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Graffiti - Carmelo Barone
Morris - 27/10/2006 alle 00:41

[b]CARMELO BARONE [/b] [i]Nato ad Avola il 3 aprile 1956. Passista veloce. Professionista dal 1977 al 1984 con 12 vittorie. [/i] [img] http://img56.imageshack.us/img56/589/baronecarmelozk7.jpg[/img] Un talento precocissimo, che lasciò ben presto la Sicilia per trasferirsi in Toscana. Lo scopo: mettere in fila gli avversari come birilli, fino a raggiungere il massimo arco del ciclismo. Per diversi anni, l’intenzione trovò il conforto delle risultanze. Il fisico di Carmelo appariva compatto come pochi, con una muscolatura poco ciclistica all’apparenza, ed una capacità d’adattamento alla gara fuori dal comune. Le sue accelerazioni sembravano degne del passista di gran razza, magari alto almeno dieci centimetri più di lui e con le lunghe leve alla Ferdinand Bracke, mentre Barone era alto solo un metro e settantadue centimetri e le sue gambe erano più simili a quelle di un calciatore. In volata poteva reggere lo sprint con chiunque, se alla ricerca della fettuccia d’arrivo non erano troppi; mentre in salita soffriva, ma levarselo di ruota, era da gente con mille facoltà. Insomma, Carmelo Barone, da dilettante, fu uno dei più forti che il nostro ciclismo abbia mai espresso. Passò presto al professionismo, nel 1977, quando ancora doveva compiere i ventuno anni e questo fu un gran bene (come sempre d’altronde), ma poi, a parte i primi fuochi degni del passato, il resto, fu sempre più una brace in via di cenere. Nell’anno d’esordio, vinse la tappa di Martinafranca al Giro di Puglia, i Circuiti di Morrovalle e Firenze, la Coppa Bernocchi e il Trofeo Baracchi in coppia con lo svedese Johansson. Fu azzurro ai mondiali di San Cristobal, dove si ritirò non prima di aver fatto il suo dovere per la squadra che portò Francesco Moser all’iride. Nel 1978, anche per qualche acciacco, la sua flessione fu evidente: solo la vittoria nel G.P. di Montelupo, il Circuito di Castiglion del Lago e qualche piazzamento. Si rifece un poco nel 1979, grazie a molti piazzamenti e la vittoria nel Giro dell’Umbria. Fu azzurro sul circuito iridato di Valkenburg, dove si ritirò. Positivo il suo 1980, in virtù dei successi nella tappa dell’Isola d’Elba al Giro d’Italia, nel Giro del Veneto e nella Cronocoppie di Rovereto, in coppia con Francesco Moser. A queste vittorie aggiunse diversi piazzamenti. Fu ancora azzurro a Sallanches, ma per la terza volta si ritirò. Dopo il 1980, anche per tanti guai fisici, il suo rendimento crollò e si dedicò al lavoro di gregario, senza trovare più la luminosità necessaria per tornare al successo, salvo nel 1983, quando vinse il Circuito di Noto. A fine ’84, a soli 28 anni, lasciò il ciclismo. Oggi, lo si può incontrare, nel suo negozio di biciclette, a Santa Croce sull’Arno, in provincia di Pisa. [img] http://img56.imageshack.us/img56/6783/baronewj4.jpg[/img] [b]Note. [/b] Aldilà dei guai fisici che ne hanno limitato il rendimento negli ultimi anni, anche per Carmelo si può parlare di “sindrome da periodo”. Il dualismo Moser-Saronni, infatti, aldilà del peso e del ruolo recitato direttamente dai due protagonisti, fu un’autentica tragedia per i giovani talenti del periodo. I media italiani si schiacciarono sul duo, fomentando, forse non solo involontariamente, un tifo che superò, sovente, la correttezza che ha sempre contraddistinto il ciclismo. Gli altri corridori pagarono non poco quella situazione. Sicuramente si trattava di atleti di non fortissima personalità, ma emergere in quel periodo, non era facile. Ne pagarono più di tutti le conseguenze i vari Baronchelli, Visentini e Battaglin, ovvero i più attrezzati per le corse a tappe, costretti a correre il Giro su percorsi che rappresentarono i tonfi più conclamati della luminosa carriera di Torriani e dell’intera storia della Gazzetta. I citati sbagliarono a correre troppo in Italia e a snobbare, di fatto, il Tour, ma anche per i corridori non particolarmente portati per far classifica in una grande corse a tappe, quella, fu una fase dove scottarsi era all’ordine del giorno. Un corridore come Carmelo, per le sue caratteristiche, in un ciclismo come quello di oggi, avrebbe raccolto molto di più e non solo perché il gruppo odierno è fatto di atleti più modesti rispetto ad un tempo. Nonostante le idiozie dei dirigenti internazionali sulla condizione di questo sport, infatti, il ciclismo di questo tempi, perlomeno in Italia, vive l’aria pulita che insiste solo quando i media non tirano fuori il cancro ammazza talenti, del dualismo con le relative totali attenzioni. Purtroppo, all’orizzonte, si paventa una rielaborazione del Moser-Saronni con un Basso-Cunego che sarebbe un colpo mortale per la disciplina. Spero vivamente che ciò non accada. Morris


