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Autore: Oggetto: Un esempio: Althea Gibson.

Livello Fausto Coppi
Utente del mese Luglio 2009




Posts: 4217
Registrato: Oct 2003

  postato il 07/07/2005 alle 22:17
Dopo i fatti di oggi e le discussioni, un ricordo solo all'apparenza lontano.....

Da "Segnali di fumo" ......

ALTHEA GIBSON

Ha segnato un’epoca, ed ha aperto una strada, nel suo campo d’attività, su un problema dell’umanità, ancora per tanti aspetti irrisolto. Non ho visto giocare a tennis Althea Gibson, a parte qualche vecchio ed ingiallito filmato, ma è sempre stato vivo in me il suo esempio, ogni volta che mi ponevo a raccontare quanto, lo sport, nella sua forma artistica, sia pure un segno chiaro di sociologia. Non era avvenente, come talune dalla pelle scura, pronte a recitare, spesso involontariamente, in ragione di una costumanza assai poco edificante, il ruolo di bomba sex. Era una donna che ha creato per chi può leggere e ……spero siano in tanti. E’ morta povera, ed è stata sincronica coi principi acquisiti quando, bambina, sulle strade aveva conosciuto la vita sotto un particolare alone di sfruttamento e miseria ……. Scrivere quello che leggerete, è venuto immanente…

“Ho fatto la carità, ho ringraziato Dio, per i giorni che riuscivo a superare riuscendo a mangiare qualcosa. Per un sorriso dei miei genitori, sono stata sulla strada, a farmi schernire dai bianchi che mi vedevano come una scimmia, un mostriciattolo. Sono arrivata fin qua, addirittura ho potuto provare il piacere di essere presa ad esempio per una generazione di ragazze e ragazzi che, come me, han provato la povertà più cupa, quella che non lascia spazio ai giochi. Sono divenuta persino famosa, ora posso morire in pace e raggiungere chi mi ha voluto bene. Grazie mio signore!”
Con queste ultime parole, raccolte come un eco che include il segno di quel dramma razziale e le tante imperfezioni di un’umanità che ha risolto poco dei suoi problemi, se ne è andata, ieri, dopo una lunga malattia, Althea Gibson, la prima donna di pelle scura, che s’è eretta sul trono di quel tennis, tanto spesso scambiato per sport di nobiltà e di conti in banca. Lei, la pantera, che ha tanto fatto discutere l’ipocrisia del gigante americano, segnando profondamente un’epoca. Lei, che fece scandalo, perché una “scimmia” non poteva sporcare la purezza ricca dei campi verdi, fino a far inorridire le signore lorde di make-up, di rossetti, di ventagli e quegli occhiali scuri ben aldilà del sole. Lei, Althea, è morta in povertà, su quei risparmi via via sempre più ossuti, col ricordo di diversi libri scritti senza business, e tanto impegno sociale verso i più deboli. Lei, non ha mai dimenticato le origini, il suo cuore e quelle vie di Harlerm, dove, per uno spicciolo, doveva accarezzare la cattiveria e la sporcizia dell’uomo bianco. Come dimenticarti, Althea, anche se non t’ho mai vista quando aggraziavi platee più democratiche, intelligenti e mature, o quando ti lanciavi nelle esibizioni in Europa, con quei tuoi amici del basket, tutti neri e giocolieri figli anch’essi di Harlem. Sì, non ti dimentico, perché si sono sfumati i contorni, ma la sostanza del dramma che t’ha vista dipingere su una tela che non volevi immaginare, è rimasta. Tanti dei tuoi fratelli, nostri fratelli, si sono adeguati all’ignavia mondiale e alle contraddizioni copiose dello stato che t’ha dato anagrafe, a quei Lewis, a quei Johnson, a quei Leonard, a quei Jordan, a quei Simpson, che han dimenticato e che si sono eletti a normalizzazione di soprusi, di vergogne, di inciviltà, per godersi il riflesso cieco del danaro, del lusso e delle macchine, fini solo al diavolo che cosparge la nostra esistenza.
Tu, come Tommie e quel suo coerente pugno nero, nel tuo segno invisibile hai continuato a lottare come quando, sul campo, superavi l’ostilità, ed annientavi le avversarie. Althea, anche se pochi ricorderanno il tuo messaggio, i tuoi libri, la tua voglia di vivere quei sorrisi che ti negarono dalla placenta, sei stata qua per insegnare e dare. Anche se pochi ti saluteranno col groppo in gola, il tuo tratto è integerrimo, pulito, profondo fino a cantare la vita. Non è circostanza Althea, è quel fervido ringraziamento che lega la passione e l’arte del tuo gesto, a quel mondo che viviamo, spesso, soffocati dall’interesse che falsi democratici, reali solo nel loro essere burattinai, imprimono su milioni o miliardi di oche dal corpo umano.
Sei una da immolare ad esempio. Ricordalo quando sorriderai e potrai dare, senza affronti, carezze a quei pochi che vorranno vivere senza morire nell’ignavia e nell’ipocrisia.
Tu hai provato cosa significhi giocare nel tempio del tennis di Forest Hills, con migliaia di persone che gridavano contro di te, non perché giocavi male, ma per la tua pelle da schiava. Grazie Althea. Grazie per averci fatto capire che si può essere grandi, intelligenti e disponibili, senza diventare vip e senza avere il lordo portafoglio, spesso amico dei soli criminali.
Ricordi, quando a Kooyong, in quella Melbourne che si elesse, d’improvviso, punta dell’orgoglio anglosassone, ti accusarono di professionismo e tu rispondesti che era ora di smetterla con l’ipocrisia e che giocare a tennis era diventato il tuo lavoro? Era quello che ti consentiva di non razzolare il pane fa quel tanto ammuffito e secco, raccattato sulle strade di New York, ma dicesti che tu non dimenticavi e che tutto era preso per dare. Li annichilisti e non dissero più nulla e tu continuasti a vincere.
Ricordi le urla di sacrilegio, quando ti videro affrontare nel 1950, prima nera con gonnellino bianco, a Forest Hills, la un poco “pomposella” Barbara Knapp? Costei era ben sicura di batterti, credeva di avere dalla sua la forza d’una razza eletta, eppure tu la seppellisti con un perentorio 6/2 6/2. Porta con te, e trasmettilo la notte, nei sogni di quei fratelli citati che hanno ripudiato uno status per ergersi a nullità, quel che ti disse, nel 1948, il dottor Reginald Weir, nero come te, che era riuscito ad elevarsi ad un piccolo qualcuno fra le racchette e riusciva coi soldi guadagnati dalla professione e dalla sua bravura, a trovare spazi: “Ora, mia Althea, basta coi tornei per soli neri, troverò il modo di farti giocare con le bianche e tu emergerai perché sei un talento e questi non ha colore!” Quanti echeggi ci sono del tuo segmento di vita, ma tu continuerai a costruirli anche da quello che, per noi, è ancora incomprensibile. Lo farai, perché quella sei tu, Althea, un’immortale nel messaggio, che ha usato il tennis per testimoniarsi e per generare.
Là, dove non ci sono differenze di pelle e dove le nostre proiezioni, credenti o meno, finiranno per fari i conti con la coscienza nella sua realtà cosmica, nessuno potrà evitare i tuoi significati. Quelli che hai vissuto da donna e da atleta, ma che sono universali per tutti, se abbiamo forza sufficiente per essere onesti con noi stessi.
Il nostro, non è che un arrivederci, Althea!




