dell’agonismo, quelle piccole differenze di determinazione, si possono e potranno tradurre in risultati, appunto, differenti.

Ferdinand Bracke, dunque, non era un coniglio: era un bellissimo atleta, un campione, ma questo suo freno, dettato da una cattiveria agonistica inferiore, rispetto alla grandiosità dello stile, ne ha limitato il palmares. Per me è stato un gran corridore, che ricordo con sommo piacere, ma non posso non considerare, in una corretta disamina, il peso che su di lui ha gravato quella piccola pecca mentale.
Essere signori, è un pregio da uomini o donne nella quotidianità, lo è di meno nell’esaurimento dell’agonismo sportivo.

Ciao!

Morris

 

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Livello Fausto Coppi




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  postato il 18/03/2008 alle 00:14
Ma c'è uno sport che non conosci a fondo, la miseria? so che hai avuto a che fare eccome col karate ma avere poi la testimonianza è un altro paio di maniche...

Prima hai citato Cancellara: non credi che anche lui manchi un po' di cattiveria, di voglia di vincere? E' un corridore veloce anche allo sprint, ma volate non ne fa quasi mai anche se non ci sono compagni all'altezza; oggi, dopo aver ripreso Gasparotto, aveva fatto praticamente il vuoto, se avesse continuato nell'azione la tappa era praticamente sua (perchè non credo che Gaspa l'avrebbe tenuto, attualmente ma credo anche in generale Fabian è una spanna sopra), e invece ha preferito mollare, nonostante la vittoria fosse a portata di mano e la fatica non gli avrebbe compromesso alcunchè.

Quest'anno niente da ridire se vince Fiandre e Roubaix, eh?

 

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Livello Fausto Coppi




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  postato il 18/03/2008 alle 00:39
caro morris,

bracke era certamente molto bello in sella e in bicicletta ci sapeva stare.

certamente è vero quello che scrivi sulla mente , ma bracke per certi versi è un esempio davvero balzano.

per la maggioranza degli agonisti in bicicletta è più facile trovare la cattiveria nel confronto diretto della corsa: il desiderio di non farsi staccare, la possibilità di sfruttare le ruote, l' orgoglio di non voler lasciare andare via uno più forte sono molle che consentono spesso a chi è inferiore di colmare il divario di valori.

invece a crono sei solo, solo contro il dolore di andare sempre quel pelo sotto soglia che fa male , un male pazzesco, con la paura di scoppiare , senza riferimenti , senza quella spessoche spesso ti da la percezione di quello che stai facendo rispetto al tuo avversario, la consapevoleza di poterlo battere e il desiderio disperato di non cedere.

molto spesso i grandi cronomen sono stati grandi agonisti come mercks, armstrong e moser, per restare in tempi recenti.
altri nascondevano una cattiveria pazzesca sotto una stile impeccabile, come anquetil e indurain ( anche se tu non sei d' accordo sicuramente sulla cifra stilistica del navarro)..
invece , ferdinand, fortissimo a crono, spesso inferiore alle attesein linea e a tappe

davvero un particolare esercizio la crono.
forse bracke aveva una così grande classe, un così grande senso del ritmo da poter supplire ad una certa mancanza di cattiveria.
certo è che era uno strano corridore.
mio padre lo considrava un favorito per ogni tipo di corsa, non sapeva capacitarsi che uno così magro non andasse in salita come doveva, non capiva come uno così forte sul passo non potesse vincere quasi ogni classica, ai tempi in cui era ancora possibile per i campioni fare la differenza anche in pianura, quando non c' era un gruppo di " ipervitaminizzati" superabarth che tutto si mangia quando manca la difficoltà altimetrica estrema..

ciao caro

mesty

 
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