Abruzzese - 27/10/2006 alle 02:44

Ti ringrazio per avermi accontentato ;) :clap::clap::clap: Ho potuto constatare che anche lui purtroppo oltre ai problemi fisici è stato una vittima del dualismo Moser-Saronni. Mi è venuta in mente una cosa: ora non so se lì è presente un gruppo ciclistico ma così di primo acchitto mi viene da pensare che comunque le gesta di Barone non siano state dimenticate nella cittadina siracusana del celebre vino "Nero" se poi,diversi anni dopo,2 ciclisti come Paolo Tiralongo e Giampaolo Caruso entrambi originari di Avola proprio come Barone sono approdati al professionismo.


Frejus - 27/10/2006 alle 08:21

Bellissimo ritratto Morris, come sempre. Io non avevo mai pensato alle conseguenze sul resto del gruppo dei grandi dualismi. Chissà quanti altri come Barone hanno pagato dazio. E' bello notare anche che una terra come la Sicilia, priva di grande tradizione ciclistica, ultimamente sta "sfornando" un bel po' di corridori niente male. Ai sopracitati Tiralongo e Caruso c'è da aggiungere Nibali che credo sia messinese (e me ne dimentico di sicuro qualcuno)


Cascata del Toce - 27/10/2006 alle 12:19

Bel racconto Morris... Ma secondo te... in quanto e per quanto il dualismo Moser - Saronni ha provocato una mancanza di sviluppo nel movimento ciclistico italiano (ed un crollo verticale dell'immagine del Giro che da fine anni 70 al 1986 aveva del tutto dimenticato le garndi salite ed era diventata una corsa che qualcuno ha definito 'per amatori in pensione'???


robby - 27/10/2006 alle 13:43

quanto me ne ha parlato pure il mio babbo di questo Barone!!!! Grazie Morris ancora una volta!!!!! Frejus, di siciliani hai dimenticato Santo Anzà, che secondo me e proprio un bel corridore...pure Di Grande ha fatto delle belle cose in carriera arrivando nel Tour del 98 se non sbaglio nei primi 10


pedalando - 27/10/2006 alle 14:00

Caro Morris innanzitutto grazie per tutti i tuoi scritti, stupendi e propedeutici. Faccio una domanda, non per provocazione, ma per capire meglio: a differenza del periodo di dualismo Moser-Saronni e di quello che stiamo rischiando di vivere adesso (o che stiamo gia' vivendo), il periodo magico di Pantani non potrebbe aver causato un problema simile ? Ribadisco per chi e' "sensibile" a qualunque cosa si dica sul Pirata, che il mio non e' un attacco a Marco. Sono conscio che grazie a lui moltissima gente si e' avvicinata a questo magnifico sport ma, forse, un fenomeno di tale portata a impedito la maturazione di qualche altro buon talento. Grazie in anticipo per la risposta.