Chi è stata la Gibson

Nata a Silver in South Carolina il 25 agosto del 1927, si trasferì con la famiglia, poverissima, in New York all’età di tre anni, nel settembre del 1930.
Del suo status, ebbe subito consapevolezza, ed a cinque anni, già si guadagnava da vivere, con la carità e gli espedienti che legavano decine di migliaia di bimbi neri. Cresciuta fra tanti coetanei maschietti, conobbe il tennis rudimentale sulle strade, solo dopo aver dimostrato di avere forza ed imponenza sufficiente, per stare alla pari con loro. La sua famiglia, intanto, continuava a vivere di stenti, ma Althea ebbe la fortuna di conoscere il Dott. Walter Johnson, un medico che era attivo nella comunità nera del tennis. Diventò subito il suo “patrono” (successivamente lancerà anche Arthur Ashe, il campione “nero” di Forest Hills 1968 e Wimbledon 1975). Attraverso il Dott. Johnson, la Gibson, conobbe l'istruzione e il lancio nel tennis, ma solo a livello di tornei separati da quelli dei bianchi. Alta e ben proporzionata, con un atletismo di nota, Althea, sull’onda dei successi di Reginald Weir, poi divenuto medico, riuscì, dopo anni di convivio con la fame e gli stenti, ad esordire, prima donna nera, a Forest Hills, nel 1950, alla già significativa età di 23 anni. La maturazione della Gibson verso i vertici fu lenta, ma tangibile. In lei persistevano le difficoltà degli impatti con l’ostilità dell’ambiente e quei trucchi, non certo molto edificanti, di avversarie che, conoscendo la sua forza, trovavano sovente espedienti per farla innervosire. Entrò nella “Top Ten” americana nel 1953, ed in quella mondiale nel 1955. Il suo gioco si basava su un servizio molto potente e sul classico “serve and volley”, ma a differenza delle più, cominciò presto ad adeguarsi al gioco da fondo campo, tanto comune in Europa. Ed infatti, nel 1956, venne a Roma e vinse subito gli Internazionali d’Italia. Venti giorni dopo, trionfò al Roland Garros, il tempio della terra rossa, conquistando così il suo primo titolo valevole per lo slam. A Parigi, vinse pure nel doppio, in coppia con l’inglese Angela Buxton. Sempre con la medesima compagna, s’aggiudicò anche il titolo di Wimbledon. A Forest Hills fu finalista, sconfitta dalla connazionale Shirley Fry.

Grandioso il suo 1957. A trent’anni, raggiunta la piena maturità, la Gibson vinse il titolo di doppio con la stessa Fry, agli Internazionali d’Australia sul Kooyong Stadium. Fu poi battuta dalla compagna, nella finale del singolare. A Wimbledon, stroncò una dopo l’altra le avversarie, fino a conquistare il celeberrimo piatto, nella finalissima contro Darlene Hard. Era la prima nera che azzittiva il Lawn England Tennis londinese. Quaranta giorni dopo, anche Forest Hills si inchinò al suo gioco. L’ultima a cedere, fu la leggendaria Louise Brough. A fine anno vinse pure la Wightman Cup, una manifestazione molto simile alla versione femminile della Coppa Davis. Ovviamente fu eletta numero uno del mondo.
Il 1958 ricalcò il suo dominio. Ancora una vittoria a Wimbledon, con successo finale su Angela Mortimer e vittoria in doppio, in coppia con l’avvenente brasiliana Maria Esther Bueno. Nuovo successo in singolare ed in doppio a Forest Hills, con vittoria nella finalissima sulla “solita” Darlene Hart e nel misto in coppia con Nielsen. La vittoria nella Wightman Cup, segnò il suo secondo anno consecutivo come prima tennista mondiale e il suo passaggio al professionismo. Il gioco fra i cosiddetti “vagabondi, come allora venivano chiamati i “prof”, le procurò quei danari che fino ad allora aveva sempre visto con tanto di contagocce. Attrazione, per il suo status e per l’abbinamento che la elesse partner degli Harem Globetrotters, si esibì su tantissimi parquet mondiali e, soprattutto, europei. Quei fondi velocissimi, esaltarono il suo gioco spettacolare. Nel 1960, fu opposta alla fortissima professionista Karel Fageros, uscendo vincente su 118 incontri ben 114 volte. La “nuvola nera” delle esibizioni coi giocolieri del basket, rese ad Althea la bella somma di 100.000 $!
Nel tennis però, nessuno voleva più incontrarla, anche perché il risultato era pressoché scontato e gli organizzatori nell’impossibilità di proporla a credibili confronti, cominciarono a disertarla. Passò così al golf, sport per il quale si mostrò subito tagliata, ma il gap di aver iniziato a praticarlo così tardi, non poteva essere cancellato. Quella disciplina però gli dava da vivere e lì conobbe colui che per una decina d’anni fu suo marito, il signor Darben. Nel 1968, all’apertura dell’era “open”, a 41 anni, non se la sentì di tornare al tennis. Iniziò così una carriera pubblicistica e tanta, tanta, assistenza verso chi era stato sfortunato, o per status o per le vicissitudini di vita. Dall’alba degli anni settanta, non s’è mai allontanata da questo dovere sociale, fino a morire, ieri, a settantasei anni, povera come quando era nata. Nel 1971, è stata inserita nell’Hall of fame di tennis.




Ad Althea

......Dammi un segno di cuore
non rivolgermi ribrezzo
non usarmi per esaltare istinti
accarezza la tua immagine
guardando me come te.
Dammi una tua cornice
saprò riempirla di significati
cercherò di farne mantello
che ti difenda dal freddo d’altri
e ti renda invisibile ai bruti.
Dammi la tua mano,
come la mia trema
per la maestosità d’una vita
vissuta su un percorso
di medesimi idiomi e viali.
Dimmi una parola
che giunga serena a me
come lo specchio
che ci confonde nell’amore
e ci fa vedere una faccia sola.
Uomo, donna, anche questo è Dio.....

Morris

 

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"Non discutere con gli stupidi, perchè scenderesti al loro livello e ti batterebbero per la loro esperienza".

 
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Livello Fausto Coppi




Posts: 6314
Registrato: Jun 2005

  postato il 07/07/2005 alle 22:27
Condivido in pieno tutto.
Questa parte in modo particolare :

"Là, dove non ci sono differenze di pelle e dove le nostre proiezioni, credenti o meno, finiranno per fari i conti con la coscienza nella sua realtà cosmica, nessuno potrà evitare i tuoi significati. Quelli che hai vissuto da donna e da atleta, ma che sono universali per tutti, se abbiamo forza sufficiente per essere onesti con noi stessi".

se abbiamo forza sufficiente per essere onesti con noi stessi".
!!!

 

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"MEGLIO NON ESSERE RICONOSCIUTO PER STRADA CHE ESSERLO ALL'OBITORIO.
IL CASCO SALVA LA VITA, LA CHIOMA VA BENE PER LA FOTO SULLA TOMBA"!!!


Articolo 27 della costituzione Italiana

La responsabilità penale è personale.
L'IMPUTATO NON E' CONSIDERATO COLPEVOLE SINO ALLA CONDANNA DEFINITIVA.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte.

 
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