Frejus - 27/10/2006 alle 14:11

[quote][i]Originariamente inviato da robby [/i] quanto me ne ha parlato pure il mio babbo di questo Barone!!!! Grazie Morris ancora una volta!!!!! Frejus, di siciliani hai dimenticato Santo Anzà, che secondo me e proprio un bel corridore...pure Di Grande ha fatto delle belle cose in carriera arrivando nel Tour del 98 se non sbaglio nei primi 10 [/quote] Anche per me Anzà può fare qualcosa di buono ma chissà perchè non credevo fosse italiano. Forse notandolo solo quest'anno alla Selle Italia, lo associavo inconsapevolmente al sud america.:hammer:


Morris - 02/11/2006 alle 19:14

[quote][i]Originariamente inviato da pedalando [/i] Faccio una domanda, non per provocazione, ma per capire meglio: a differenza del periodo di dualismo Moser-Saronni e di quello che stiamo rischiando di vivere adesso (o che stiamo gia' vivendo), il periodo magico di Pantani non potrebbe aver causato un problema simile ? [/quote] Nella storia dello sport abbiamo sovente incontrato dualismi e devo dire che taluni erano pure ampiamente giustificati, o meglio, si inquadravano con più ragioni nelle attenzioni accentuate dei media. Poi, volendo guardare il fenomeno con una lente maggiore, scopriamo che solo il ciclismo ed in particolare l’Italia, han saputo costruire su una diade un contorno spasmodico ed assolutistico. Qualcuno potrà dire che la Francia con Anquetil e Poulidor ha vissuto situazioni simili, altri, più profondi, potrebbero portare persino l’esempio del piccolissimo Lussemburgo, all’epoca di Gaul e Jempy Schmitz, ma nessuno ha prodotto le asfissie che abbiamo vissuto noi. Soprattutto nessuno ha inciso sul tifo ai livelli di una emigrazione di taluni aspetti di focosità calcistica. Il dualismo Coppi-Bartali, aveva dietro le spalle la spinta di un’intera nazione che era uscita in ginocchio da un conflitto immane, ed era naturale che gli animi si alterassero. Tra l’altro lo spessore dei personaggi era di caratura primaria, superiore, per intenderci, a Moser-Saronni, ed il loro tratto non ha ucciso gli altri, basti pensare a Magni, ma anche a qualcuno che non ha mai vinto nulla, pur essendo sempre protagonista nelle corse a tappe o nelle superclassiche italiane, come “Lo Scopino di Monsumano”, Ezio Cecchi. I media di allora, di qualità decisamente superiore, per umanità e cultura, a quelli degli anni ‘80, riuscivano a trattare il dualismo con un respiro che non umiliava nessuno, proprio perché insisteva in chi più di tutti acculturava la gente, la considerazione dei tempi, con l’interna consapevolezza di vivere il percorso di conoscenza sportiva, senza assolutismi o dogmi prettamente legati al vincente. Non esisteva ancora, per intenderci, la siderale distorsione del concetto di perdente, pronto a lasciare al secondo i connotati del patacca, come diciamo in Romagna, o dello sconfitto per antonomasia. In quel periodo, il tifo per l’uno o per l’altro non scese comunque mai a livelli pesanti, all’insulto, alla pressione grave sulle strade. Con l’ascesa, voluta dalla grande industria, di imporre il calcio come sport nazionale, il giornalismo italiano è divenuto lacchè, ha dimenticato la cultura, ed ha iniziato a trattare gli altri sport coi medesimi epigoni del pallone. Nel ciclismo, il dualismo possibile, s’è così trasformato in un assolutistico modo di imporre la legge del vincente, del forte, del tifo da costruire a fasce, inserendo il protagonismo e l’intensità da riservare a queste figure, nell’ambito dei dettami che, nel calcio, andavano alla Juventus, all’Inter e al Milan. Il resto, come attorno al pallone, diveniva sacco, sparring, percorso che costruiva il successo dei soliti, o, nella migliore delle ipotesi, un fatto di folclore. Se nel football, il fatto di essere sport di squadra, legato siamese alle città, poteva e può, costituire uno scudo protettivo per i più deboli o gli esclusi dal grande circo delle attenzioni, negli sport individuali la ferocia della narrazione, va sempre dritta all’atleta, determinandone scompensi ben poco salutari alle sue prestazioni. Nel ciclismo, il giornalismo di quei tempi, cercò di scimmiottare con Moser e Saronni, quello di ben altra caratura che trattò Coppi e Bartali. Ne uscì una mostruosità ed i cosiddetti terzi, Baronchelli, Visentini e Battaglin, subirono, soprattutto i primi due, sulle strade, il tifo ravvicinatissimo di stampo calcistico mentre erano sotto sforzo. Mi ripugna portare altri esempi oltre a quello che narrai a proposito di Visentini. Erano costanti, che mi fanno ancora oggi vomitare, indipendentemente dal peso o dalle possibili colpe, recitate singolarmente da Moser e Saronni. I corridori terzi, come ho già scritto, non avevano personalità tali, o non furono indirizzati sapientemente, affinché trovassero, con la tangibilità e la convinzione necessaria, su altre strade d’Europa, spazi di successo o semplicemente più vivibili. Solo Battaglin ne ha lasciato un segno, quando già era sulla fase matura della carriera, per non dire, paradossalmente, calante. E’ altresì vero, per far capire che razza di calciomania avesse colpito il ciclismo, che nelle poche capatine di ricerca altrove, i tre, ed anche altri, venivano continuamente fischiati davanti alla TV dal pubblico moseriano o saronniano, ovvero l’85-90% del tifo esistente. Schifezze, permettimi, che non ho mai visto, calcio a parte, in nessunissima altra disciplina. Il tifo contro, nel ciclismo è nato lì, in quegli anni e devo ancora dire che mai s’è vista gente ed organizzazioni vivere e comportarsi in maniera così ignorante, dal punto di vista ciclistico e non solo. Torriani, un grande, per inseguire l’onda moseriana e saronniana, macchiò la sua luminosa carriera, proponendo Giri che era offensivo considerare tali. La TV ed il mitico De Zan, comprese le di questi spalle, in ogni occasione, sia al Giro (non si dimentichi che Moser fece un solo Tour e Saronni idem a fine carriera!), che nelle corse di un giorno, aprivano palcoscenico ai due, anche quando venivano bastonati. Spesso, era la linea della quotidiana lotta della diade, a prendere la parte principale, anche quando a vincere o ad essere protagonisti erano altri. Un teatrino patetico, ed una vergogna per il ciclismo. I giornali, come per i calciatori o le squadre più famose, riempirono i sempre minori spazi dedicati al pedale, con le puntate quotidiane di quel dualismo, lasciando le brevissime al resto, compresi grandi stranieri come Hinault che, dai due italiani, perdeva poche volte, nonché un De Vlaeminck che, pur vecchio, era ancora in grado, sovente, di superarli. Alcuni corridori di buon livello potenziale, senza le caratteristiche dirette dei gregari, vista la piega dei tempi, preferirono accasarsi alle corti del mosersaronnismo, piuttosto che rischiare la strozzatura altrove. Carriere deviate o rattrappite dunque, a cui si deve aggiungere il “peso” che gravava sulle corse di quel triste periodo, alcune delle quali, vissute con un “profumo” ben poco combaciante con lo sport. I più vecchi, qui, sanno bene a cosa alludo. Altro aspetto da non sottovalutare, la nascita costante di fans club dedicati ai due corridori, mentre ai terzi, semmai, rimaneva giusto l’appoggio degli sportivi delle proprie residenze. Un fenomeno che non ha più avuto paragoni similari, nemmeno quando è sceso in campo il protagonista della domanda che mi fai, ovvero Marco Pantani. Gli esempi sono lunghi e danno un segno evidente, di quanto quell’era sia stata dannosa e asfissiante al punto di far dire ad uno come me….. che se oggi si ritrovasse nella medesima onta, non guarderebbe più una corsa in bicicletta. Grazie a questi atteggiamenti e alla crescente caduta della qualità degli operatori del ciclismo, questo sport iniziò proprio in quegli anni, a compromettersi nelle interrelazioni con le altre discipline e nelle considerazioni più diffuse dell’osservatorio. Sono troppe le differenze dell’epopea di Marco, per considerarla in qualche modo simile a quella del dualismo Moser Saronni. Marco era un predestinato che vedevano in pochi: non aveva dietro le spalle un nome come quello di Moser, che si elevava in dinastia, o regioni forti come la Toscana o la Lombardia che sono state le culle di Francesco e Giuseppe. Era un ragazzo che concepiva la montagna, il suo pezzo forte, con la gioia di uno che lo vede sufficiente per emergere. Non cercava da dilettante le vittorie per mettere i bollini sull’ammiraglia, voleva crescere sognando il Tour, prima ancora che il Giro, seguendo i consigli di un grande come Pino Roncucci, troppo bravo per pensare di giungere, lui stesso, al mondo già contorto del professionismo. Un grande vecchio, più decorato dei più e, soprattutto, uno che voleva far passare i ragazzi nel pieno delle loro forze e non spremuti al consumo delle proprie mire. Qui, Marco si temprò nel silenzio, con dei lampi che ne dimostravano stimmate uniche, ma le racconterò in un libro previsto per il 2008. Pantani, fu il dilettante più forte nelle corse a tappe della sua eccelsa generazione, ma essendo di una regione che sta ai margini del grande ciclismo, non lo vedeva nessuno. Prima dell’esplosione di Merano e dell’eco storico dell’Aprica, l’amico Gino Garoia, fu costretto ad inviare un telegramma a Raimondo Vianello, affinchè nel processo alla tappa, dove guarda caso un certo Saronni impazzava, si desse a Marco, un minimo di spazio o almeno un accenno, vista la lunga trattazione che si dedicava ai giovani dell’edizione ‘94. Per quei media distratti e tecnicamente assai claudicanti, l’imperioso arrivo di un corridore così particolare per caratteristiche, di cui si erano perse le memorie, li costrinse ad un recupero tanto veemente quanto ancora denso di daltonismo. Marco Pantani rappresentava una rivoluzione tecnica per quei tempi, ed il valore del suo talento si mostrava tangibile attraverso un dato: nell’omologazione progressiva del passistone che stava dominando il palcoscenico, lui si esprimeva come un supremo grimpeur. Altro aspetto: arrivò e scattò in faccia, giocando al gatto col topo, con uno dei primissimi corridori a tappe della storia, come Miguelon Indurain. Di materiale per finire sui media ve ne era dunque a iosa, ma questi continuarono a trattarlo senza narrarlo per quello che realmente era e senza capire quanto fosse diverso dagli amanti del microfono e delle foto Moser e Saronni. Una cosa doveva piacergli, sentirla e magari poterci giocare senza per questo ledere i suoi colleghi di lavoro. Lui voleva essere se stesso, sempre, nel bene, quanto nel male. Il Tour ’94, pur senza donargli tappe, rappresentò la consacrazione: erano decenni che non si vedeva nessuno così superiore agli altri in salita. Ma il credito non venne dalle penne, bensì dalla gente,spontaneamente, anche da quella parte, maggioritaria, che il ciclismo l’aveva messo nel cassetto. Una volta tanto, non erano i media a pilotare le attenzioni, ma un rapporto diretto fra atleta e persone comuni. Questo aspetto è fondamentale e se ben guardiamo non ha paragoni nell’era moderna dello sport: era la gente a mettere Marco su un piedistallo unico, non il giornalista a spingerlo. Il narratore, una volta tanto,doveva andare a rimorchio. Ecco perché Pantani fu campione consacrato ed epigone massimo del pubblico non solo italiano, ancor prima della consacrazione e delle risultanze degli albi d’oro. Per capirlo, toccarlo, bastava andare all’estero e qui risparmio i tanti esempi che potrei portare per esperienza diretta nei viaggi oltre confine. In altre parole, era la rappresentazione di un ciclismo che si credeva perduto, antico e proprio perché consumatosi su quelle montagne che di questo sport resteranno perennemente la parte suprema, o il mito più tangibile, un eroe. Ciononostante, la sua epopea non fu asfissiante. A dimostrarlo ci sono dati che non si riscontrano nel periodo del mosersaronnismo. Della sua generosa generazione, prendendo il triennio classico da contenere nel periodo che va da un’Olimpiade all’altra (metro usato comunemente nello sport), ovvero nelle annate 1969-’70-’71, i campioni potenziali potevano essere oltre a lui, i vari Belli, Gotti, Casagrande Bartoli, Casartelli e Rebellin. Gli altri, come da vecchio file che scrissi in quel periodo dove seguivo molto i dilettanti, potevano essere eccezioni. Ora, a ben guardare, tutti, più o meno sono emersi, a parte Casartelli, per i motivi che sappiamo. Fra i papabili per le corse a tappe, Belli, Casagrande e Gotti, già ai tempi dei “puri”, se uno aveva occhi, inferiori a Marco, sono comunque riusciti a ritagliarsi spazi, mentre i cacciatori di classiche, Bartoli in particolare, ma anche Rebellin, han messo assieme qualcosa di importante. Le stesse forzate assenze di Pantani per infortuni, hanno creato opportunità inesistenti durante il dualismo. Altro aspetto: nel periodo del Pirata sono nati come funghi fans club per altri corridori, mentre nel mosersaronnismo, ciò era impensabile. Tra l’altro, Marco focalizzava attenzioni soprattutto sui GT, mentre un Bartoli, aveva un palcoscenico non piccolo da marzo a maggio, indi da agosto ad ottobre. Con Moser e Saronni l’asfissia continuava tutto l’anno, anche se nelle corse a tappe erano solo dei normali, ed il Tour non lo facevano. Nel periodo di Marco, inoltre, non sono state cancellate icone come quella di Cipollini, anzi. Nelle squadre del Panta, finivano più che altro corridori esperti o ormai assunti al ruolo di spalla, mentre in quelle della diade, corridori come Natale, Barone, Riccomi, Bortolotto, Beccia, Gregor Braun, Mazzantini, Torelli, Piovani che erano, o giovanissim,i o ancora lontani dall’aver espresso il loro vero potenziale. Curiosa poi una constatazione: diversi dei nomi accennati, nonché altri corridori già riconosciuti a spalle di valore, passarono sovente dalla squadra di un componente del dualismo, all’altra. Anche questo aspetto rappresenta una rarità significativa. Marco poi, s’è messo a capo nella difesa dei diritti dei corridori e non ha mai imposto il laccio alle corse, ma i colleghi gli han voltato ugualmente le spalle, firmando un autogol di cui ancora si sentono gli echi e persino le conseguenze. Nel ’99, lo criticarono perché voleva vincere tutte le tappe di montagna, dimenticando che nessuno si azzardava a mettere in dubbio l’atteggiamento di Cipollini che voleva vincere ogni frazione per velocisti. Anche da qui si capiva la china burattinesca che hanno recitato i corridori nella sua vicenda massima: dei perfetti lacchè al già imperante mondo dell’assurdità e della negatività dei dirigenti più piccoli dell’intera storia dello sport. Un ultimo particolare che solo uno che ha vissuto le strade del mosersaronnismo può capire, ci viene dalla tremenda giornata di Campiglio, su quel Mortirolo che aveva eletto Marco a scalatore alato. Il suo pubblico, incazz.ato e ferito, nelle entità di centinaia e centinaia di migliaia di persone, lasciò passare il Giro senza lasciarsi andare all’insultò pesante, per non dire… alla pressione semifisica che tanto il tifo mosersaronniano aveva espresso verso un Visentini o un Baronchelli. Fu una grande dimostrazione di civiltà. Se un fatto come quello, fosse successo nell’epoca del dualismo, ai danni di uno dei due, non oso pensare a cosa sarebbe successo…. [quote]Ribadisco per chi e' "sensibile" a qualunque cosa si dica sul Pirata, che il mio non e' un attacco a Marco. Sono conscio che grazie a lui moltissima gente si e' avvicinata a questo magnifico sport ma, forse, un fenomeno di tale portata a impedito la maturazione di qualche altro buon talento. Grazie in anticipo per la risposta. [/quote] Un giorno dissi ad un celebre costruttore che non ha mai legato le sue biciclette a Marco Pantani, quanto fosse stato determinante, per la salute della sua azienda, la presenza di un personaggio così grande e lui mi rispose che avevo perfettamente ragione. Marco ha arricchito il ciclismo, era il testimonial più tangibile per il mercato legato a questo sport in maniera orizzontale. Ci sono dati che dimostrano quanto la sua epopea avesse riportato il pedale a fasti superiori a quella dei comunque eccezionali anni sessanta: niente a che vedere con la tanto sponsorizzata era del duo Moser-Saronni. Era un dono piovuto sullo strumento spinto da motore umano. Un gigante francese come la Citroen, capì quanto fosse importante (mi si dica quali campioni del ciclismo, sono stato scelti per fare la figura-immagine, di un’azienda esterna alla sponsorizzazione ciclistica e straniera alla nazionalità del protagonista: nessuno!), fino al punto di scansare ogni altro richiamo, comprese le autoctone pressioni transalpine e volle legarsi a Marco. In Spagna, se parlavi male del Pirata, magari solo per problemi di lingua, ti prendevi un cazzotto. Persino i tedeschi, notoriamente nazionalisti, tra l’altro connazionali del principale avversario di Marco, nonché molto lontani dalle folle ciclistiche, quintuplicarono le presenze dei gruppi cicloturistici che sceglievano la riviera romagnola per i loro viaggi-allenamento in primavera, mentre i normali turisti abituati al mare Adriatico, scelsero Cesenatico, perlomeno come tappa di un giorno. Il tutto, senza prendere in considerazione quei singoli che, in bicicletta, chiedevano, con cartina alla mano, ai passanti delle mie zone, se quelle erano le strade degli allenamenti di Pantani. Anche per la Romagna, dunque, Marco è stato un tesoro, ma non so fino a che punto la mia terra, tanto americana pur votando a sinistra, abbia l’umiltà di riconoscerlo. Potrei portare tanti altri esempi in cui sono stato persino coinvolto, ma credo basti. Fino al giorno di un’uccisione voluta o sfruttata sulla base di una comunque evidente porcheria (anche se non conta niente, ne sono sicuro quanto i miei 51 anni d’anagrafe!), Marco Pantani è stato un bene supremo per il ciclismo ed i suoi indotti. Oggi, di quell’epopea dove anche gli avversari guadagnavano presenze televisive, nonché tangibilità nei portafogli, così ben poco capita e così vergognosamente italiana, restano solo le scorie dell’imbecillità di un ambiente che va al massacro di questo sport, mentre per chi ci deve vivere in quanto produttore, resta tangibile e coltivabile il solo terreno delle Gran Fondo. Un amaro finale, non c’è che dire….. Ciao Pedalando!


pedalando - 02/11/2006 alle 22:27

Morris, grazie! La tua risposta e' stata cristallina. Leggendola ho pensato a quanto e' stata stupida la mia domanda ma sono contento di averla fatta perche' ha permesso di avere, qui su Cicloweb, una nuova perla. Mi e' piaciuto sopratutto la storia su come i tifosi abbiano influenzato i media. Oggi sembra fantascienza l'idea che in quei castelli di vetro ci sia qualcuno disposto a chiedersi cosa pensano le persone invece che decidere a cosa farle pensare. ciao ed ancora grazie :cincin: